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Autore: Orso Scrive    24/05/2023    1 recensioni
Dal 1963 a oggi, ci sono state due costanti irrinunciabili: la minaccia della guerra atomica e i Nomadi. Sulla prima non ho voce in capitolo. Ma sui Nomadi, qualcosa da dire ce l’ho pure io. Insomma, quest’anno compiono sessant’anni. Sessant’anni suonati, è proprio il caso di dirlo! Ho pensato, allora, di scrivere dei brevi racconti – in certi casi, poco più che semplici pensieri – ispirati ad alcune delle loro canzoni. È il mio personale tributo a questo gruppo musicale che, con le sue note, mi ha accompagnato in pratica da sempre.
Per dirla a modo loro, come sempre, sempre Nomadi!
Genere: Generale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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IO VAGABONDO (CHE NON SONO ALTRO)

(1972)

 

Io un giorno crescerò

e nel cielo della vita volerò…

 

È un giorno d’estate.

Uno di quei giorni in cui il sole ti batte sulla testa, mosche e zanzare non danno tregua e l’afa ti preme persino sulla coscienza. Uno di quei giorni in cui – quasi con attonita disperazione – ti ritrovi a domandarti come sia possibile che, insieme all’acqua nelle fontane, non sia ancora evaporato anche tu.

Ma stasera succede qualcosa che fa dimenticare i patimenti della canicola.

Un panino prosciutto e formaggio al volo, una birra fresca e via, si parte in macchina. Le strade sono polverose, inondate della luce dorata del tardo pomeriggio. Le automobili si affannano lungo i viali su cui i tigli ancora cercano di gettare un vano barlume d’ombra fresca. La schiena si incolla alla camicia e la camicia al sedile.

Si macinano chilometri. Incroci, rotatorie, semafori. Paesetti dimenticati dove ti guardi attorno e ti dici che tu, in un posto come questo, non ci vivresti nemmeno se ti regalassero la casa. Non che il posto dove abiti tu sia tanto meglio, chiaro. Ma quello è il tuo paesetto, è tutt’altra storia.

Andate, tu e la macchina, lungo la strada. Già che ci sei, accendi l’autoradio. Giusto per avere un po’ di compagnia. Le solite scariche disturbate, ricezione sfalsata, la réclame di una salumeria ficcata in un qualche posto del Triveneto che non hai mai nemmeno sentito parlare. Poi arriva la telefonata della solita vecchietta che parla al rallentatore. “Ciao, Radio Birikina, volevo dedicare la Ballata del Camionista all’Aldo e al Giovanni che vanno tutti i giorni sulla strada. Ciao Birikina, grazie…” Prima che parta Casadei, è partito il tuo dito ad avviare il lettore del cd.

Non che si senta benissimo, ma adesso dalle casse gracchianti e polverose esce la musica del tuo disco preferito dei Nomadi. L’album si intitola Gente come noi e i brani che si susseguono sono Gli aironi neri, Il serpente piumato, Dammi un bacio…

Ed è sulle note di Salutami le stelle che arrivi. Gironzoli per un po’ per il paesetto, un anonimo paesetto della Bassa come un altro, circondato da pianure coltivate a vigneto e mais, alla ricerca di un posto dove ficcare la macchina. Bestemmi come un turco – anche se non ne hai mai sentito uno bestemmiare, a dire il vero – quando un tizio con la faccia da sanguisuga si infila prima di te nell’unico posto libero, che avevi adocchiato da là in fondo. Era tuo di diritto, ma lui se l’è preso. Ti ha lanciato uno sguardo di sfida e ha vinto lui. Ingiustizie della vita. Potrebbe venirne fuori una rissa – ne nascono per molto meno – ma lasci correre. E poi fa troppo caldo per mettersi a litigare adesso.

Alla fine la lasci davanti a un cancello, su cui non ti sembra di avere visto affisso nessun cartello di “Passo Carrabile – Divieto di Sosta – Aut. 152”. Almeno, ti sembra.

Ti avvii tra un viottolo pieno di erbe rinsecchite e un muretto di pietra che costeggia un orto polveroso, senza domandarti se, al ritorno, la tua macchina ci sarà ancora o dovrai fartela a piedi fino al parcheggio dell’ACI. Perché mai fasciarsi la testa prima di essersela rotta?

