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Autore: AmyJane    24/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La cena

1.

Londra, University College Hospital.

L'adolescenza per la piccola di casa Blomst non era mai stata bella quanto un cielo azzurro, ma tetra quanto le plumbee mattinate della campagna inglese. Persino il sole si era fatto freddo durante il tragitto quotidianamente intrapreso per giungere alla Bradfield School, un mattone bianco in mezzo a tondeggianti collinette ricoperte da immensi tappeti di morbida erba.

Le lezioni erano sempre state le stesse e le persone erano sempre state le stesse, spente nelle loro ordinate uniformi scure e nel loro camminare lento durante le rapide pause concesse dal personale. In quel periodo, non era mai esistito migliore rifugio di un parco-giochi abbandonato adiacente alla struttura, un piccola porzione bruna e trafitta dalle metalliche aste di qualche altalena cigolante. Proprio su quel sedile scrostato Gwen era solita appoggiarsi per meglio tenere la presenza lontana dalla chiacchiere dei suoi compagni e dal dinamismo delle comune giornate scolastiche.

La solitudine forzata era sempre stata un'arma vincente dinnanzi a tutto il trambusto di emozioni e quel contatto con altri coetanei. Molto meglio era stato riuscire a reperire una scappatoia e cedere solo allo stridente suono dell'altalena, al cantare malinconico della pioggia.

Nessun amicizia era mai riuscita a scoccare la scintilla all'interno dell'anima della ragazza, più che tendente a lasciare mascherati i propri indistruttibili disagi. Da sempre era stata etichettata all'interno della famiglia com un essere totalmente differente da quello avrebbe dovuto essere, la spina di un fiore e non il bel petalo delicato.

L'autostima si era consumata sotto le critiche della sorella maggiore e molto arduo era stato agognare alla bella sensazione della fiducia. Tutto si era tramutato in un infinito attimo ricolmo di tristezza e poche erano stati gli sprazzi dell'adolescenza desiderata. Riuscire a conquistare l'attenzione di un ragazzo era stato un qualcosa di inaspettato quanto il ghiaccio nei deserti californiani. Andrew Radcliffe – detto Kermit, la rana – era sembrato un ottimo amico durante quel quindicesimo anno di esistenza, ma solo per un periodo limitato.

Presto le bugie erano giunte e si erano tramuta in pressioni, le pressioni in un insopprimibile senso di colpa e il senso di colpa in scelte discutibili. Gwen era stata solo una preda perfetta, poiché attaccabile e constante bisognosa di affetto. Era stato molto facile manipolarla e renderla una bimba obbediente e pronta a rischiare qualsiasi cosa per trattenere quel poco di amore mai raggiunto nel corso degli anni.

Gli errori erano sopraggiunti come una condanna e, quando quell'insano rapporto si era finalmente dissolto in ricordi dolorosi, non era rimasto molto. La ragazza si era data mentalmente della stupida e, accettando le ferita, si era imposta di dimenticare l'accaduto e – dopo il giusto tempo – anche ad accogliere tra le braccia la compagnia notturna di uomini appena conosciuti per semplice passatempo.

L'adolescenza si era dissolta e anche i suoi problemi avevano lasciato il posto alla terribile età adulta, agli studi e alla carriera da intraprendere. Tuttavia, ancora complicato era riuscire a porre la preziosa fiducia in qualsiasi persona esistente. Il destino, sicuramente, non era riuscito a tenere in conto il passato della donna e le aveva elargito l'ennesima opportunità, un nuovo pacchetto da scartare.

Di certo John Watson, tra tutti i pacchi, non era il più allettante: forse la sua carta, per quanto ancora intatta, era troppo usurata dal tempo e il fiocco in cima e si era disfatto. Il contenuto, però, era un ottimo sostegno a cui aggrapparsi in quei giorni di follia.

Gwen non era riuscita a ignorare l'ossitocina, la dopamina e tutte le altre sostanze chimiche che si erano diffuse nella testa del suo medico scatenando tremoli, dilatando le sue pupille, accelerando le palpitazioni. Tutti i sintomi dovuti alla fase di una prima infatuazione si erano palesati.

E se gli dessi corda? 

