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Autore: blackjessamine    30/03/2020    19 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 2




Ole avrebbe dovuto saperlo che, accanto alla famiglia Landmann, i suoi timori di sentirsi a disagio e fuori luogo sarebbero evaporati come i residui di una pozione nel calderone di uno studente distratto.
Questo perché, semplicemente, il disagio sembrava fisicamente incompatibile con il DNA di qualunque membro di quella famiglia, e in particolare con quello di Homer.
Tutto ciò era stato chiaro alla maggior parte degli studenti che, nel 1971, si erano ritrovati ad assistere allo Smistamento dei nuovi alunni della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Lo Smistamento, per gli studenti più anziani, era sempre stato fonte di sottile irritazione a causa degli stomaci brontolanti e di malcelato interesse nei confronti di quei bimbetti dagli occhioni spalancati che se ne stavano impalati davanti a studenti e insegnanti: Prefetti e Caposcuola si domandavano quali fra quei faccini spaventati avrebbero presto dovuto rassicurare e guidare attraverso il dedalo di corridoi e scale per arrivare alla propria Sala Comune; fratelli, sorelle, cugini, amici non facevano che cercare lo sguardo dei parenti più piccoli, curiosi di vedere confermate tradizioni familiari o di incontrare nelle parole del Cappello Parlante una più o meno piacevole novità; gli altri studenti, invece, sembravano interessati solamente a capire quali fossero i marmocchi che avrebbero dovuto allontanare dalle poltrone migliori nel loro Dormitorio.
Eppure, il primo settembre 1971 portò presto un mormorio tutto nuovo nella Sala Grande: fu un mormorio graduale, che cominciò con qualche occhiata confusa alla fila di nuovi arrivati, proseguì con scambi di sopracciglia sollevate fra gli studenti più attenti, crebbe con qualche bisbiglio e risatina, e infine venne a stento soffocato fra congetture e dita malamente nascoste, puntate in una sola direzione.

Ole, quella sera, era stato inizialmente troppo occupato a pensare al contenuto del suo baule per prestare attenzione a quel mormorio. Aveva il terribile, terribile sospetto di essere stato, come sempre, fin troppo distratto nel preparare i suoi bagagli: aveva un vago ricordo di aver impilato disordinatamente le pergamene su cui aveva svolto i propri compiti durante le prime settimane di vacanza, ma proprio non riusciva a ricordare il momento in cui quelle pergamene avevano abbandonato la scrivania per trasferirsi nel suo baule. Ah, sarebbe stato proprio il colmo, quello: aveva rispettato alla perfezione il suo programma per terminare tutti i compiti il prima possibile, ed era anche certo di aver fatto un discreto lavoro, e ora probabilmente avrebbe comunque cominciato l’anno con un brutto voto da recuperare in ogni materia! Magari avrebbe potuto fare un salto in Guferia e mandare a suo padre una lettera in cui gli domandava di spedirgli i suoi compiti, ma aveva il vago sospetto che, così facendo, avrebbe condannato il povero gufo a schivare la scopa che l’uomo avrebbe brandito con aria minacciosa, mentre sibilava improperi a proposito di quella scuola di strambi che stava trasformando suo figlio in un mollaccione fuori di testa.
Fu Eloise Pearson, con una gomitata fin troppo entusiasta, a distogliere Ole dalle sue riflessioni, obbligandolo a rivolgere lo sguardo alla lunga fila di ragazzini del primo anno in attesa di indossare il Cappello Parlante.
“Ole! Ole, hai visto? Non ti sembra un po’ troppo alto, quello?”
Eloise si mordicchiò piano una lunga unghia smaltata di giallo, stringendo gli occhi con fare sospettoso. Anche una persona completamente priva di empatia avrebbe compreso che ciò che agitava Eloise era, soprattutto, irritazione. Irritazione, sì, perché se c’era una cosa che Eloise detestava era proprio non sapere che cosa stesse succedendo. E, seguendo lo sguardo della compagna, Ole si ritrovò a pensare che, in effetti, nessuno sapeva che cosa stesse succedendo. Perché lì, in mezzo a quella fila di undicenni dall’aria vagamente spaventata, c’era un ragazzo che superava gli altri di tutta la testa, e spesso anche di mezzo cappello. Alto, il volto abbronzato e atteggiato in un’espressione curiosa, il ragazzo si guardava attorno senza riuscire a reprimere un sorrisetto sereno: gli undici anni doveva averli compiuti ormai da un pezzo, eppure sembrava che per lui fosse del tutto normale incamminarsi assieme a dei ragazzini in mezzo alla Sala Grande di una scuola in cui non aveva mai messo piede. Perché, di questo Ole era certo, quel ragazzo a Hogwarts non ci era mai stato: se lo sarebbe ricordato, se lo avesse incontrato nei corridoi.
