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Autore: Sabriel Schermann    01/12/2020    10 recensioni
Non sapeva nemmeno come ci era arrivata fin lì, o per quale ragione; sfilando in mezzo alla gente, accanto alle vetrine dei negozi, però, non le saltò in mente un solo istante di tornare a casa.
Aveva bisogno di respirare aria fresca, non importava se ormai era ottobre e si gelava.
L'insegna del locale dall'altra parte della strada brillava in vermiglio, come tutte le insegne del quartiere; sopra ci lesse “casa rosso” e, per un istante, le venne in mente che i proprietari potessero aver sbagliato a scrivere. [...]
Tutto sembrava normale, anche filtrato dalle lacrime.

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[Questa storia partecipa al contest "Hold my Angst (Flash contest - Edite ed inedite) - Seconda edizione" indetto da BessieB sul forum di EFP]
[Questa storia partecipa alla sfida "Prompts, our Wires" indetta da Soul Dolmayan su EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Casa di Cristallo'
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La strada verso le luci rosse

 

 

 

 

 

La-strada-verso-le-luci-rosse








Cause I've been feeling pretty small
Sometimes feel like I'm slipping down walls
And every line I ever get a hold it seems to break […]


No, no, maybe I will just get drunk and it will all make sense [...]
But would it all make sense?

(Sense – Tom Odell)

 

 

 

 

 

 

