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Autore: paige95    31/12/2020    4 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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La retorica del male





 

Kabul - Ospedale da campo, 12 settembre 2018
 

La vista di Maryam era sbiadita, un riflesso candido davanti alle pupille la confuse sul luogo in cui si trovasse. Strizzò le palpebre per cercare di avere una visione più nitida della realtà. Doveva aver raggiunto il paradiso, riusciva solo così a spiegare la luce abbagliante sul suo volto, un presagio di pace, lontana da ogni sorta di sofferenza.
Il ricordo di Hassan le penetrò la mente; non aveva sue notizie, preda dell’ignoto la prospettiva migliore era che si trovassero insieme in quel regno di sollievo fisico e spirituale.
Un lieve pizzicore all’altezza del gomito la fece sussultare, un paio di mani fredde la stavano sfiorando con accortezza. Si concesse qualche secondo per mettere a fuoco il volto dell’uomo che si stava occupando della sua salute: era stanco e ancora provato dalla malattia che lo aveva debilitato. Gli occhi dell’afghano erano velati da un paio di lenti sconosciute alla ragazza e disordinate sulla punta del naso.
Maryam lo vide spezzare con i denti una parte di scotch medico per evitare che l’ago appena inserito uscisse dalla vena. Non lo vedeva in quella tenuta professionale da quando il nosocomio del centro di Kabul era stato assediato dagli estremisti.
«Sei tornato in piena attività, dottore. Non credo di aver mai visto quel paio di occhiali. Cosa mi sono persa? Quanto ho dormito?»
Maryam si sistemò meglio sul cuscino voltandosi verso di lui, si sentiva a proprio agio nelle sue mani. Karim le rivolse un mezzo sorriso, mentre lo scotch passava ancora sotto i suoi denti.
«Sto perdendo colpi, Maryam. Me li hanno prestati per evitare di farti male»
Con delicatezza il medico bloccò l’ago e controllò il corretto funzionamento della flebo. Maryam gli sfiorò la mano che aveva distrattamente abbandonato accanto al braccio della giovane amica.
«Perché sono in ospedale?»
La voce flebile della ragazza tentò di gettare una luce su ciò che potesse essere successo nelle ultime ore. Afferrò debolmente il camice del medico di fiducia per attirare la sua attenzione e rendere reale ciò che la circondava, a partire dall’uomo chinato verso di lei e dal suo dolce sorriso. La mente vorticava, un’intensa nausea le lambiva le viscere, ma lei non era in grado di denominare uno stato così insolito di malessere. 
La lucidità della ragazza tornò quando il torpore del sonno affievolì, si accorse con angoscia di essere vulnerabile davanti a Karim senza la protezione del niqāb. Maryam si coprì interamente il volto con i palmi delle mani, ma lui glieli scostò senza indugio e con delicatezza; aveva compreso quale fosse il problema per la paziente.
«Tranquilla, siamo solo io e te qui. Non sono necessarie le formalità tra noi»
Era stato un occidentale a ricordargli quanto fosse inumano nascondere le donne dietro un metro di stoffa; Samuel era fratello di coloro che avevano rigirato il terreno afghano a suon di armi e violentavano le ragazzine come fossero indegne di rispetto, eppure, a differenza loro, il giornalista era animato da uno spirito puro. Contro ogni possibile regola, Karim le era accanto, la curava e accudiva come fosse suo padre e lei rappresentasse per lui la figlia che non avrebbe mai potuto avere. L’idea di proporle un matrimonio riparatore per preservare la sua vita lo inquietava e gli provocava il voltastomaco.
Maryam si perse nell’intenso sguardo dell’amico, era lei a vederlo per la prima volta e non il contrario, non le aveva mai scorto il volto da quando la sua adolescenza era iniziata, non prima delle ultime ore trascorse in compagnia. Nessuno dei due sembrava volenteroso di approfondire l’argomento; le parve di avere di fronte un uomo nuovo, che, per quanto gentile, non aveva mai osato trasgredire così apertamente alla Legge; erano imbarazzati e Maryam, la più inesperta, era anche la più spontanea nel palesare le proprie emozioni.
«Hassan»
Pronunciò il nome del fratello quasi come fosse una supplica, spaventata più per la salute del bambino che per la sua, benché fosse lei ad occupare un letto in quel rudimentale ospedale. Karim temeva che comunicarle notizie incerte potesse non giovare al suo stato. Recuperò la mano della ragazza per accarezzarla e si accomodò al suo fianco; cercò di tranquillizzarla come lei non gli aveva dato modo di fare in passato omettendogli il drammatico episodio della violenza subita. 
«Non posso analizzare il tuo sangue, non ho a disposizione un laboratorio, ma non ci sono dubbi sul fatto che tu sia incinta»
Ogni singolo respiro di Maryam era rimasto sospeso, impiegò qualche istante per ricomporre i pezzi della frase appena pronunciata dal medico e per decifrarla. Strinse più forte la mano di Karim, lo pregava di negare ciò che aveva appena detto.
«Non può essere … non può essere che io sia … Karim»