Eloise Pearson, apparentemente dimentica del fatto che, solitamente, con Ole non scambiasse più di una manciata di parole, si chinò di nuovo verso di lui, pronta a posargli sulle orecchie la sua consueta raffica di domande senza risposta e congetture varie. A Ole sembrava quasi di sentirla, la sua voce acuta che vagliava ogni possibilità per cui quel ragazzo, che doveva avere quattordici o quindici anni, si trovasse ad affrontare solo allora uno Smistamento, ma il consueto discorso del Professor Silente smorzò sul nascere quel chiacchiericcio insistente.
Fu un discorso breve e, come di consueto, pieno di momenti brillanti che però nessun apprezzò davvero, impegnati com’erano tutti a pregustare le leccornie che di lì a poco avrebbero appesantito le loro pance.
Quando lo Smistamento ebbe inizio, Ole tornò a concentrarsi sui propri compiti: pensandoci meglio, c’era la vaga possibilità che le sue pergamene fossero finite sotto il mantello di ricambio. La cosa che davvero lo preoccupava, però, era il kit con gli ingredienti di Pozioni: qualcosa gli diceva che forse la chiusura non era scattata nel modo corretto, e che probabilmente ora tutte le sue mutande sarebbero state piene di occhi di coleottero. Meraviglioso.
Il giovane si riscosse solamente quando un ragazzino dall’aria strafottente fu spedito, senza la minima esitazione, al tavolo di Grifondoro, fra mormorii sconcertati e sguardi curiosi indirizzati al tavolo di Serpeverde: Eloise, senza il minimo ritegno, si sollevò in ginocchio sulla panca per poter guardare meglio, e ritornò al suo posto bisbigliando qualcosa che assomigliava vagamente a un “Bellatrix Black ha fatto fondere il suo calice”.
E, in effetti, del fumo acre si stava levando dal tavolo dei Serpeverde: Ole non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi verso il tavolo dei professori per avvertire l’ondata di preoccupazione che irradiava dal professor Lumacorno.
Tra borbottii e rimproveri dei professori, la situazione tornò tranquilla, e lo Smistamento poté procedere indisturbato, concedendo a Ole altro tempo per passare in rassegna mentalmente il contenuto del suo baule alla ricerca di eventuali altre dimenticanze.
Quando la professoressa McGrannitt chiamò il nome di “Landmann, Homer”, Elosie si raddrizzò tutta, arricciando distrattamente una ciocca dei suoi lunghi capelli castani attorno all’indice. Ole avrebbe voluto ridere: aveva condiviso con Eloise tre anni di lezioni, ma non l’aveva mai vista così attenta come quando osservava il ragazzo alto attraversare lo spazio che lo separava dallo sgabello al centro della Sala Grande con un passo lento e serenissimo.
Ole, allora, si ritrovò a osservare l’espressione sul suo viso, quella calma assoluta increspata solamente da un’espressione curiosa: sembrava che quell’Homer Landmann non avesse mai conosciuto l’imbarazzo, e non fosse disposto a farlo nemmeno lì, seduto su uno sgabello troppo basso per le sue gambe da adolescente e con gli occhi di centinaia di coetanei puntati addosso.Quando la McGrannitt gli calò il Cappello Parlante sul capo, Homer Landmann non fece altro che raddrizzare la schiena: osservando la sua figura, sembrava quasi che non ci fosse niente di più logico, per un adolescente, che indossare cappelli dall’aria sdrucita di fronte all’intera scuola. E Ole, che di solito si ritrovava a interrogarsi su quale fosse il modo migliore per grattarsi il capo durante la lezione per attirare il meno possibile l’attenzione e per non sembrare un cretino fatto e finito, fissando Homer Landmann non riuscì a fare altro che pensare che quella disinvoltura, lui, non l’avrebbe avuta mai.