Il dubbio rese la donna frastornata. Tale condizione, però, scemò nel momento in cui l'imputato, John Watson, comparve alla porta della asettica stanza ospedaliera, macchiando con le sue vesti scure il freddo bianco dell'ambiente circostante.

«Sono venuto a prenderti. Come promesso» disse lui schietto, reggendo una busta scura e contenente e materiale soffice e colorato, abiti lanosi e caldi.

«È la mia ricompensa per essere stata una buona paziente?» chiese Gwen, sorridendo.

«È gennaio e siamo a Londra. E si suppone che faccia freddo a Londra... a gennaio.» John andò presso la donna e le porse la busta, con il suo consueto modo di fare impacciato. «Potrei lasciarti camminare per Londra con il pigiama sanitario, ma sarebbe una pessima idea.»

«Molte grazie» disse la donna, divertendosi a scandire con tono ironicamente pomposo ogni fonema. Dopodiché prese la busta penzolante e ne ispezionò con attenzione il contenuto. «Perfetto... Puoi aspettarmi fuori, adesso. Sai, dovrei cambiarmi.»

«Oh, sì. Certo.» L'ex soldato abbandonò la sua condizione da uomo distratto. Infine, s'affrettò nell'abbandonare la stanza il prima possibile e con falcate troppo grandi persino per la sua bassa statura.

2.

Londra, Old Park Line.

Tra i tanti ristoranti giapponesi, il Nobu London era sicuramente uno dei più gettonati della capitale inglese. La sua atmosfera soft sembrava emanare tranquillità a qualsiasi uomo varcasse l'ingresso della costruzione. L'interno, effettivamente, era tinteggiato da una luce calda e soffusa che riempiva le pareti e dava splendore agli ampi tavoli circolari, fiancheggiati da estrosi divani tondeggianti. Per di più, articolate ramificazioni di ciliegio, si arrampicavano fino al tetto, per poi cingere gli angoli di ogni camera. Una maestosa raffinatezza, di certo, glorificava ogni singolo spazio, dalla possente zona bar alla sala principale, addobbata con peculiari mosaici perlescenti.

«È lussuoso più dentro che fuori.» Gwen, nei suoi abiti scomposti e minimalisti, sentì l'impellente necessità di fuggir via e abbandonare quell'ambiente così opprimente.

«Forse un po' pretenzioso?» commentò John, del tutto a suo agio nonostante l'abbigliamento sciatto e poco consono a quel luogo.

Un dubbio destò la mente della donna, che era sin troppo consapevole degli scarsi guadagni sia del detective che del medico. Entrambi campavano con il reddito dei singoli casi e, molte volte, si erano ritrovati a rifiutare persino del denaro extra dal parte di un misterioso benefattore del Diogenes Club.

«Devo proprio chiedertelo. Possiamo realmente permettercelo?» domandò lei, soffiando le parole scherzose con una astuta discrezione. «Sai, le mie ferite mi impediscono di scappare, anche se necessario.»

«Immagino si spenda molto qui» confermò l'uomo tranquillamente. «Ma scappare è fuori questione. Per questa notte ci accontenteremo di mangiare in questo posto.»

Non aveva mai messo piede al Nobu e non era sua intenzione farlo, ma il destino aveva voluto ciò e la combinazione degli eventi era stata irrefrenabile, particolarmente insolita.

«Ne sei davvero sicuro? Niente piano di fuga?» chiese Gwen, sempre più perplessa. «Mangiare a casa era così inopportuno, stasera?»

Pose le domande, senza più nemmeno domandarsi il perché scegliere proprio quell'esuberante ambiente.

John prese coraggio e s'addentrò nella sala principale, invitando la donna a seguirlo tra la clientela ben agghindata per un'occasionale cena nel Mayfair, quartiere agiato e pieno di lussi. Passo dopo passo, mise su una semplice spiegazione.

«Sherlock ha portato dei campioni dall'obitorio e adesso il frigorifero è pieno di carne... carne che non mi piace definire commestibile. Be', a meno che...»

«A meno che non mi trasformi in una delle creature di George Romero.» [1]

«Sì, hai colto nel segno» aggiunse John.