Maryam sussurrò nella speranzosa attesa di una smentita. L’uomo comprese che lei non fosse al corrente del suo stato di gravidanza e ciò rendeva la posizione del medico ancora più scomoda. La ragazza, per quanto fosse giovane, non aveva più una madre con la quale confidarsi e condividere ogni avvenimento naturale della vita di una donna; aveva notato la scomparsa del tempo della luna, ma così giovane e inesperta non aveva pensato potesse essere una conseguenza della violazione che aveva dovuto sopportare. Si vergognava a confidare a Karim gli istanti di puro terrore che aveva vissuto, l’umiliazione che aveva subìto e il timore verso qualsiasi militare si trovasse nelle sue vicinanze. Il padre non doveva sapere, non avrebbe capito, non l’avrebbe compresa nel suo dolore, lo immaginava, l’avrebbe solo condannata. Ora l’amico più fidato che lei avesse sapeva grazie alle sue doti mediche e la fissava con estremo dispiacere, una sofferenza talmente intensa che gli sembrò di aver subìto la violenza sulla propria pelle.
Per Maryam fu uno sforzo inimmaginabile reggere il giudizio di un uomo, che, per quanto confidente, era pur sempre rispettoso della Legge e non aveva mai dato prova di volerla trasgredire così apertamente. La ragazza promise a se stessa di nascondersi dietro un velo di imbarazzo e pudore, rappresentati dalle uniche armi di difesa che avesse a disposizione: i suoi palmi; le mani iniziarono a tremare a contatto con la pelle ambrata e arrossata, era terrorizzata dai ricordi, dalla gravidanza e dal futuro più prossimo. Dalla perdita prematura della madre, il suo futuro non si era mai tinto di tonalità così scure. Fremeva per il pianto che bramava di riversarsi sulle sue ciglia, ma la tenacia di Maryam riusciva a controllarlo, affinché esso esplodesse solo dentro di sé, nel suo cuore, nel suo stomaco e in ogni sua vena e arteria. Karim la affiancò subito in quella lotta interiore; le afferrò i polsi, non indugiò nemmeno per la paura di una presa troppo ferrea su di lei, la costrinse a sollevare la schiena, quanto bastò per sedersi e la invitò a sfogarsi sul suo petto. Stavolta ci sarebbe stato, anche sfidando qualsiasi Legge divina.
Non ci fu bisogno di parlare, lui sapeva e lei intuì che l’amico avesse capito cosa poteva aver causato una gravidanza indesiderata. Karim la strinse a sé posandole un palmo sulla nuca; fece scivolare le falangi tra i crini ramati. La cullò tra le braccia com’era solito fare quando era solo una bambina e non indossava il niqāb.
«Mi dispiace, lui mi ha …»
«Non lo voglio sapere»
La tentazione di domandare a Maryam una descrizione dettagliata dell’uomo fu allettante, ma per fare un identikit avrebbe dovuto riportare alla mente quei momenti. Si limitò a posare le labbra sulla fronte umida della ragazza e ad ascoltare gli ultimi singulti di pianto - sperava davvero di riuscire a tranquillizzarla e di non vederla più piangere. La distanza che li separava poteva essere misurata con il palmo di una mano di medie dimensioni. A Karim bastò sussurrare per farsi comprendere da lei. L'uomo catturò con intensità le sue infinite pupille lucide e arrossate.
«Ti sposo io, cosa ne pensi? Chiedo la tua mano al mullà. Non sarebbe romantico, ma almeno ti salvo da una lapidazione certa. Dirò che è mio figlio, non temere, la gravidanza non dovrebbe notarsi fino alle nozze e sarebbe tutto secondo la Legge. Con me saresti salva, hai già sofferto abbastanza»
Maryam era scioccata per la proposta di Karim, eppure una parte del suo cuore si aspettava una simile reazione da parte dell’uomo, anche a costo di diventare complice del suo peccato.
«Purtroppo non ho molto da offrire, né a te né a tuo padre, se non qualche consulenza medica. Sono solo un povero medico che vive come può» 
«I-io ne sarei onorata, ma non posso accettare che rimedi così ai miei problemi. Tu meriti una donna al tuo fianco. Meriti di rendere felice una donna che ami e credimi, ne saresti in grado con o senza denaro»
Non era un argomento che lui affrontava serenamente e lei non poteva sapere quanto gli fosse sgradito parlarne.
«Maryam, io ti voglio bene, al pari della figlia che non ho»
«… ma che potresti avere, non è troppo tardi per questo e non ti renderò padre di una violenza che ho subìto io»
«Maryam, ascoltami, se non ti lasci aiutare il tuo destino … ti prego, non voglio ti accada qualcosa ed io non potrò più salvarti. Tu sai che mi imporrei tra te e chiunque provi a farti del male, anche se fosse tuo padre non indugerei. Prenderti in moglie è la soluzione migliore per entrambi. Vuoi rischiare che mi arrestino?»
La devozione del medico di Herat nei suoi confronti la commosse e preoccupò. Maryam si concentrò sulla parete che si ergeva alla sua sinistra, senza tuttavia vederla davvero; non riusciva a reggere lo sguardo sincero di Karim, non era in grado di negare il suo aiuto e nemmeno di accettarlo. Lasciò che intense scie salmastre le percorressero le guance, stavolta non si impose alcuna inibizione.
«Ti parlo di matrimonio e tu piangi? Dovrebbe essere un lieto evento. A meno che tu voglia sposare il tuo ricco promesso»
Le sorrise malinconico e le afferrò la mano, al cui braccio la flebo continuava incessantemente a svolgere il suo lavoro e lei grazie alle attenzioni amorevoli del suo medico iniziava davvero a sentirsi meglio nel corpo e nell'anima. Maryam trasalì e si voltò scossa nella sua direzione.
«Piccola, te ne andrai presto da qui. Devi arrivare in Occidente, ma finché sarai a Kabul, mi occuperò io di te. Desidero solo che passi sotto la mia custodia, non ti sfiorerei con un dito»
«Non ho il minimo dubbio su questo, Karim»
Le dita nodose del medico la stringevano con affetto e rispetto; erano il segno di un uomo colto, catapultato in un mondo per il quale non si era preparato, ma che aveva una estrema necessità di lui.


