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Autore: Gaia Bessie    14/02/2022    2 recensioni
Era ottobre.
Le ragazze cominciavano a fare la muta, mettendo via le penne per poi riscoprirsi imbacuccate fin dentro le ossa, rivestite di pile e lana, che del loro viso si scorgeva solamente il naso arrossato e qualcosa degli occhi, il sorriso mai più. E poi si prendevano in giro a vicenda – tu hai la sciarpa fino agli occhi, pensa! E tu hai messo le calze in lana, e non è nemmeno metà mese! – finché, a ridere, non faceva male la pancia, anche quando da ridere c’era poco.
Poi, quando a fine mese qualcuna s’innamorava e finiva a farlo nel primo angolo buio disponibile, le altre non ridevano più: la guardavano con invidia e con malcelata ammirazione, perché ci voleva un coraggio superiore a quello dei Grifondoro per appartarsi in un’aula vuota o in un bagno, alla sera, sfidando il rischio d’incontrare professori o Caposcuola.
E, se qualcuna ci rimaneva, erano cazzi suoi.
[Fred/Astoria | Long-fic]
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Daphne Greengrass, Draco Malfoy, Fred Weasley | Coppie: Astoria/Fred, Draco/Astoria
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Avrei solo voluto (che t'innamorassi di me)