Mai, nemmeno se avesse potuto trascorrere tutte le sue giornate seguendo con lo sguardo i gesti di Homer Landmann per impararli a memoria.
 
Homer Landmann chinò leggermente il capo di lato e annuì piano, quasi stesse rispondendo a una domanda, e sorrise. Un sorriso soddisfatto, il sorriso di chi aveva ottenuto esattamente la risposta che sperava di ottenere, e un istante dopo lo spacco nella stoffa del Cappello si aprì, declamando a gran voce:
“Tassorosso!”
Gli applausi che lo accolsero furono entusiasti come lo erano sempre, al tavolo dei Tassorosso: in fondo, importava poco che questo Landmann di anni ne avesse undici o diciassette, perché la speranza era sempre che i nuovi arrivati fossero bravi studenti. Laurence Lafayette, neo-nominato Caposcuola, fece un cenno a Homer, strizzandosi sulla panca quanto bastava a farlo sedere accanto a sé, al capo opposto del tavolo rispetto a dove Ole ed Eloise sedevano, e Ole avvertì tutto il risentimento della ragazza per quella lontananza che le impediva di mettere per prima le orecchie sulla storia di quel nuovo studente.
 
Quella sera, Ole raggiunse le botti impilate a nascondere l’ingresso della Sala Comune di Tassorosso un pochino in ritardo rispetto ai suoi compagni del quarto anno:  mentre stava varcando la soglia della Sala Grande, infatti, Pix aveva sfondato le linee di sbarramento costituite dai fantasmi della scuola, ben decisi a impedirgli l’ingresso al banchetto, e il Poltergeist aveva ben pensato di prendere di mira uno sparuto gruppetto di Serpeverde del primo anno, lanciando contro i loro faccini straniti manciate di fango scuro e limaccioso che sembrava essere stato appena raccolto dalle sponde del lago. I ragazzi più svelti erano fuggiti verso i propri dormitori, ma Ole, che non aveva mai potuto contare sui riflessi scattanti di un giocatore di Quidditch, si era ritrovato bloccato all’interno della Sala, e aveva dovuto attendere l’intervento del Preside in persona.
Quando infine riuscì a sgattaiolare all’interno della sua Sala Comune, la trovò affollata solamente di pochi studenti del sesto e settimo anno, che sedevano sul folto tappeto morbido vicino al fuoco del camino chiacchierando allegramente. Cercando di non attirare troppo l’attenzione – Ole non aveva mai rivolto la parola a nessuno di loro – il ragazzo gettò un rapido sguardo al ritratto della buona Tosca appeso sopra il caminetto: la strega, dal canto suo, gli rivolse un ampio sorriso, e chinò piano il capo nella sua direzione in cenno di saluto. Nessuno aveva mai udito il ritratto parlare, eppure gli studenti erano particolarmente affezionati a quella tela: non importava infatti quanti studenti fossero presenti contemporaneamente nella Sala Comune, ma la Tosca del ritratto sembrava riuscire a cogliere sempre ogni sguardo che le veniva rivolto, e non mancava mai di rispondere con un sorriso e un cenno benevolo.
 
Ole raggiunse la piccola porta rotonda di legno chiaro che spiccava sulla parete leggermente curva proprio di fronte al ritratto di Tosca, e la aprì con un sospiro, avventurandosi nel corridoio dal soffitto basso ricoperto di assi di legno profumato. Percorsi pochi metri, incontrò la botola che portava al suo dormitorio, e aprendola avvertì la consueta sensazione di pace e calore che provava alla fine di ogni giornata: non si era fatto poi molti amici, a Hogwarts, ma ogni volta che scendeva i gradini della scala a pioli che portava al dormitorio caldo e confortevole come una tana non poteva fare a meno di sospirare, sentendo un senso di pace e protezione accoglierlo come un abbraccio.