Villaggio - Periferia Ovest di Kabul, 12 settembre 2018
 

Non fu facile per Samuel cercare Hassan attraverso strade non familiari e su un terreno sconosciuto; non aveva la minima idea da quale parte iniziare e non conosceva abbastanza bene il bambino per azzardare ipotesi. Tra la più terribile incertezza si allargava nel suo cuore una cocente preoccupazione. La giornata si stava esaurendo in fretta, in cielo la palla infuocata che accompagnava il giorno dall'alba al tramonto si stava ormai spegnendo per lasciare il posto ad una luna che aveva aria di casa. Mai come in quella sera, da quando la sua trasferta era iniziata, sentì nostalgia della fidanzata. I colori fiochi che lo circondavano mostravano ancora nitidamente la via davanti a sé. La loro intimità si consumava spesso a luci basse, si lasciavano cullare dal tepore dei loro corpi e dall’impazienza di amarsi, sempre più e sempre più a fondo. A Samuel mancava ogni singola promessa che aveva rivolto a Margaret. Gli mancava ed ogni giorno era sempre più difficile negare quanto avrebbe voluto sposarla prima della partenza. Il cielo solo era testimone dei suoi più profondi desideri: essere suo marito e sfidare la sorte con la consapevolezza che lei fosse sua moglie. Margaret non gli diede modo di proporle di anticipare il matrimonio e lui si ritenne semplicemente egoista a legarla a sé prima di compiere una missione pericolosa dai risvolti incerti.
Samuel stava ormai vagando senza meta. Il cuore pulsava tra la carotide e la giugulare, non era pronto a fallire la ricerca di Hassan e tornare da Maryam senza il fratello, la ragazza aveva già ricevuto la sua buona dose di patimento. Percorse la via principale a passo tranquillo per il timore di lasciarsi sfuggire qualche prezioso indizio. Circa a metà della strada sterrata, un’anziana con il capo coperto da un chador scuro era accomodata davanti all’uscio di casa e contemplava affascinata il tramonto, o così parve al ragazzo. Le onde calde della luce ormai al culmine della loro bellezza la inondavano quasi del tutto. Furono gli occhi luccicanti della donna ad attirare l'attenzione del giovane reporter; gli rincresceva spegnere uno dei momenti di pace e serenità che Samuel immaginò fossero molto rari per la popolazione afghana.
La dura pietra non era scomoda per l’anziana e Samuel l’avrebbe volentieri affiancata per mostrarsi amichevole, ma aveva poco tempo da dedicare alla socievolezza e allo scambio interculturale.
«Mi scusi? Signora, mi perdoni, ha per caso visto un bambino di circa otto anni, moro e alto suppergiù così?»
Samuel simulò l’altezza di Hassan, ma fu tutto inutile, quella donna non comprendeva una sola parola in americano. Fissava il giornalista con profondità, dando modo a quest’ultimo di scorgere la guerra sospesa nelle sue iridi chiare e le rughe del tempo che non riuscivano a celare le numerose cicatrici di una donna che non si era arresa alla triste realtà. Il giovane non ebbe cuore di spezzare il raro attimo di raccoglimento della superstite, non era quello il modo migliore per trovare il piccolo, lei non avrebbe comunque compreso la sua lingua. Gettare la spugna e dichiarare la resa non era nell’indole di Samuel, specie se a rischio vi era la vita di un bambino. Nell’esatto istante in cui l’anziana dagli occhi sognanti abbassò lo sguardo verso il terreno e le mani del ragazzo, forse per replicare e dirgli che non aveva capito, una pelle morbida e delicata sfiorò le falangi del giovane, ma ciò non impedì a Samuel di scorgere anche la condizione di cecità della donna, di cui non si era accorto fino a quel momento, le iridi gli erano sembrate tutto tranne che vacue. L'anziana signora doveva aver avvertito i passi leggeri del disperso e un tenero sorriso si dipinse sul suo viso, aveva chiaramente distinto l'arrivo di un bambino. Il reporter non poteva credere che Hassan avesse trovato lui e che lo stesse fissando anch'egli con un sorriso malinconico, bagnato da un paio di lacrime accanto agli angoli delle labbra sottili.
«Ehi, piccolo, ci hai fatti spaventare. Dove ti eri nascosto? Io e papà ti abbiamo cercato ovunque»
Le scie salmastre sulle guance del bambino non cessavano di scorrere in silenzio. Samuel si chinò fino all’altezza dell’amico e si accertò che stesse bene, ma non sembrò riportare ferite più o meno gravi. Il giornalista non ebbe il tempo di terminare l’ispezione, Hassan iniziò a tirarlo nella sua direzione, rischiando di fargli perdere l’equilibrio nell'alzarsi dalla posizione accovacciata che aveva assunto, e lo invitò a seguirlo. Sembrava risoluto e convinto della direzione verso cui stava scortando l’americano, come se in precedenza ci fosse già stato. Samuel si lasciò condurre, era sollevato che Hassan fosse vivo e che fosse sotto la sua protezione, perciò lo assecondò, curioso  di scoprire ciò che sembrava avere in mente.
Il luogo nel quale i due si stavano addentrando era sempre più appartato, sarebbe stato inutile chiedere spiegazione al piccolo, non sarebbero mai riusciti a comprendersi, erano natii di luoghi troppo distanti geograficamente e culturalmente. Ogni loro passo era scandito dai raggi bicolore del sole e della luna che si univano e si salutavano in un intenso abbraccio per lasciare infine il posto alla regina del cielo. Arrivarono a destinazione quando le stelle non furono ancora del tutto visibili ad occhio nudo e Samuel capì dove si trovava trattenendo un lungo sospiro di stupore. Un ammasso di terra rivoltata e informe si estendeva al centro di un piccolo spiazzo verde dimenticato dalla barbarie degli uomini. Una lastra di ferro con incise scritte incomprensibili a lui si ergeva verso il cielo, affondando le radici in zolle di terriccio secco. Il pianto del bambino al suo fianco gettò una luce inconfutabile sull’identità del defunto. Samuel non si avvicinò alla lapide, si limitò a seguire lo sguardo affranto del piccolo che contemplava ciò che restava della madre. Il cuore del reporter si crepò, ancora una volta l’impotenza fu padrona della sua anima. Le mani del giovane e del bambino erano rimaste intrecciate l’una all’altra, Samuel scese lentamente sulle ginocchia e fissò gli occhi annacquati del piccolo. Le parole sarebbero state incomprensibili da parte di entrambi, eppure nel silenzio della sera si compresero. Hassan chiedeva al forestiero aiuto e conforto; il giornalista lo attirò contro il petto e lo strinse, lasciando che il bambino gli circondasse la base del collo con il braccio ancora sano e superstite dall'incidente avuto con la mina, mentre si dilettava nel passatempo più puro e ingenuo per un bambino. Singhiozzava al sicuro nel caldo abbraccio dell’amico; Samuel avrebbe voluto dirgli di calmarsi, per lui e per Maryam ci sarebbe stato. Era certo che Hassan lo sapesse, altrimenti non lo avrebbe condotto in quel luogo e non avrebbe condiviso il suo dolore.
Hassan aveva fiducia in Samuel. 
Hassan credeva ancora nel buon cuore degli uomini. 
Hassan era un bambino a cui la vita aveva chiesto gratuitamente il conto. 
Ad Hassan non importava di quale nazionalità fosse Samuel, due braccia amiche erano un’oasi in un deserto pervaso dal fuoco e dalle fiamme.


Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 12 settembre 2018
 

Delilah era crollata, i suoi nervi avevano ceduto sotto il peso della preoccupazione e delle lunghe ore di intervento che aveva presieduto. Non era riuscita a raccontare a Nathan cosa fosse successo nella sala operatoria; lui la comprese e lasciò che riposasse sulla sua spalla, accomodati su una delle tante panchine a disposizione dei visitatori nei pressi delle porte scorrevoli per l'ingresso in ospedale. Aveva coperto la schiena della dottoressa con la sua giacca elegante, le era rimasto accanto annullando qualunque appuntamento, non importava quanto fossero importanti, le aveva ceduto un po' del suo calore, le aveva dedicato tutto il tempo necessario. In attesa che lei riaprisse gli occhi studiava casi e sentenze lasciati in sospeso e gettava di tanto in tanto occhiate preoccupate lungo il corridoio d'accesso ai reparti in cerca di notizie che riguardassero il suocero. Al pari di ogni compagno dei figli, anche su Nathan cadeva il sipario dell’indifferenza da parte di Daniel. Non si erano mai portati alcun rancore, per quanto fosse il marito di Delilah e avesse potuto sperare in un minimo di considerazione, non la chiedeva, la donna che aveva sposato era l’unico affetto che gli importasse davvero. Quando giunsero alla dolorosa decisione del divorzio, rispettò ogni singola motivazione della moglie, cercò di non mostrarsi sofferente, anche quando il pensiero di allontanarsi da lei diventò soffocante. Temeva per le sorti del suocero, ma soprattutto temeva le ripercussioni che una sua eventuale mancanza avrebbe potuto avere su Delilah; per quanto considerasse temprata la sua personalità, per quanto tra lei e il padre non corressero buoni trascorsi, era certo che una parte del cuore della donna sarebbe morta insieme al direttore Clark.
Nathan non si era mosso dall'ospedale. La sua camicia bianca era macchiata di sangue ormai rappreso; aveva arrotolato le maniche, a differenza di lei aveva caldo, e la sua odiata cravatta era allentata sul petto; si concesse libertà che solo fuori dal tribunale gli erano consentite e che non vedeva l'ora di riscoprire terminato il suo lavoro giornaliero. Aveva avvisato della sua assenza la portineria del tribunale e i colleghi, la maggior parte di loro aveva compreso l'emergenza, altri invece continuavano a far squillare il suo telefono, convinti che qualsiasi cosa stesse facendo potesse attendere qualche ora. Non rispose nemmeno al giudice che l'indomani avrebbe presieduto l'udienza nel quale Nathan avrebbe dovuto difendere la parte lesa; silenziò il cellulare e lasciò che le chiamate perse si accumulassero in segreteria, non era il momento di pensare al lavoro e tantomeno di muovere un passo lontano da lei, l'avrebbe svegliata inutilmente. Il respiro caldo e regolare di Delilah placava anche i suoi battiti, rendeva insulso ogni pensiero, il respiro della donna solleticava la pelle di Nathan, nel sonno si stringeva a lui e gli piaceva credere che lei accanto a suo marito si sentisse ancora a casa; mentre recuperava le energie fisiche e mentali perse, sembrava più tranquilla di quanto non fosse in realtà. Nessuno aveva reclamato le attenzioni della dottoressa Clark, ma in caso contrario lui avrebbe impedito a chiunque di interrompere il suo riposo.
L'avvocato Rogers avrebbe potuto impedire a chiunque di disturbarla, ma non al suono delle ambulanze che scalpitavano appena fuori dall'accesso del pronto soccorso. I nervi della donna vennero riscossi dall'intenso allarme del codice rosso, si svegliò di soprassalto con il pensiero del padre nella mente e il rumore dell'ultima strumentazione che aveva sentito in sala operatoria; associò il suono ad uno stato di pericolo e si agitò spaventata. Impiegò qualche istante a capire da dove provenisse l'urgenza, fu quello il lasso di tempo buono per spegnere la frenesia nello sguardo della donna.
«Ehi, calmati. Non è successo niente»
«Mio padre ...»
«Tranquilla»
Nathan le accarezzò a fior di pelle la guancia con il pollice. Ogni lembo di lei fremeva, l'unica fonte di pace furono le iridi dell'uomo che aveva amato e per qualche strana ragione erano lì per lei. Il resto del mondo spariva al suo fianco, ogni problema - grande o piccolo che fosse - possedeva una soluzione raggiungibile. Gli avrebbe voluto dire che trovava inappropriata la promiscuità tra loro, gli era grata, ma non era il momento di pensare al loro rapporto, non lo era mai. La stava solo sfiorando, nulla di più, non stava violando alcuna decisione presa di comune accordo, ma lei sentiva di non meritarlo da parte sua. Delilah percepiva che le era legato ancora più del necessario; lo sguardo della donna scivolò sullo schermo dell'avvocato, il numero delle chiamate perse era significativo e le diede conferma dei suoi peggiori timori: stava influenzando ancora la vita dell'uomo da cui stava divorziando e per un motivo più che valido, dovevano solo convincersi che lo fosse.
«Devi andare»
«No, posso restare, ho avvisato. Oggi dovranno cavarsela senza di me, non penso che un mio giorno di assenza assolvi o condanni qualcuno che non lo merita»
Nathan spense e ripose il cellulare nella tasca dei pantaloni; lei seguì rammaricata i suoi gesti.
«Era esattamente ciò che avrei voluto scongiurare»
«A cosa ti riferisci? Delilah, ti ho detto che non ci sono problemi, oggi la mia presenza non è così indispensabile in tribunale»
«Non volevo che ti trovassi nella condizione di dover scegliere tra me e la carriera, Nat. Ti prego, non scegliere noi, così rendi tutto più difficile» 