Gwen non amava la carne e parte del suo pallore era dovuto a un leggera anemia causata dalla carenza di ferro e dalla discontinua consumazione di proteine animali. Il filetto alla Wellington era la sua unica eccezione e, di certo, non si sarebbe piegata all'antropofagia.

«Che mi dici Mrs. Hudson? Il suo frigo è sempre pieno di cibi surgelati. Potremmo chiederle qualcosa da scongelare.»

«Non credo. Stasera ha la serata di Poker con un suo... con il panettiere. Non tornerà prima di domani mattina.» John si sedette presso uno dei tavoli laterali e incitò la donna a fare lo stesso. «Ma per quanto ne so, questo è l'unico luogo dove chiuderanno un occhio, considerando che Sherlock ha lavorato a un caso ed è riuscito a tirare il proprietario fuori da grossi guai. Lo ha salvato da un'accusa d'omicidio premeditato.»

La bionda piegò le labbra, lasciando esposta la sua dentatura perlacea. Dopo la zuppe insipide, patate lesse e puré di carote, sentì la forte necessità di ripagare il suo stomaco con piatti calorici e saporiti. La cucina giapponese, dopotutto, era un buon compromesso dopo giornate di digiuno e cibo ottenuto clandestinamente.

«Tu stai parlando di un pasto gratis.» Le iridi nere caddero sui camerieri e i loro piatti ricolmi di prelibatezze come tartare di salmone, succulenta carne d'anatra caramellata e gamberi con salsa. «Sicuramente un ottimo pasto gratis.»

La ragazza si sistemò come meglio poté. Cercò di portare qualche abbondante ciocca dietro l'orecchio, stirò con le mani il maglione e arricciò le maniche con precisione millimetrica. La consumata stoffa informe e dalla dubbia origine, soprattutto se paragonata alle griffata seta delle altre clienti. John non mancò di osservare il comportamento dell'accompagnatrice, che intanto lanciò rapide occhiate sul vestiario di qualsiasi figura femminile. 

«Stai bene» farfugliò, fingendo disattenzione.

Gwen inarcò le sopracciglia, ben esternando il suo ragionevole disappunto.

«Oh, le tue parole sì che mi danno conforto» scherzò, leggermente delusa, ma quella affermazione così innocua assunse un altro significato. Se non fosse stato per la clemenza del medico, nemmeno avrebbe avuto di che coprirsi. «Oh, non che stia dicendo che... tu sei stato gentile... molto gentile e...»

John rimase impassibile, sino a quando la cameriera giunse con un tablet, una bella camicia di seta e tanta cortesia.

«I sini-ori ordinano?»

Gwen rimase interdetta e, ciancicando scuse, srotolò rapidamente il menu accuratamente richiuso come un'antica pergamena decorata con idiomi. «Mi imbarazza ammetterlo ma non sono mai stata in un ristorante giapponese.»

John, in quel preciso momento, aggrottò la fronte e compensò alle mancate richieste con un dito sul foglio spesso. Ordinò i pochi sapori nipponici a cui era abituato ma, poco dopo, la superficie legnosa fu imbandita con altre pietanze ricche e appetitose. Sulla porcellana candida erano state depositate prelibate tipologie di sushi, anguilla caramellata, tempura, tentacoli di polipo, zuppa d'aragosta, sashimi di branzino, tofu e gelato al tè verde.

Ignorando tutto quel cibo, già posizionato sul legno, una secondo cameriere mosse passi svelti verso Gwen e il suo accompagnatore, poggiando sul poco spazio superstite, un pregiatissimo vassoio esotico con sopra due bicchieri, una delicata teiera e una larga bottiglia contente un fulvo liquido trasparente.

«Omaggio della casa, per Mr. Sherlock Holmes» disse il cameriere, ricalcando un perfetto accento britannico e, nel frattempo, cimentandosi in un tipico inchino orientale.

«Quanto era grossa quell'accusa di omicidio?» farfugliò ironicamente Gwen. «Conoscendo la dieta del tuo coinquilino, questo mi sembra incredibile.»

Sherlock Holmes e il suo collega di certo non avevano casseforti ricolme d'oro e gioielli. Ciononostante, erano molto conosciuti tra i londinesi come dei supereroi di un contesto quotidiano.