Luci rosse.
Luci rosse ovunque.
Non sapeva nemmeno come ci era arrivata fin lì, o per quale ragione; sfilando in mezzo alla gente, accanto alle vetrine dei negozi, però, non le saltò in mente un solo istante di tornare a casa.
Aveva bisogno di respirare aria fresca, non importava se ormai era ottobre e si gelava. Aveva bisogno di inspirare per l'ultima volta l'odore dei canali del centro, per prepararsi al viaggio del giorno successivo, che l'avrebbe separata per un po' da quella città e da quelle facce.
Si osservò intorno, puntando gli occhi sul viso della gente che la superava, nell'amaro tentativo di incrociare uno sguardo che, in silenzio, le rivolgesse parole di conforto. «Ti capisco, sorella» oppure «tranquilla, non sei sola».
L'insegna del locale dall'altra parte della strada brillava in vermiglio, come tutte le insegne del quartiere; sopra ci lesse “casa rosso”¹ e, per un istante, le venne in mente che i proprietari potessero aver sbagliato a scrivere. Non aveva studiato l'italiano per nulla, in fondo.
Eppure, nella sua imperfezione, qualcosa la attirò all'interno: forse era solo il bisogno di compagnia. Sulla strada verso le luci rosse – perché, anche se non ne era consapevole, Sindy aveva deciso di recarsi lì ancora prima di arrivarci – non aveva distolto lo sguardo da quello delle persone che incrociava, credendo che sarebbe stato sufficiente essere circondata di corpi per non sentire la solitudine. Come si può essere soli in mezzo alla gente?, si era domandata tante volte, senza riuscire mai a trovare una reale risposta.
Attraversò la strada senza guardare, tanto non passava mai nessuno oltre alle solite motociclette della polizia che pattugliavano la zona. Se qualcuno l'avesse investita, poi, tanto meglio: sarebbe finalmente giunta una fine, una volta per tutte.
Quando approcciò l'omone che controllava l'ingresso del locale, per qualche ragione che non seppe spiegarsi, le tornò in mente Jan, che a quell'ora doveva aver già impilato le valigie all'entrata di casa, pronte per essere caricate in macchina il mattino seguente. Lei aveva pensato solamente alla sua roba, relegando a lui il compito di provvedere al resto; come al solito, era stata egoista, imponendogli per l'ennesima volta qualcosa che l'uomo forse non aveva nemmeno voglia di fare.
Non lo disse, ma negli occhi del buttafuori ci cercò un po' Jan, nelle linee delle mani mentre afferrava il denaro, nello sguardo serio e ammonitore che rivolgeva ai clienti.
Come sospettava, all'interno c'era più gente di quella che avrebbe dovuto esserci: la maggioranza erano uomini, alcuni forse stranieri, accomodati ai piedi delle ragazze che, seminude, scrollavano il bacino.
Sindy proseguì a passo lento verso il bancone, dove sapeva che avrebbe potuto bere quanto desiderava: aveva scelto quel quartiere apposta, perché alla fine delle puttane a lei non interessava nulla. Si vedeva nei loro movimenti quanto erano innaturali, quanto erano stufe, anche loro, del battito costante della vita.
Nell'angolo al fondo c'era meno gente, così si diresse verso l'ultima sedia che trovò, miracolosamente libera: quasi corse per potersela aggiudicare, esalando poi un sospiro di sollievo quando poggiò la schiena contro il muro freddo. Doveva essere un istinto che aveva sviluppato nell'infanzia, quello di sbrigarsi per raggiungere qualcosa: era necessario correre e avere le idee chiare, non c'era spazio per le indecisioni.
Da quella prospettiva poteva vedere tutto il locale tranne l'ingresso. Quando scorse un uomo avvicinarsi, l'impulso di fuggire divenne improvvisamente un bisogno: in fondo, era l'unica cosa per cui sembrava avere realmente un talento.
Fortuna che era solo il barista che, svogliato, doveva prendere le ordinazioni.
Prima di rispondere, Sindy soffermò lo sguardo sul suo viso: i tratti le ricordavano incredibilmente quelli di Ken, il marito di Barbie, come l'avevano sempre soprannominato le sue compagne. Intorno agli occhi si poteva intravedere un'ombra di trucco.
«Allora, vuoi bere qualcosa?» l'udì ripetere rozzamente, picchiettando le dita contro il marmo del bancone. Non aveva voglia di farsi elencare il menù, né di prendere decisioni. Non conosceva quel mondo: la sua adolescenza l'aveva passata tra i banchi di scuola e la pista di pattinaggio, non certo a bighellonare nei locali con gli amici che non aveva.
Conosceva il nome di un solo cocktail, ma soltanto perché lo aveva già bevuto tempo prima. «Un Clover Club², grazie» replicò inespressiva, osservando il giovane allontanarsi con aria impaziente.
Alcune donne – probabilmente le uniche nel locale – ghignavano alle sue spalle, con quella nota nella voce che di solito si assume quando si è sereni, quando la mente è vuota e non si pensa ad altro che alla battuta appena ascoltata.
Da quanto tempo lei non rideva così? E da quanto tempo invece si imbrattava di quelle risate false, costruite, che aveva sempre impiantato sulle labbra quando la situazione lo richiedeva?
Oh, è arrivato il proprietario della pista su cui pattini, devi fare un sorriso, non vorrai che pensasse che sei antipatica.
Oh, quella testa di cazzo del tuo compagno di classe ti ha appena rivolto la parola, è meglio che sorridi, per una volta che ti calcola almeno dimostrati grata.
Oh, Jan è felice ed è meglio che lo sia anche tu, anche se hai perso i campionati nazionali di pattinaggio artistico, anche se ti senti perduta; è meglio che sorridi sempre, altrimenti perdi anche l'ultima briciola di fascino che ti è rimasta.
Le ragazze che aveva visto all'ingresso si muovevano ancora, attorcigliandosi intorno a un palo freddo come i polli in una rosticceria. Non ci trovava nulla di sensuale nelle loro movenze, né lasciavano trasparire erotismo: dei manichini snodabili, di quelli che si usano per i disegni, ecco che cosa le sembravano.
Soltanto in quel momento realizzò il frastuono ritmato su cui la gente intorno a lei tentava di ballare. Strinse nervosamente le palpebre: la bolla d'aria che le aveva protetto l'udito sembrava ora scoppiata senza alcun apparente motivo.
Quando riaprì gli occhi, notò che il suo cocktail era già pronto. Dopo un sorso incerto, lasciò che il gin le ustionasse la gola, svuotando in fretta il bicchiere.
Cazzo, ghignò. Non se lo ricordava così amaro, così squallido, come tutto in quel posto. Chissà quante altre bocche avevano sfiorato il vetro che ora teneva tra le mani, leccandone la superficie come probabilmente avevano lambito i seni delle puttane.