«Tu hai bisogno di me, oggi più che mai, e non ho intenzione di lasciarti sola. Non me ne frega niente se stiamo divorziando, intesi?»
L'avvocato diventò serio, il suo sguardo intenso e avvolgente si scontrò con le lacrime del medico, che scorrendo inumidirono le falangi dell'uomo posate ancora sul viso di lei.
«Dottoressa Clark!»
La chiamarono con una tale veemenza che Nathan aumentò le distanze tra di loro, allontanò la mano e la lasciò libera di muoversi. Quando Delilah si voltò, alle sue spalle vide sulla barella una ragazzina ormai prossima all'adolescenza incosciente; i capelli biondi sull'emisfero destro erano intrisi di sangue vivo, il rosso inzuppava un vestito dai colori variopinti e floreali, era forse reduce da una festa. Nella fretta di raggiungere la paziente, la giacca del marito scivolò dalle spalle della dottoressa e andò a posarsi sul pavimento lucido dell'atrio. Un'infermiera le allungò uno stetoscopio, l'aveva vista sprovvista e andò subito in suo soccorso per poter aiutare la ragazza il più tempestivamente possibile. Non avevano mostrato al medico alcuna cartella clinica, la paziente era appena entrata in ospedale, nessuno l'aveva ancora visitata e aveva ipotizzato una diagnosi; Delilah non era abbastanza lucida per essere efficiente, si passò l'esterno del polso su entrambe le palpebre e si sforzò di aiutare la ragazza e i colleghi, era un'emergenza e non poteva permettersi riposo o distrazioni.
«Cos'è successo?»
«Un incidente stradale. Ci sono altri feriti, hanno la stessa età della ragazza»
La dottoressa pose una carezza di incoraggiamento sulla nuca della giovane e iniziò ad indossare lo stetoscopio per effettuare una visita iniziale. Il dottor Wood glielo impedì, le sfiorò le mani e recuperò lo strumento prima che lei potesse terminare di indossarlo; Morris era appena salito dal laboratorio di analisi, aveva finito il suo turno di lavoro, si stava avviando verso casa e si era imbattuto anch'egli in quell'emergenza.
«Devi riposare, penso io alla ragazza»
Il collega sapeva ciò che era stata costretta ad affrontare solo poche ore prima e non aveva indugiato a prendere il suo posto, anche se il pronto soccorso e qualsiasi intervento a stretto contatto con i pazienti non erano parte della sua routine in ospedale. La barella passò oltre, attraversò il lungo corridoio; Delilah lasciò che le gambe cedessero, non vi era più alcun motivo di mostrarsi forti. Crollò sul pavimento duro e freddo, l'unica fonte di calore proveniva dal corpo di Nathan che in una manciata di secondi si trovò di fronte a lei e anch'egli si pose in ginocchio. Nessuno attraversò il reparto, nessuno, per fortuna della donna, stava assistendo alla scena pietosa, tranne il suo ex marito, davanti a cui poteva permettersi di mostrarsi debole.
«Non ho il coraggio di chiedere come stia. L'operazione non è andata come avrei sperato»
«Delilah, non siamo infallibili»
«Dovresti dirmi che nonostante tutto sono riuscita a salvarlo e che sta bene. Dovresti dirmi che non ci sono altre possibilità diverse da queste. È così che pretendi di aiutarmi, ricordandomi quanto sia alta la possibilità che io possa fallire?!»
Aveva gridato disperata a pochi centimetri da lui, ma lui non aveva arretrato. Nathan le afferrò il polso con il quale cercava di non collassare sul pavimento, cercò di trasmetterle tutta la risolutezza di cui era capace.
«Il nostro matrimonio è fallito, il mio caso in tribunale è fallito. Ogni cosa può fallire, ciò non ti rende una pessima persona o un medico incapace»
Le parole dell'uomo la sconvolsero, fece fatica ad immaginarlo fallire nel suo lavoro, la sua abilità era una delle poche certezze per Delilah, una delle poche certezze che le erano rimaste. Era convinta che il pensiero del loro divorzio avesse fatto la sua sporca parte. Le mancò il respiro. La vicinanza di Nathan le fece male, la mano dell'uomo sul suo polso la scosse più del dovuto, il pensiero del loro matrimonio finito non l'aveva mai sconvolta tanto. Era un fallimento sopra altri fallimenti, era un delicatissimo castello di carte pericolante che li stava per travolgere e sotterrare sotto un cumulo di macerie troppo pesanti da sostenere. Nathan fissò intensamente il suo sguardo in quello della moglie e lo mantenne costante, finché lei glielo permise.
«È mio padre. Lui non può ... Nathan, è mio padre e io non voglio fallire, almeno non in questo»
Le posò il palmo sulla guancia umida e coprì la distanza di pochi centimetri, avvicinandosi e sussurrando.
«Tu non hai mai fallito. Amore, qualsiasi cosa accada ricordalo»
L'avrebbe baciata lì, in mezzo ad un corridoio, su un pavimento gelido, con una procedura di divorzio in atto che pendeva sulle loro teste. Era sincero, non poteva essere colpa di Delilah se il loro matrimonio stava fallendo. Sfiorò le sue labbra con la punta del pollice, erano morbide come le ricordava, si era fermato il mondo intorno a loro, nessuno sarebbe stato testimone della loro trasgressione. Delilah non fu d'accordo e senza la sua complicità Nathan aveva le mani legate. La dottoressa abbassò lo sguardo per impedirgli quel bacio e di commettere l'errore di riavvicinarsi.
«Ti prego, vai»
«Lilah, io credo ...»
«È ora che tu vada. Grazie per esserci stato, ma ora devi proprio andare»
Sentì scivolare le mani dell'uomo dalla sua pelle, percepì nitidi i suoi passi mentre si allontanava da lei. Non avvertiva più lo sguardo caldo e amorevole di Nathan, le iridi della dottoressa Clark incontrarono  solo la giacca del marito abbandonata sulla panchina dell'ospedale. Si sentiva cento volte, mille volte più vuota di quanto non fosse uscita dalla sala operatoria ore prima.
Aveva fallito. Aveva fallito davvero.