2.
Il peccato di coraggio
 
Il Cappello Parlante l’aveva smistata a Serpeverde non perché peccasse di fantasia, al pari di Daphne Greengrass, ma perché il vero peccato era quello della piccola Astoria ed era un peccato di coraggio: che era anche l’ultimo freno che la tratteneva dal comportarsi come la sorella, quando s’era resa conto d’essersi innamorata, e allora era divenuta tutta un sorriso affascinante, tutta un movimento unico dal bacino al capo, tutta inequivocabilmente sé stessa – poi non era stata più.
Eppure, si disse Daphne osservando sua sorella minore, quel peccato di coraggio era quel che la salvava dall’avventatezza del mondo: Ria Greengrass non se ne rendeva conto, che se ancora non s’era buttata tra le braccia di tutte le sue cotte, era per timidezza e mancanza di coraggio, che costituivano la sua rovina e al contempo quello che riusciva a preservarla intonsa.
Ma, il giorno in cui Astoria cominciò a sparire sempre più spesso, tutti quanti lo trovarono chiarissimo – ottobre aveva colpito di nuovo e anche la seconda delle Greengrass era caduta preda del ronzio delle foglie che si seccavano sotto la suola delle scarpe. Daphne non diceva una parola (mai), quando le chiedevano chi fosse  il misterioso ragazzo di cui Ria s’era presa una cotta, questa volta, non apriva bocca quando le domandavano se non fosse troppo piccola per sparire negli intervalli tra le lezioni, per fissare un punto imprecisato della Sala Grande a pranzo e a cena, se. Se non le si sarebbe spezzato il cuore, dato che il sangue Greengrass sembrava esser predisposto a ogni tipo di frattura.
La risposta di Daphne era stata lapidaria: una maledizione del sangue è una cosa orribile, se per tutta la vita hai pensato che era il sangue quel che ti avrebbe salvato, ma è anche l’unico brandello di libertà che possediamo – si fanno un sacco di cose che non faresti mai nella vita, quando respiri nella convinzione che morirai giovane.
Ma, se Astoria peccava di coraggio quando faceva un passo in avanti e poi se ne pentiva, Daphne possedeva il peccato contrario: l’intraprendenza, il giorno in cui decise di tornare a osservare Blaise Zabini come fosse la chiave di volta dei suoi sogni. Non lo era, Daphne lo sapeva, certo che non lo era. Ma, per quanto fosse stata smistata a Serpeverde, non si poteva dire che alla maggiore delle Greengrass non mancasse il coraggio, l’avventatezza – Ria lo sapeva, che sua sorella era ancora bruciata, con le ossa carbonizzate solamente per cancellare una firma con il suo nome, ma Blaise Zabini se ne rendeva conto troppo o non se ne rendeva conto affatto.
Astoria sospirò, rimestando il contenuto del proprio piatto, a cena, con le mani che tremavano nel dire a sua sorella che avrebbe voluto essere come lei (o esser lei): perché Daphne si morse il labbro e sillabò, senza alcuno strascico di dolcezza, che peccherebbe due volte. In coraggio e in coerenza e, allora, quella doppia c sarebbe stata marchio di fuoco sul petto, sul cuore, e avrebbe reso solamente difficoltosa la respirazione.
Astoria non comprese quelle parole. Nemmeno quando alzò lo sguardo, verso il tavolo di Grifondoro, per incontrare il sorriso un po’ scanzonato di Fred Weasley – avrà capito? – e, allora, le andò di traverso un pezzo di pane e pure la comprensione. Aveva sempre guardato da lontano, Ria, e adesso che era lei quella ad essere al centro di un gioco di sguardi, non capiva più.
«Ti guarda» commentò Daphne, con evidente malcontento. «Che si sia accorto che gli stai sotto al naso per almeno dodici ore al giorno? E solo perché non hai trovato il modo di infiltrarti nella Torre di Grifondoro».
La sorella minore non si diede pena di rispondere – la guardava, la vedeva per davvero? – cercando con lo sguardo quegli occhi azzurri che l’avevano tanto colpita, pochi mesi prima.
Fred Weasley la stava osservando con curiosità, forse, un pizzico di ironia che gli deformava il volto in un sorriso, facendola sospirare. Ria s’impose di non mostrare, nemmeno in una microespressione o nella pausa (troppo lunga) tra le parole d’essersene accorta. E d’esserne intimamente lusingata.
«Oh, smettila» sibilò Daphne, scrollando la chioma color sabbia o sole un po’ stanco. «Ci pensi mai, a dove ti sei persa la dignità?».
Fu in quel momento che la maggiore delle Greengrass si rese conto che era definitivamente terminata: che non c’era più spazio, nel corpicino minuto della sorella, per l’Astoria che aveva sempre (ri)conosciuto: perché Ria, la piccola e taciturna e timida Ria, la stava guardando negli occhi come se avesse il fuoco dei Grifondoro ad arderle nel petto. Lo disse così, secca, come uno sputo di veleno per un serpente.
«E tu?».
La fece ridere – Daphne, che non rideva mai, si sciolse in una risata disperata (sapeva anche di pianto), facendola trasalire.
«E io?» domandò, calma. «La mia dignità, dici? Chiedi a Zabini: penso che l’abbia ancora appiccicata sotto le scarpe».
Non era di certo un mistero, che Daphne avesse ereditato la schiettezza materna e l’insospettabile ironia di suo padre – un miscuglio pessimo che la portava a essere odiosamente sincera anche quando la dignità gliel’avrebbe dovuto impedire. Ma quella, che stava per davvero ancora appiccicata alle orme di Blaise Zabini, vacillava ed era fallibile come l’erano state le cotte della piccola Astoria.
Daphne era crollata, in seguito alla sua storia d’amore mai iniziata e comunque finita male. Ma, nel momento in cui Blaise avrebbe potuto ferirla nell’orgoglio più che nel cuore, Daphne si era ribellata facendo dell’ironia l’unica sua arma contro l’insensatezza di questo mondo (e degli altri possibili).
Astoria non riuscì a rispondere – persa nell’odiosa risposta di sua sorella, sì, nel pensiero di Fred Weasley che l’aveva guardata.
«Guardati» sibilò Daphne, alzandosi in piedi. «Brami la sua attenzione come un cucciolo orfano: non bramare, prendi e basta».
Astoria alzò un sopracciglio ma, prima di poter dire qualunque parola, sua sorella le voltò le spalle per uscire via dalla Sala Grande.
«Non dire mai che avresti solo voluto» sibilò, Daphne, sui propri passi. «Altrimenti non s’innamorerà mai di te».
   
 
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