«Tetradotossina. Una delle neurotossine più mortali al mondo. È contenuta nei pesci palla. Qui li servono, dopo averli sfilettati con attenzione. Gli incidenti capitano.» John afferrò il collo della bottiglia e agitò il suo ambiguo contenuto, così da passarlo a un attento giudizio. «E questo?»

«Ume-shu» rispose il cameriere, gentilmente. «È succo di prugna!»

«Succo di prugna?» domandò una Gwen, titubante.

Analizzò con attenzione il liquido incriminato, ben constatando che qualsiasi cosa esso fosse, si discostava sin troppo dal tipico consistente succo di frutta. Quella bevanda era ambrata, cristallina e terribilmente assomigliante a un buon bourbon americano.

Il giapponese, prima di licenziarsi da quella situazione, aggiunse un semplice: «Bisogna metterci dentro l'o-cha, il tè...»

La donna presto scoperchiò la teiera, sprigionando un caldo vapore aromatico che ben simboleggiava le più preziose fragranze di un Sol Levante ancora pregno delle sue antiche tradizioni.

«Sì, penso di aver capito» confermò, seguendo con il naso quella nuvola profumata e lasciandosi coccolare dal torpore. Lesta, prese i bicchieri, ci versò il tè caldo e, infine, aggiunse l'ume-shu.

«Subito al dunque» farfugliò l'ex soldato.

«Niente brindisi» dichiarò lei infine, trascinando il minuscolo boccale verso l'altro commensale apparentemente perplesso e poco disposto a sperimentare dei sapori sconosciuti.

«Be', se proprio ci tieni» disse lui stranito, portando alla bocca quella calda bevanda aurea.

Le loro lingue, in breve, s'impregnarono di un liquido estremamente zuccherino, ma allo stesso tempo piacevolmente acidulo e con un retrogusto simile a quello del dolce vino bianco francese. Il bruciore grattò le loro gole, testimoniando la presenza di una buona percentuale alcolica.

«Oh, questo non è succo di prugna!» affermò Gwen, roteando giocosamente il bicchiere.

Dopo molto tempo, la sua bocca aveva accolto un po' di ottimo alcol che, scendendo, aveva intorpidito il suo esofago e cominciato a sciogliere le sue membra, regalandole una sensazione da tempo assopita sotto la professione, gli impegni e le responsabilità.

Sempre più desiderosa di bere la bionda cinse con le dita il vetro freddo e liscio, ma John la bloccò, immobilizzando delicatamente la sua mano per poi allontanarla da quel nettare ambrato.

«No. Non è succo di prugna. E preferirei che non ne bevessi ancora. Non potrai più prendere i tuoi antidolorifici e passerai una... pessima nottata.»

La ragazza sbuffò e riportò con sveltezza il soave liquore a sé.

«Da quel che ne so, anche l'alcol sa essere un buon antidolorifico. Dicono sia anche migliore del paracetamolo. E alla fine, è solo per questa notte» disse, esibendo un che di supplichevole. Euforica, fece colare il liquido nel proprio bicchiere di scintillante porcellana.

Concedersi un bicchierino era per John Watson un'abitudine non perfettamente consolidata nel tempo e questo perché l'idea d'imitare il cattivo esempio della sorella lo incentiva più volte ad astenersi dal consumare troppo alcol nell'arco delle settimane lavorative. Eppure, quella sera, l'irrefrenabile voglia di bere aveva avuto la meglio su di lui e ben presto la dolce bevanda giapponese aveva cominciato a giocare con i suoi sensi, sempre più confusi e alterati. 

John cercò di serbare tutta la lucidità che gli era rimasta e, come l'adulto della situazione, tenne stretta a sé il corpo di una Gwen barcollante a causa di passi tremolanti. Il cosiddetto succo di frutta si era rivelato qualcosa di ben più pungente: un forte distillato ricavato dalle acerbe prugne del Giappone, una bevanda che ben si accompagnava al dessert, ma che poteva essere devastante se consumata senza dei limiti.

La cliente era riuscita a mantenersi sobria per solo metà pasto, ma poi aveva cominciato ad accusare la prima sintomatologia dell'alto tasso di alcol nel suo sangue. Il distillato, purtroppo, aveva completamente annebbiato ogni sua capacità, sciogliendole la sua lingua e regalandole risolini incontrollabili. Persino sorreggersi autonomamente divenne arduo e la ragazza fu costretta a premere la testa e il busto sull'ex soldato che si fece, in tutto e per tutto, un bastone umano.