Il dormitorio era composto di una stanzetta rotonda scavata nelle viscere del castello:  a proteggere gli studenti dal freddo c’era un tappeto dalle frange folte tinte con colori naturali che spaziavano da verde al marrone caldo della terra smossa. Le pareti erano ravvivate da grandi arazzi raffiguranti scene bucoliche e paesaggi silvestri, e dal basso soffitto a botte pendevano grosse lanterne di rame e vetro annerito.
Sei ampi letti di morbida piuma erano disposti a distanza regolare, e Ole, istintivamente, si diresse verso quello più a est, dove aveva dormito per nei tre anni trascorsi a Hogwarts… salvo fermarsi poi di botto quando si accorse che tutti i suoi compagni circondavano il suo letto. Che, a quanto pareva, non era più suo, perché Homer Landmann  vi sedeva sopra, i piedi scalzi puntati mollemente nel materasso morbido, tutto intento a raccontare qualcosa di apparentemente molto divertente al resto del dormitorio.
Ole si guardò attorno, rendendosi conto che i letti, effettivamente, erano sette, quell’anno. Ne era comparso uno nuovo, strizzato fra il suo vecchio letto e la porta che conduceva ai bagni: i tendaggi color zafferano di quel nuovo letto erano ancora perfettamente tirati, e Ole vi si diresse con un sospiro rassegnato. Non era poi un gran problema per lui cambiare letto, e certo il nuovo arrivato non poteva sapere di essersi seduto al posto sbagliato, ma qualcuno degli altri ragazzi avrebbe potuto farglielo notare.
Homer Landmann aveva già sistemato il suo cappello sul comodino: no, non aveva senso che Ole lo costringesse a spostarsi proprio ora. Avrebbe fatto la figura del bambino immaturo. E quel nuovo letto era identico a tutti gli altri.
Si lasciò cadere sul suo nuovo materasso, scalciando via le scarpe da ginnastica e respirando il profumo leggermente speziato che aleggiava sempre nei dormitori e pensando che, in fondo, anche da quella nuova angolazione il dormitorio restava proprio un bel posto dove trascorrere la notte.
Ole chiuse gli occhi, abbandonando la testa contro i cuscini morbidi, e quando li riaprì, trasalì: a pochi passi da lui c’era il sorriso ampio di Homer Landmann, che lo guardava con gli occhi che brillavano e una mano protesa in cenno di saluto.
“Ciao, mi chiamo Homer, e come avrai potuto immaginare mi sono appena trasferito qui. Lieto di conoscerti!”
Homer aveva una voce piacevole, piena e musicale, ma il suo accento era privo di qualsiasi inflessione.
Se Ole era curioso di sapere che cosa avesse spinto quel ragazzo a trasferirsi a Hogwarts soltanto con l’inizio del quarto anno, la sua curiosità svanì nel momento esatto in cui la sua mano strinse quella del nuovo compagno. Homer Landmann, in quella stretta salda, lasciava spazio solamente per la gioia sincera della scoperta. E, improvviso e nitido, arrivò anche un pensiero, che sfiorò la mente di Ole con più lucidità di quanto accadesse solitamente, quasi che la sua empatia si fosse per un attimo trasformata in vera e propria legilimanzia: lui sì che mi è simpatico.
 
*
 
Il venerdì giunse come una specie di benedizione: erano passati solamente tre giorni da quando la scuola era ricominciata, ma Ole era già esausto. Gli studenti del quarto anno erano stati travolti da raccomandazioni e minacce: a sentir parlare i professori, non avrebbero mai potuto passare i propri G.U.F.O. se non avessero cominciato a prendere i propri studi seriamente sin da quel momento, e avevano pensato bene di metterli alla prova rinfacciando loro a ogni piè sospinto di non aver compiuto alcun miglioramento rispetto all’anno precedente. Come potessero aspettarsi qualcosa di diverso, Ole non se lo sapeva proprio spiegare: del resto, era universalmente noto che i maghi minorenni non potessero fare magie lontano dalla scuola. E se i professori pensavano che bastasse studiare per non perdere l’allenamento con la bacchetta, be’, questo dimostrava che erano molto meno svegli di quanto dicevano di essere.
La mole di compiti accumulata per quel fine settimana, comunque, andava contro ogni logica e ogni buonsenso: non si poteva passare in maniera proficua dalla totale nullafacenza delle vacanze a un sabato e una domenica in cui a stento si avrebbe avuto il tempo di vedere la luce del sole fuori dalla finestra della biblioteca.