Ad un paio di chilometri dalla base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 12 settembre 2018
 

Christian scortò Gwendoline per svariati metri, la aiutò a camminare invitandola a reggersi a lui. La ragazza non ebbe altra scelta per allontanarsi dalla base e consentire all'ufficiale di uscire in tempo, prima che gli estremisti facessero irruzione, era certa che senza lei lui non si sarebbe mai messo in salvo. Per almeno due chilometri, nessuno dei due soldati ebbe lo stimolo di proferire parola; il seal aveva potuto accertarsi di quanto fossero pericolosi gli invasori e non riusciva a negare quanto fosse preoccupato per il generale Flores, i commilitoni e gli alleati che in quegli istanti stavano combattendo per salvare la loro base operativa e le loro stesse vite.
«Capitano, per favore, ho bisogno di riposare un istante»
Il tenente la sentì scivolare dalle sue braccia; nonostante la preoccupazione, dovette cedere e lasciare che il soldato Ward si accomodasse ai piedi di un vecchio platano. L'uomo gettò un'occhiata alle sue spalle, ma da quella angolazione non vedevano né sentivano - per il momento - cosa stesse succedendo alla loro unità.
Gwendoline si tolse delicatamente gli anfibi della gamba infortunata, sollevò i pantaloni e notò che la fasciatura candida si era inzuppata di colore rosso; iniziò a temere che qualche punto fosse saltato. Christian non ebbe bisogno di alcuna spiegazione, seguì i gesti del suo sottoposto e comprese la situazione. Stava scendendo l'oscurità, ma non fu un male per due soldati in fuga che desideravano passare inosservati.
«Riposiamo qualche minuto, vorrei evitare un'emorragia, siamo troppo lontani dall'ospedale»
La tentazione per l'uomo di avvicinarsi e controllare lui stesso la ferita fu forte, ma non voleva che la giovane si sentisse a disagio, così appoggiò la schiena ad un secondo albero e perse lo sguardo nella volta celeste ormai oscura.
«Capitano, io credo di aver indossato la divisa fin da bambina. Mio padre ai tempi me la fece odiare ed amare in egual misura. Indossavo la sua uniforme quando volevo sentirmi più vicina a lui e la indossavo per renderlo orgoglioso di me. Non le nego che a volte quella stoffa pesava sulle mie esili spalle. Ero convinta di perderlo in guerra ed invece ... invece sono qui ad ereditare una guerra che so di non volere»
Si stava confidando con lui, proprio nel momento in cui Christian aveva imparato a conoscerla e sapeva che ogni sua parola non era frutto di codardia. Era stata brava, aveva scelto il momento giusto, la stessa occasione che lui non riusciva a trovare per rivelare a lei i suoi più intimi tormenti.
«Mi manca. Era un esempio per me, sono un soldato solo grazie a lui»
«Sei un bravo soldato, Gwen, e sono certo lo saresti diventata comunque. Sono sempre più convinto che non sia stato il nostro passato a desiderare questo futuro per noi, almeno non solo. Credo ...»
Christian prese un lungo respiro e rivolse lo sguardo a terra in cerca del coraggio per parlare di sé.
«... credo sia una nostra vocazione e non colmi solo una nostra mancanza. Gwendoline, io ti capisco più di quanto immagini. Sono orfano da quando avevo diciassette anni. So cosa vuol dire non avere qualcuno che ti aspetti a casa, so cosa vuol dire prendersi cura di se stessi e non avere un esempio su cui fare affidamento. Mi dispiace così tanto che lo abbia vissuto anche tu»
«Perché non me lo ha detto prima?»
«Perché non è facile ricordare»
«Ho perso mia madre su quelle stramaledette Torri Gemelle, eppure gliel'ho detto prima ancora di sapere che uomo fosse diventato dall'ultima guerra combattuta accanto a mio padre! Crede forse che per me sia così facile parlarne??»