Passi un vicolo, superi un ponticello sopra la roggia – in secca, e che lascia evaporare miasmi mefitici che sanno di fogna – e sei in piazza. Il palco è stato montato sul lato opposto alla chiesetta, il cui campanile sta finendo di rintoccare proprio in quel momento le 21. Le porte del municipio sono già sbarrate da un bel pezzo.

Manca poco.

Il pubblico comincia ad assieparsi, gente che si conosce si saluta, si fanno nuove conoscenze, si scambiano opinioni. Qualcuno esprime una speranza di sentire una canzone, un altro – il solito saputo – scuote la testa: «Quella non la fanno da almeno due anni.»

Tu te ne stai lì, un po’ in disparte, le mani in tasca. Conosci tutto e tutti e non conosci nessuno. Sei lì, insieme agli altri fan, quelli che ogni volta arrivano da tutta Italia nei posti più sperduti e impensabili per sentire un concerto. Anche tu, pur essendo un cosino piccolino, sei parte di quello che si chiama il “popolo nomade”.

E, in un certo senso, la cosa ti appassiona. Sei parte di qualcosa, dopotutto.

Si abbassano le luci in piazza, si accendono i riflettori del palco, la macchina del fumo crea una nebbia compatta e partono le note della tastiera di Beppe. Proprio la canzone che il saputo di prima assicurava non suonassero più. Tiè.

Poi eccoli, uno per uno iniziano a suonare e cantare, e tu – voi, ormai – canti e salti insieme ai Nomadi. Le note e le parole si inseguono per un’ora, due, quasi tre.

Mediterraneo, Ho difeso il mio amore, Ti lascio una parola, La libertà di volare, Noi non ci saremo, Il pilota di Hiroshima, Suoni e tante, tante altre, troppe per tenerle tutte a mente. Sessant’anni di storia italiana riassunti in tre ore di concerto, tre ore di emozioni, tre ore scalmanate e piene di adrenalina, di energia, di forza vitale. Non sarà San Siro, sarete forse in mille e non cento volte tanti, ma a te pare davvero di star assistendo al concerto del secolo.

E tu sei lì che sudi, che urli, che ti dimentichi la stanchezza e che dimentichi chi sei, e pensi che potrebbe non finire mai, che potrebbe durare in eterno…

Ma ecco, è ancora il suono del piano di Beppe Carletti ad annunciare la fine del concerto. Lo fa quando comincia a intonare le note di quella canzone che è diventata il loro simbolo, il simbolo del popolo nomade, il simbolo delle estati e della musica in tutta l’Italia, forse in tutto il mondo, chissà.

Prima della canzone, si leggono i bigliettini e gli striscioni di cui è pieno il palco. Poi arrivano i saluti, la presentazione dei musicisti, senza scordarsi che, su quel palco, ci saranno per sempre anche Augusto Daolio e Dante Pergreffi.

Si intonano le parole.

«Io, un giorno crescerò, e nel cielo della vita volerò…»

Il pubblico esplode, è il solito delirio. Non finisce mai… ma poi finisce. Inevitabilmente, come sempre, arriva davvero la fine. I Nomadi suonano il Te Deum di Charpentier. Come in diecimila altre occasioni, quel motivo che in televisione annuncia l’Eurovisione, qui annuncia che è il momento di andarsene tutti quanti a dormire. Il pubblico non è stanco, tutti saltano e cantano anche adesso, come all’inizio della serata.

È di nuovo il tempo dei saluti, degli abbracci finali, di tornare alla macchina e di rimettersi in viaggio.

Ma non è la fine.

È solo l’annuncio di un nuovo inizio, perché il viaggio continua.

E tu, con i timpani che fischiano e la mente ancora piena di parole e emozioni, ritorni verso la macchina – che, per tua fortuna è ancora lì, “perché tanto non dovevo andare da nessuna parte, e passi stasera, ma la prossima volta non sarò tanto indulgente” ti annuncia il biglietto infilato nel tergicristallo – e ti rimetti in viaggio.

La strada è buia, l’asfalto scivola sotto gli pneumatici, e già pensi a quando tornerai a rivivere queste emozioni.

 

 

io, vagabondo che son io,

vagabondo che non sono altro,

soldi in tasca non ne ho

ma lassù mi è rimasto dio…

 

 
 
   
 
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