Sulla strada verso le luci rosse, Sindy aveva creduto che sarebbe stato sufficiente essere circondata di corpi per non sentire la solitudine. Non si era ancora resa conto, però, che era la solitudine stessa ad essere divenuta per lei uno stile di vita: era nata e cresciuta insieme ai fantasmi, fidandosi di tutti e di nessuno. Qualche volta – molto di rado –, aveva incontrato qualcuno a cui aveva creduto valesse la pena raccontare un po' di sé: il suo passato all'orfanotrofio, ad esempio, di cui, quando ci pensava, scopriva con sorpresa di ricordare meno di quanto immaginasse; l'incontro con Jan, di cui invece ricordava anche i dettagli più insignificanti, oppure i sacrifici che l'uomo aveva fatto per farla studiare e pattinare perché, si sa, il pattinaggio artistico è uno sport da ricchi, e lei non era altro che una maledetta anima orfana.
Avrebbe voluto gridare il suo malessere nel vedere alcuni ragazzini eseguire salti che lei non sapeva fare nemmeno a vent'anni, avrebbe voluto parlare del sesso con Martin che, anche se gli voleva un gran bene, le aveva sempre fatto schifo.
E poi avrebbe voluto piangere, bere e piangere, fino a non riuscire più a distinguere il sapore dell'alcol e delle lacrime, un po' come stava facendo in quel momento, senza rendersene conto.
Succedeva sempre così: un nodo le si formava in gola e lei cercava di snodarlo bevendo. Forse così si scioglie, pensava, invece l'effetto era sempre contrario, ingigantendolo fino a scoppiare.
Quella sera, però, in quell'anonimo locale a luci rosse, Sindy non scoppiò. Riuscì miracolosamente a trattenersi, senza sapere come, trasformando il groppo amaro in lacrime di fata, minuscole e trasparenti, come lei.
Il gruppo di ragazze continuava a parlottare dietro di lei, in piedi con i bicchieri in mano. I vecchi bavosi, invece, erano ancora appresso alle ragazze davanti all'ingresso.
Tutto sembrava normale, anche filtrato dalle lacrime.
Per l'ennesima volta quella sera, per qualche inspiegabile motivo, la sua mente andò a Jan. Non aveva voglia di controllare che ora fosse, ma era quasi certa che si fosse ormai infilato nel letto, nella speranza che lei tornasse in fretta.
Anche se non glielo aveva mai detto, Sindy sapeva che l'uomo non si addormentava mai finché non tornava a casa; solo quando udiva la chiave girare nella toppa, finalmente si voltava, abbassando le palpebre sereno.
Fortuna che non accadeva spesso, nemmeno quando conobbe Martin, perché alla sera l'autobus non passava mai regolarmente.
Poggiò la schiena contro il muro, esalando un sospiro in attesa che il barista riempisse nuovamente il suo bicchiere: in verità, ora che tutto era finito, non avrebbe saputo dire se quella degli orari fosse soltanto una scusa per non passare la notte insieme a lui, o per fare a meno della sua compagnia.
C'era stato, tanto tempo prima, un periodo in cui lui era al centro dei suoi pensieri, ne era certa; ora, però, quel periodo sembrava talmente lontano da appartenere quasi a un'altra vita.
Volgendo un'occhiata verso l'ingresso, notò che le ragazze erano quasi tutte scomparse. Il suo bicchiere, invece, era già stato riempito, ma non se n'era accorta.
«Ehi, bimba» udì sbraitare qualcuno poco lontano, prima che il volume della musica divenisse assordante.
Una ragazza le si era avvicinata timidamente, scrutandola con un sorriso dipinto sulle labbra. Gli occhi, chiari e scintillanti come il suo primo vestitino di pattinaggio, catturarono subito la sua attenzione: com'era felice quando l'aveva acquistato!
«Ti è caduto qualcosa» l'udì a malapena biascicare, prima che svanisse com'era comparsa, con un cocktail in mano.
Indossava un bikini color cremisi, di quelli che lasciano ben poco spazio all'immaginazione; quelle iridi magnetiche, invece, le ricordavano tanto i vecchi tempi, quando ancora conosceva la solidità della certezza, quando si addormentava pensando ai desideri che la vita – e il duro lavoro – avrebbe senz'altro avverato.
Che belli che erano, i tempi in cui ancora riusciva a infilarsi il suo bel vestito celeste decorato con perline sulle maniche; forse non s'era nemmeno resa conto di quanto fosse magico quel tempo, quando ancora dormiva nel lettone di Jan, quando l'unica preoccupazione che l'affliggeva era la mole di studio per la scuola.
Ed eccolo di nuovo lì, quel maledetto nodo, che persisteva a pungerle la gola.
«Grazie» soffiò alle spalle della ragazza, tanto ci avrebbe pensato la musica a coprire le sue parole.
Quel luogo era ormai divenuto una vera e propria discoteca: le puttane si erano sparpagliate per il locale e i clienti avevano preso a strattonarsi con movimenti impazziti.
Sindy si sporse in avanti, raccattando il documento che le doveva essere scivolato quando era entrata: aveva stupidamente creduto che fosse necessaria un'identità per poter intrufolarsi in quel luogo.
Che cosa avrebbe pensato Jan se avesse saputo che era stata lì? L'avrebbe giudicata, o forse ci era stato anche lui tanto tempo prima? E se, invece, gli avesse dato l'ennesima delusione?
Spostò lo sguardo sul proprio volto intrappolato nella carta plastificata: quella foto risaliva a qualche sorriso fa, quando ancora si stava allenando per i campionati nazionali, quando ancora non aveva trovato il coraggio di dire a Martin che non lo amava più.
Ed era con lui quando il flash dell'autoscatto le aveva illuminato il viso, intrappolando per sempre quell'espressione giovane, un po' orfana, un po' illusa.
Quella sera, Sindy non si riconobbe più nell'immagine che la raffigurava: eppure, qualcosa la spinse a rinunciare al secondo bicchiere di gin e ad avviarsi verso l'uscita.
Solo quando l'aria ottobrina le punse il viso realizzò che quella era la prima volta che si inoltrava sulla strada verso le luci rosse; il marciapiede era vuoto e il buttafuori approfittava ora della calma per infilare le mani nelle tasche del giaccone.
«Kijk!» gridò l'omone all'improvviso, sfilandone una per indicare il cielo notturno. «De sneeuw!»³
Aveva iniziato a nevicare.
Era un nevischio liquido e acquoso che certamente non avrebbe visto l'alba, ma la sensazione dei fiocchi tra i capelli la fece rinsavire un poco, come se la natura l'avesse finalmente rivendicata come una propria creatura.
Abbozzò un sorriso sbieco e accennato, alzando il naso verso l'alto, lasciandosi lavare via dalla neve quella sensazione di abbandono alla vita, di cedimento, incamminandosi verso il lato opposto della strada, volgendo il capo da una parte e dall'altra, pur consapevole che nessun'auto l'avrebbe incrociata.
Sulla strada verso le luci rosse, Sindy aveva creduto che sarebbe stato sufficiente essere circondata di corpi per non sentire la solitudine. Non aveva tenuto in conto che la vita è una maledizione nella benedizione, un'impronta di fango nella neve, un grido limpido nel silenzio delle montagne.
Con mille fiocchi tra i capelli, le tornò improvvisamente in mente un passaggio di una poesia di cui non ricordava il nome: ci sarà tempo, diceva, ci sarà tempo affinchè tu possa prepararti una faccia per incontrare tutte le altre facce, ci sarà tempo per uccidere e creare, tempo per me e tempo per te e per cento indecisioni.
Oserò turbare l'universo? Potrei rischiare, allora?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