La ragazza aveva alzato il tono di voce risentita, provò anche ad alzarsi con il supporto del tronco, ma ricadde nell'esatto punto in cui era seduta.
«Gwen, zitta»
«Non mi dica di tacere, capitano. Non sono sua figlia. Non si permet ...»
Senza troppe cerimonie o avvertimenti, Christian si avvicinò a lei e le posò un palmo sulle labbra. Il soldato Ward comprese il disperato gesto del superiore, quando avvertì alcuni passi intorno a loro, la direzione era ignota, potevano sperare solo nel favore delle tenebre. Fissò negli occhi il seal, gli concesse una piccola tregua dalla discussione. Era impensabile affrontare il nemico nelle condizioni in cui Gwen riversava, a malicuore - e se lo comunicarono attraverso i loro sguardi - dovettero lasciare che quegli estremisti raggiungessero la base, con la speranza che i loro compagni riuscissero a difendersi. Solo quando non udirono più alcuna presenza capirono che erano al sicuro, anche se al prezzo delle vite dei loro soldati. Il tenente consentì a Gwendoline di parlare, ma stavolta le rimase accanto, nell'oscurità della sera era faticoso da lontano scorgere il suo volto ed iniziò a sussurrare per il timore che qualcuno di poco raccomandabile potesse avvertire la loro presenza.
«Scusami per averti zittita e per averti mentito, ma ho impiegato mesi solo per confessarlo alla donna che sarebbe diventata mia moglie e ancora oggi non riesco a parlare di loro a mia figlia, nonostante sappia quanto sia importante che lei li conosca almeno attraverso i miei ricordi»
«Capitano, sul campo ci vuole fiducia. Lei non mi ha dato fiducia. Ho bisogno di poter conoscere i soldati che mi sono accanto, i soldati con cui combatto e, nel suo caso, da cui prendo ordini»
«Gwen, io ti affiderei la mia vita se fosse necessario. Intesi?  Quante volte te lo devo ripete, prima che tu lo capisca? Non siamo soli e tu non puoi camminare»
L'ufficiale aveva urgenza di terminare quella conversazione, non era tempo di abbandonarsi ai ricordi e lasciare che essi indebolissero i suoi pensieri e la sua lucidità, doveva essere vigile per riuscire a proteggere se stesso e la sua compagna di armi.
«Lo so ed io le affiderei la mia. Cosa facciamo? Non possiamo muoverci da qui senza rischiare di imbatterci in loro»
«Li distraggo, così penseranno di cercare altrove e noi potremo rimanere qui stanotte»
«Lei non oserà fare nulla di simile, tenente»
«Allora proponi tu un'idea migliore, ma ti ricordo che le tue condizioni di salute non sono ottime e se ci muoviamo senza una nuova medicazione alla tua gamba, rischi di perderla. Aspettami qui, torno presto»
L'idea di separarsi da lui non la convinceva. Prendere due strade diverse era sinonimo di debolezza, dividevano le loro forze, dividevano i loro pensieri e li rendeva più vulnerabili davanti al nemico. Era certa che Christian lo sapesse, ma non vedeva soluzioni migliori e Gwen iniziò a ritenersi solo un peso per lui. Il tenente le mise tra le mani la sua radio in modo tale che lei non potesse rifiutarla e controllò infine che avesse un'arma carica e alcune munizioni di scorta.
«Capitano, lei esce allo scoperto, ha più bisogno lei di un modo per comunicare in caso di pericolo, di armi e di munizioni»
«Resta nascosta. Voglio capire quanto siamo esposti qui. Stai tranquilla e se sei in pericolo, non esitare a contattatare l'ambasciata, d'accordo?»
Non le diede il tempo di rispondergli, era corso in esplorazione, lasciandola sola, ferita e preoccupata per le sorti del suo capitano.


Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 12 settembre 2018

 

La base a cui Flores era a capo da almeno dieci anni iniziò a tremare, come se un terremoto si fosse abbattuto su Kabul. Li stava attendendo nel silenzio del suo ufficio, nel luogo in cui aveva diretto centinaia di missioni; la maggior parte di esse aveva avuto un lieto fine, alcune avevano causato vittime tra i suoi uomini, altre, come l'ultima, avevano contato qualche disperso. Il giovane soldato Alexander Campbell si ritrovava nelle mani degli estremisti e Mark non riusciva a darsi pace per averlo inviato fin laggiù senza un piano ben definito. Era sicuro che Richardson e Ward fossero i candidati perfetti per diventare gli eroi di quell'ospedale, le loro vite erano troppo preziose per essere sprecate in una missione di difesa. Si domandò se gli fosse concesso l'onore di assistere a quell'importante trionfo e alla liberazione degli ostaggi, per cui non avrebbe avuto alcun merito. 
Le pareti della torre nel quale Flores aveva ubicato il suo ufficio iniziarono a tremare e qualche calcinaccio iniziò a staccarsi dal soffitto. Gli uomini che avevano deciso di affiancarlo e accompagnarlo in quella che sarebbe potuta essere la sua ultima operazione militare avevano organizzato una controffensiva, sapevano nitidamente quali fossero le loro posizioni per respingere il nemico, Mark invece avrebbe agito dove fosse più necessario per fare in modo che la sua unità perdesse meno uomini possibile.
Aveva appena terminato di riversare i suoi pensieri su un semplice e sbiadito foglio di carta; era una semplice preghiera rivolta al cielo e all'anima che ospitava da diversi anni ormai, troppi.

 
Mia cara Isabel,
mi manca poterti scrivere e inviare lettere dal fronte, 
mi manca poterti dire che ci rivedremo presto,
mi manca sapere che ci sei tu ad aspettarmi.
Vorrei spedirti questa missiva senza francobollo ovunque tu sia per dirti che mi dispiace, ho consentito che ti portassero via, ho tradito la tua fiducia.
Mi appresto a combattere la mia ultima battaglia. Se sarà davvero l'ultima, non me ne dispiacerò, saprò che un angelo sarà lì pronto ad attendermi.
Sempre tuo,
Mark
 

Gli accordi delle melodie che era solito suonare accanto e insieme alla sua donna accompagnarono le parole della lettera senza destinatario, rimbombarono ancora nella soffitta ormai vuota e impolverata, dove erano rimasti i loro ultimi sospiri, i loro ultimi momenti felici e il loro amore. Era rimasto tutto sopra quelle scale e da lì non era più sceso. Immaginò di essere ancora lassù insieme a lei a consumare uno dei loro ultimi battiti, a scambiarsi una delle loro ultime promesse, mai divenuta realtà, ma mai tradita e sempre mantenuta. Aveva desiderato per anni che avessero sparato anche a lui, in quel giorno, in quello stesso istante, morire al suo fianco sarebbe stato un sollievo, ma con il tempo comprese che avrebbe potuto spendere nel modo migliore la sua vita, avrebbe potuto tornare al fronte - anche contro le ultime volontà di lei -, combattere fino all'ultimo respiro un'ennesima ingiusta guerra, con la speranza di vedere un giorno un tempo di sola pace, un sogno che avrebbe voluto realizzare a fianco della sua Isabel.
Lasciò la lettera aperta sulla scrivania su cui l'aveva scritta, insieme alla sua stilografica. Rivolse uno sguardo al cielo, convinto che quelle parole fossero giunte a destinazione; nell'ora più buia, nel suo ultimo respiro lei lo avrebbe accompagnato. Infine prese una seconda missiva, stavolta riposta accuratamente in una busta e la pose nel taschino sinistro della divisa. Se fosse morto, era certo che avrebbero recuperato il suo cadavere e con essa i suoi ultimi pensieri.
Recuperò il cappello, impugnò la sua pistola già munita e con la sicura tolta. Era tempo di combattere e di uscire allo scoperto, quella torre non sarebbe diventata la sua tomba prima di lottare accanto ai suoi uomini.

Sulla busta che Flores conservava gelosamente tra la stoffa della divisa e il cuore vi era un unico nome, quello di Christian Richardson.

 


Ciao, ragazzi!
Sono parecchio dispiaciuta per il silenzio di questi mesi, non vi voglio annoiare e non vi elencherò i mille disguidi, i mille impegni e i mille problemi ... tra le mille cose sono riuscita ad aggiornare solo ora, mi dispiace davvero tanto.
Grazie di cuore per avermi aspettata, non immaginavo che questa storia potesse interessare a voi lettori. Grazie infinite, per me è importante ❤
Voglio rubarvi qualche minuto in più per mostrarvi un meraviglioso aesthetic che ha creato la mia adorata Bloody Wolf sulla famiglia Richardson. Bloody mi ha regalato tantissime grafiche meravigliose su Congiunzione astrale, insieme alla carissima Miryel, se siete curiosi e avete piacere fate scorrere la mia bio ❤
Vi segnalo inoltre la one-shot che ho scritto di recente e che approfondisce il passato di Christian, si intitola Orizzonte, se non siete ancora passati e vi potrebbe interessare, vi aspetta sul mio profilo. 
Detto ciò, non vi tedio più, il capitolo è stato sufficientemente lungo. Vi auguro sicuramente un anno migliore, lo auguro a noi tutti, visto che siamo stati colpiti da un destino comune. Vi auguro soprattutto che il prossimo anno sia ricco di progetti lasciati in sospeso e di ripresa per tutto e tutti. Mi auguro che il prossimo anno sappia curare le numerose ferite che l'anno che sta ormai per chiudersi ha lasciato ❤

A presto! 
Vi abbraccio fortissimo
-Vale

 




 
   
 
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