Ole sapeva che la cosa più saggia da fare sarebbe stato mangiare presto e poi sedere accanto al camino, sotto lo sguardo benevolo del ritratto di Tosca Tassorosso in Sala Comune, cominciando a lavorare su qualcosa. Magari proprio su quella traduzione di Antiche Rune, che per lo meno era una materia che gli piaceva e in cui non era richiesto l’uso della bacchetta, così da conservare tutte le energie per il resto dei compiti il giorno successivo. Lo sapeva, e sebbene avesse una gran voglia di sdraiarsi sul suo letto sgranocchiando le ultime bacchette di liquirizia che aveva acquistato durante il viaggio sull’Espresso per Hogwarts, il suo senso del dovere fu abbastanza saldo da portarlo presto in Sala Comune, così da trovare posto accanto alla sua finestra preferita, quella che dava sulle sponde del lago ormai quasi invisibile, nella fioca luce del tramonto. Solo pochi studenti erano presenti nella  stanzetta circolare, e la maggior parte di loro chiacchierava svogliata, senza preoccuparsi di tenere la voce bassa: nessuno aveva voglia di studiare proprio quella sera. Ole estrasse dalla sua borsa un rotolo di pergamena nuovo, che si era sgualcito solo un poco, e lo dispiegò sul tavolo davanti al libro di testo e al dizionario dalla rilegatura precaria, pronto a buttarsi nella traduzione delle memorie di Althorius Edemomus, uno stregone del XIV secolo particolarmente prolifico.
Non aveva nemmeno avuto il tempo di dare uno sguardo rapido al brano che avrebbe dovuto tradurre che una figura dinoccolata si lasciò cadere con noncuranza sulla sedia accanto alla sua.
Homer Landmann gli sorrideva tranquillo, come avrebbe potuto sorridere a un amico con cui si sentiva completamente a suo agio. I suoi riccioli scuri, ancora umidi dalla doccia, gli ricadevano sugli occhi luminosi, e aveva abbandonato la sua divisa impeccabile, scambiandola con una felpa azzurro cielo che recava uno stemma di quella che poteva sembrare una squadra sportiva, ma che Ole non riusciva a riconoscere. Per qualche motivo che Ole non sapeva spiegarsi, Homer Landmann sembrava averlo preso in simpatia: avevano scoperto di avere quasi tutte le lezioni in comune, e Homer aveva preso a sedere accanto a lui in classe. Non avevano parlato molto, nonostante Homer, a onor del vero, avesse cercato spesso di fare conversazione. Davanti alla ritrosia di Ole ad aprirsi, però, non lo aveva forzato, limitandosi a essere una presenza discreta e sempre pronta a offrire un sorriso e una battuta leggera. A Ole, in realtà, non dispiaceva la sua presenza: Homer si era rivelato un ragazzo estremamente brillante, che seguiva le lezioni senza il minimo problema e, quando interrogato, sapeva sempre dare la risposta giusta, nonostante lo facesse spesso partendo da punti di vista che sembravano sorprendere anche i professori. Il resto dei loro compagni erano ammirati e incuriositi da questo ragazzo arrivato all’improvviso: Ole lo sapeva, e di certo non sarebbe stato necessario possedere una capacità di intuire i pensieri altrui come quella di Ole per capirlo. Ole stesso si sentiva terribilmente incuriosito da quella figura solare e brillante, e non poteva negare di essere piuttosto lusingato dalla simpatia istintiva che il ragazzo gli aveva dimostrato, nonostante fosse convinto che ben presto Homer avrebbe stretto amicizia con qualcun altro dei loro compagni, perdendo interesse in Ole.
“Ho lasciato giù in camera i miei libri. Posso guardare con te?”
Mentre lo chiedeva, Homer allungò una mano ad afferrare una matita che sporgeva dall’astuccio di Ole, con noncuranza. Ole annuì, spostando il libro in modo che entrambi riuscissero a leggere, e osservò le dita del compagno tamburellare sulla copertina marrone del dizionario.
“Se papà scopre che alla fine in Inghilterra hanno cambiato la copertina, fa una strage”.