Entrambi arrancarono in direzione della stazione metropolitana di Green Park, fendendo gruppi di gente che, bighellonando, rivestiva ogni singolo centimetro del marciapiede. Incurante dei turisti e dei comuni londinesi, John continuò a muoversi, cingendo con il braccio la vita dell'accompagnatrice che, con il solo respiro, solleticò il suo collo.

«Tutto bene?» chiese, notando la sonnolenza della donna.

Gwen sorrise e, con uno sguardo estasiato, schiacciò la guancia sulla spalla del medico. «Sei così gentile, tu... a preoccuparti per me» biascicò lei, quasi miagolando. «Non sei come Kermit, la rana... non lo sei. Tu sei come... Non lo so come sei, sei... Tu... Tu...»

Comprendere di cosa la donna stesse blaterando, era troppo difficile per John, che preferì ignorare quelle sue folli e scombinate frasi dall'inintelligibile senso. Si limitò a soffocare una risata e a stringerla ulteriormente, per poi asserire:

«Niente più alcol, Gwen... per molto tempo. Gli antidolorifici...»

Lei sorrise e i suo occhi scuri catturarono una luce tutta loro.

«E non sei nemmeno come il tuo schizoide» continuò, strusciando il naso sul cappotto di lui.

I pensieri si rimestarono nella sua mente, lasciandole poco meno che tracce mestiche a cui aggrapparsi con le parole. Una totale confusione disorganizzò il suo linguaggio, le sue emozioni e le sue riflessioni e Gwen, abbandonando ogni decoro, cominciò a blaterare come se niente fosse. Dopodiché, lanciò le pupille all'uomo, ricominciando a sogghignare in modo incontrollato.

«Gwen», la chiamò l'ex soldato, allertato.

Senza alcun segnale, il cielo tuonò rabbioso e cominciò a espellere dalle nubi gocce sempre più copiose. La pioggia in un istante ritornò a inumidire le strade, per poi affogarle sotto litri di acqua. Londinesi e turisti cominciarono a correre, cercando riparo e persino John, per quanto preparato ai capricci del clima inglese, si comandò di prendere sotto controllo la situazione per salvaguardare la cliente troppo ebbra.

«Torniamo a casa» ordinò prima di trascinarla sotto alcuni scorci riparati dai balconi e dai margini dei tetti.

Nel momento in cui i tuoni si ricongiunsero alla terra per mezzo di crepe folgoranti, fu la ragazza a spingere lui dentro una cabina telefonica, senza prima dire parola, né esporre alcun piano. Il medico, in un battibaleno, si ritrovò dentro quello spazio esiguo, fradicio dalla testa fino ai piedi e con ancora addosso la confusione.

Gwen poggiò la schiena sulla stretta parete di quello spazio e cominciò a gonfiare il petto umido per riprendere fiato e a stirare il collo per poggiare la testa su di una superficie abbastanza solida da reggerla. Nonostante il turbinare di idee e sensazioni, si rese conto di quanto il suo fisico fosse premuto dalle braccia dell'ex soldato.

«È tutto okay?» farfugliò, gentile.

Lui ignorò i loro corpi uniti dal contatto o, almeno, tentò di farlo.

«Oh, sì... diciamo di sì» rispose, impacciatamente.

La ragazza assunse un'espressione ingenua e, nonostante la lieve sensazione di colpevolezza. «Ti faccio sentire in imbarazzo.» Si aggrappò al petto del medico, sbattendo le ciglia come un cerbiatto. «Non voglio farti sentire in imbarazzo.»

L'uomo deglutì e, per un secondo, si distaccò da quello sguardo melenso, così dannatamente intrigante nella sua semplicità.

«Sul serio. Nessun imbarazzo.»

Gli occhi di lei si assottigliarono.

«È perché ti piaccio, no?»

L'uomo sembrò congelarsi nel tempo e nello spazio, ma il suo battito accelerò, pompando il sangue e scaldandogli le guance. Per quanto avesse cercato di negare quelle sensazioni così eclatanti, il sentire quelle parole sgusciare fuori lo rese capace di realizzare i fatti: di essere stato troppo tempo senza Mary e di provare attrazione per un'altra donna.