¹ Casa Rosso è il nome di un teatro erotico situato a De Wallen, il famoso quartiere a luci rosse della città di Amsterdam. Nella storia, ho voluto “rivisitarlo” rendendolo un semplice locale a luci rosse.

² Il Clover Club è un cocktail a base di gin e sciroppo di lampone.

³ Si tratta di due parole in lingua olandese, che significano rispettivamente “Guarda!” e “La neve!”.

Citazione tratta dalla poesia “Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock” di Thomas Stearns Eliot.

 

 

 

 

 

Note d'autrice:

Non scrivo quasi mai delle note sotto le mie storie, se non quando necessario, come credo sia questo il caso: mi sembra doveroso dare delle spiegazioni, dal momento che considero questa storia nient'altro che uno spaccato di vita abbastanza insulso e decontestualizzato.
A mia discolpa posso spiegare – e spero sia sufficiente – che Sindy è un'aspirante pattinatrice sul ghiaccio professionista che ha avuto la sfortuna di essere stata squalificata dai campionati nazionali, che nel gergo dello sport sono la porta d'accesso a tutte le maggiori competizioni internazionali e quindi di un futuro nell'ambito agonistico.
Questo episodio in particolare l'ho raccontato qui, se qualcuno fosse interessato ad approfondirlo.
Se questa storia vi sembra particolarmente nichilista, non era mia intenzione renderla tale, e probabilmente è solo perché ho finito per infilarci dentro troppo di me.
In ogni caso, ringrazio Soul per aver organizzato la sua splendida iniziativa e per avermi concesso ancora una volta di dare vita a chi ce l'ha solo nella mia fantasia; ringrazio Leila per il suo prompt, che mi ha permesso di scoprire una poesia meravigliosa e un autore che non conoscevo.
Ringrazio anche chi è arrivato fino a quest'ultima riga e abbraccio – anche se solo virtualmente – chi si è riconosciuto nella protagonista.
Per favore, amate la vita.


   
 
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