Per un attimo, Ole non riuscì a comprendere a che cosa si riferisse Homer, fino a quando il suo sguardo seguì le dita del giovane e si soffermò sul nome stampato in caratteri minuscoli nell’angolo in basso a sinistra del dizionario. E. Landmann.
“Tuo… tu sei quel Landmann? Cioè, tuo padre è Elazar Landmann?”
Homer si limitò ad annuire, come se essere figli del teorico di lingue antiche più brillante e più noto al mondo fosse del tutto naturale. Be’, ovviamente per lui doveva essere normale, ma comunque… ora si spiegava lo scintillio entusiasta negli occhi della professoressa Leorux, quando aveva letto un brano della traduzione di Homer.
“Non pensavo… ma davvero? Cioè, davvero sei suo figlio?”
Homer annuì di nuovo, stringendosi nelle spalle.
“Oh… chissà che strano studiare sui suoi libri!”
Homer fece un cenno noncurante, come se la cosa non lo toccasse più di tanto, poi tornò a dedicare la sua attenzione al libro di testo.
“Sì, insomma, pensa che da piccolo ho vomitato sulle bozze di questo dizionario… non ho molta soggezione della cosa”.
Lavorarono in silenzio per un po’ – Homer svogliato, Ole distratto da come il compagno si picchiettava la fronte con la gomma della sua matita – fino a quando Homer ripiegò con un gesto deciso la sua pergamena.
“Senti”, disse, con un sorriso speranzoso dipinto in volto, “non è che mi disegni una mappa per la Guferia? Prima a cena Eloise mi ha spiegato come arrivarci, ma credo di essermi perso dopo il secondo corridoio”.
Ole, che di senso dell’orientamento ne aveva ben poco, cercò di richiamare alla mente la strada che avrebbe dovuto disegnare. Purtroppo era anche disgraziatamente privo di senso pratico, cosa che rendeva pressoché impossibile dare un senso alle linee che gli affollavano il cervello. E così, dopo un attimo di esitazione, chiuse con gesto deciso libro e dizionario.
“Non sono capace. Se vuoi ti ci accompagno, però”.
Il sorriso sul viso di Homer si allargò ancora di più, e Ole, improvvisa come una brezza fresca, avvertì tutta la soddisfazione del ragazzo, e seppe  che quella era stata da subito la risposta che Homer sperava di ottenere.
 
Il sole era completamente tramontato quando giunsero in cima alla stretta torre scossa dai venti della notte: quella mattina sembrava che l’autunno fosse ancora molto lontano, ma ora che la sera era calata il vento che entrava dalle finestre prive di vetri suggeriva tutto il contrario.
Ole, in maniche di camicia, rabbrividì: era stato sciocco a dimenticare il mantello in Sala Comune. E Homer non sembrava affatto intenzionato a fare in fretta: continuava a guardarsi attorno, offriva Biscottini Gufici a ogni rapace che gli si avvicinasse  e chiacchierava allegramente con ognuno di loro, proprio come avrebbe fatto con delle persone.
Ole avrebbe voluto tornarsene il prima possibile davanti alle fiamme del camino, ma al tempo stesso non voleva che quel momento si esaurisse. La verità era che, più ascoltava Homer Landmann parlare, più trovava quel ragazzo brillante e interessante. E più lo trovava interessante, più desiderava ritardare il momento in cui Homer si sarebbe del tutto ambientato a Hogwarts, trovando degli amici più brillanti e degni di lui di quanto Ole avrebbe mai potuto essere.
E così, cercando di trattenere il più possibile un po’ del calore che Homer sembrava distribuire su chiunque gli rivolgesse la parola, Ole prese il coraggio a due mani, ingoiò la sua timidezza, e domandò:
“Allora, ehm, come ti sembra Hogwarts?”
Homer si strinse di nuovo nelle spalle, carezzò il capo di un gufo dalla livrea dai riflessi fulvi, ed estrasse finalmente dalla tasca dei pantaloni una lettera dall’aria piuttosto pesante.
“Oh, mi piace tantissimo! Vedi, io non sono mai andato a scuola, e un po’ mi preoccupa dover seguire delle lezioni a orari prestabiliti, fare i compiti e tutto, però l’ambiente mi piace… e poi, insomma, non ero mai stato neanche in Inghilterra: assurdo, no?”