«Gwen...»

Lei si mise a fissare l'uomo con gentilezza e, presa dal tenero momento prospero, spinse il viso in avanti e molto dolcemente premette le sue labbra su quelle di lui, poggiando i gomiti sul torace. L'alcol le diede l'opportunità di procedere a briglia sciolta con quel bacio, di smettere per un istante e poi ritornare a giocare dischiudendo leggermente la bocca per stuzzicare il suo medico, attonito e completamente impreparato a quel gesto.

John, manipolabile come creta, approfondì quel contatto, lasciandosi trascinare dai sensi sempre più amplificati dalla peccaminosa bevanda che aveva preso possesso del suo raziocino. I suoni divennero remoti, il tempo parve rallentare il suo corso e il movimento circostante sembrò arrestarsi definitivamente.

Per la prima volta, dopo diverso tempo, la sua mente si fece priva di qualsiasi ingombrante pensiero: nessun problema, nessun imprevisto, nessun affitto da pagare, nessuno coinquilino snervante, nessun omicidio. E soprattutto, nessuna Mary.

3.

Coleford, Gloucertershire

La foresta di Dean era un infinito agglomerato di flora differenziata da una vasta gamma di brillanti colorazioni. Il verde lambiva la corteccia di alberi secolari, i cui numerosi rami si contorcevano al soffiare del gelido vento invernale. Le foglie, malconce e friabili, avevano ceduto via la propria clorofilla in cambio di un caldo colore aranciato che macchiettava le diverse aree di quella selva, apparentemente immensa. Inoltre, minuscoli fiori di un tenero lilla, intrepidi, erano spuntati fuori nonostante le spine di ghiaccio.

In mezzo ai tronchi e al terriccio, un'enorme ed elegante struttura, ergendosi con i suoi due piani, faceva la sua gloriosa comparsa: era una magione tradizionalmente inglese, costruita con mattone rosso e accuratamente rifinita con particolari biancastri. Una lunga serie di colonne accompagnava l'entrata principiale, anticipata da un lunga e ampia scalinata che serpeggiava lungo un prato non molto curato. Proprio accanto a essa, un disteso spazio esterno era stato dedicato al parcheggio di alcune auto prestigiose, le cui scure finestre erano state ridipinte da un aggregato di fiori di ghiaccio.

Oh, avrei potuto intuirlo.

Così pensò il detective, contemplando il tocco dell'inverno sulla gelida superficie di una Porsche. Se solo fosse stato più attento ai particolari della strada, quel giorno a Baker Street, si sarebbe accorto della brina sull'auto della donna per poi dedurre l'esatta destinazione.

Nel Gloucestershire, il cielo sereno e l'assenza di nebbia avevano favorito la dispersione di calore solare ma il punto di rugiada – per quanto inferiore a zero gradi – era maggiore della temperatura superficiale e aveva causato una brina da irraggiamento. Tutte le altre zone del paese non riuscivano a soddisfare i giusti criteri per quel fenomeno atmosferico in quanto troppo soffocate dalle raffiche.

Con le fredde iridi, Sherlock puntò in ogni direzione, identificando – nonostante la fitta foresta – una vigneto che, malgrado s'espandesse per una manciata di chilometri, era costituito da viti troppo vulnerabili al gelo per generare grappoli succulenti. Compiuta la prima ispezione, giunse con la valigia alla porta e sbatté con forza la massiccia maniglia del portone d'ingresso, causando un robusto suono metallico che spezzò la solenne quiete di un paradiso bucolico. La governante fu la prima a offrire il benvenuto al detective, elargendogli una riverenza e lasciando il passaggio libero. L'uomo, allora, entrò nella lussuosa abitazione e, proprio presso la sala d'ingresso, trovò ad attenderlo la sua cliente, Fiona O'Ghallager.

«Mr. Holmes, benvenuto a Cloverfield Manor.»

La giovane salutò l'atteso ospite.

«Molto interessante» biascicò lui, toccando con lo sguardo ogni particolare. Presto un intrigante mistero sarebbe stato estratto da quelle possenti mura centenarie.

  
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