Ole, consapevole dell’aspetto da triglia bollita che il suo volto assumeva ogni volta che faceva un’espressione stupita, non riuscì comunque a trattenersi dal fissare Homer con tanto d’occhi. Homer non era mai andato a scuola? Ma se non aveva mai dato nemmeno una risposta sbagliata in classe!
Homer rise davanti all’espressione di Ole, e si affrettò a spiegare:
“Ho sempre studiato a casa, intendo. Con mio padre, o con i suoi colleghi, a seconda di dove vivessimo… non ho mai avuto dei compagni di studi, però.”
Il gufo a cui aveva affidato la sua lettera spiccò il volo nella notte e, con grande sollievo di Ole, i due abbandonarono la torre piena di spifferi.
“Davvero hai sempre studiato da solo?”
Ole, cresciuto in un contesto babbano, non riusciva proprio a immaginare la sua infanzia lontana dai ritmi dettati dalla scuola. Eppure, sapeva che per molti  giovani maghi studiare con i propri genitori o con degli insegnanti privati era la normalità, e solo con l’ammissione a Hogwarts imparavano che cosa significasse frequentare una scuola.
“Già. Sai, papà salta sempre da un angolo del mondo all’altro per le sue conferenze e per le sue ricerche, e anche la mamma si muove spesso per le sue mostre, quindi sarebbe stato difficile mandarmi a scuola”.
Giunti alla scalinata che collegava il quarto e il quinto piano, Homer si interruppe, aggrottando la fronte.
“Aspetta, non dirmi niente, voglio provare a vedere se sono capace di trovare da solo la strada”.
Homer svoltò a sinistra invece che a destra, e prese a camminare con una sicurezza infinita dritto verso la strada più lunga possibile, ma Ole tacque.
“Mi piaceva studiare con papà e i suoi colleghi dell’università, ma la mamma dice che ho bisogno di passare anche del tempo con persone della mia età, e quindi abbiamo deciso di rispondere alla mia lettera di  Hogwarts, anche se con qualche anno di ritardo”.
Homer continuò a camminare con passo deciso, sbagliando un corridoio dopo l’altro, ma Ole era troppo preso a riflettere sulle informazioni che il suo compagno stava snocciolando con tanta leggerezza per farci caso. Alla fine, la curiosità ebbe la meglio sulla speranza di non apparire invadente, e mentre passavano accanto a un quadro dove due dame dalle parrucche incipriate litigavano per una bottiglia di vino, Ole si ritrovò a domandare:
“Ma sai che pensavo che la lettera di Hogwarts arrivasse solo agli inglesi? Cioè, so che in caso di trasferimento si può fare domanda di ammissione, perché Anne Greenfield lo scorso anno è andata a vivere  in Giappone e…”
Ole si interruppe, fin troppo consapevole di aver messo in fila più parole di quante ne avesse pronunciate nei tre giorni precedenti davanti a Homer. Homer, però, non sembrava affatto infastidito dalla cosa: fece un sospiro un po’ rassegnato, e si affrettò a spiegare che, in realtà, sua mamma era nata e cresciuta in Inghilterra.
“Papà è di Zurigo, quindi ho una doppia cittadinanza… be’, in realtà è complicato, perché a dirla tutta io sono nato in mezzo all’Oceano Indiano, in acque internazionali, da genitori Anglo-Svizzeri e su una nave che batteva bandiera canadese, quindi sono un po’ un pasticcio geopolitico”.
Ole fissò il suo compagno con tanto d’occhi, certo che avrebbe trovato sul viso del ragazzo una smorfia divertita. Invece, trovò solo pacata rassegnazione.
“Sì, mi guardano tutti così quando lo racconto. Aggiungici poi che non abbiamo mai vissuto più di due anni nello stesso posto, e il disastro è servito”.
Homer si strinse di nuovo nelle spalle, dando un’occhiata rapida all’orologio che portava al polso: mancava ancora un’ora al coprifuoco, quindi non c’era bisogno che si affrettassero troppo. Ole, nel frattempo, fissava Homer di sottecchi: quella era una storia incredibile, ed era stata raccontata con tanta noncuranza che, in qualsiasi altro caso, Ole non ci avrebbe mai creduto. Eppure, Homer Landmann non sembrava affatto il tipo di persona che inventava panzane solo per attirare l’attenzione. Anzi, qualcosa suggeriva a Ole che Homer, semplicemente, riteneva l’atto di mentire un tale spreco di energie che non l’avrebbe mai fatto, non per impressionare un compagno di scuola in maniera così stupida, per lo meno.
Cercando di immaginare che cosa doveva aver significato essere un figlio del mondo, Ole si ritrovò a pensare alla sua esistenza che si era arroccata fra Brighton e quel castello nelle valli scozzesi: non solo non aveva mai lasciato l’Inghilterra, ma a dire il vero non aveva mai esplorato neppure il suo paese natìo, e dopo tre anni a Hogwarts non era ancora sicuro di aver messo davvero radici. Homer, invece, aveva cominciato la sua esistenza con un urlo di protesta verso tutto ciò che avrebbe potuto incatenarlo a un luogo, ma sembrava serenissimo.
“Comunque”, proseguì il ragazzo, fermandosi all’improvviso davanti a un arazzo raffigurante la ribellione dei Goblin del 1234, “è ridicolo che io abbia chiamato casa più o meno mezzo mondo e abbia un così pessimo senso dell’orientamento: non ho idea di dove siamo finiti. Getto la spugna: guidami tu, ti prego!”
Ole scoppiò a ridere: era davvero paradossale, in un certo senso, ma era anche del tutto comprensibile. Lo stesso Ole, se non faceva attenzione, qualche volta perdeva l’orientamento in quel labirinto di corridoi.
“Guarda, la vedi quell’armatura di bronzo? Se prendiamo il corridoio lì di fianco, finiamo davanti all’aula di Incantesimi. La cosa migliore è trovare dei punti di riferimento…”
Ma Homer lo interruppe con un movimento noncurante della mano, incamminandosi nella direzione indicata da Ole.
“È una battaglia persa, temo. Però, tu potresti essere tanto magnanimo da offrirti come punto di riferimento umano: quando mi perdo, guardo te, e tu mi spieghi cosa devo fare. In cambio offro eterna riconoscenza e… e il maglione che ho comprato a Novosibirsk, visto che stai congelando. È la cosa più calda che tu possa immaginare, te lo giuro!”
Ole scoppiò a ridere, senza nemmeno sentirsi in imbarazzo.
“Affare fatto, ma solo per il maglione. Appena comincerà a nevicare te ne pentirai…”
Homer si strinse nelle spalle, apparentemente soddisfatto, e Ole non poté trattenere un sorriso.
Non era poi male la prospettiva di trasformarsi nel punto di riferimento di qualcuno.



 
 
 
 

Note:
Innanzitutto, scusate il ritardo: non avrei mai voluto far passare un mese fra il primo e il secondo capitolo.
Il problema è che, come potete bene immaginare, si è trattato di un mese disastroso: ho scritto, sì, ma senza riuscire a concentrarmi per più di una manciata di minuti ogni volta, quindi mi sono concentrata soprattutto su cose molto più brevi.
Oltretutto, forse lo sapete, o forse no, ma Ole e Homer sono, sostanzialmente, due dottori. E questa storia, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto svolgersi anche in corsia (di ospedali magici o babbani che siano). E, ecco, non me la sento. Sarò stupida, sarò troppo sensibile, ma in questo preciso momento non me la sento di trattare in modo superficiale e leggero certe ambientazioni. E così la storia ha subìto un po’ un cambio di direzione, e ho avuto bisogno di riflettere un po’.
Di sicuro ho buttato via del tutto l’impostazione “simmetrica” dei capitoli che volevo darle all’inizio: non so più quanto questa storia sarà lunga, e temo anche che la trama non sarà lineare (questo capitolo si sarebbe dovuto muovere su due piani temporali, riprendendo la scena lasciata in sospeso nel primo capitolo, ma poi ha preso la sua direzione). Insomma, mi sto muovendo un po’ a spanne e seguendo l’ispirazione del momento. In questo periodo non riesco proprio a pianificare, scusatemi.

 
   
 
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