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Autore: Hikari93    08/10/2011    10 recensioni
TITOLO MODIFICATO!!! (Ex "Una strana coppia")
(ATTENZIONE: (NON) solo il primo capitolo è un po' "dark/angst")
Sentii solo una risatina, che non mi piacque. «Facciamo un patto.»
Alzai il capo, esterrefatto. «Un patto?» ripetei.
«Esattamente: hai sei mesi di tempo. Se riesci a diventare la mia» ironizzò, come se mi stesse prendendo in giro, e non desse peso alle mie parole «”persona che mi fa stare bene”, avrai i tuoi genitori indietro.»
I miei genitori? Allora erano vivi! «Altrimenti?» chiesi.
«Altrimenti sarai mio per l’eternità.»
D’impulso sgranai gli occhi, poi mi rilassai, accennando a un sorrisetto. «Come vuoi, signor…?»
«Sasuke… Uchiha.»
Genere: Angst, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Scommettiamo, Naruto-chan?
 

 

     Prologo
      

 

 

Sin da quando ero piccolo, non avevo mai creduto ai fantasmi, né ai mostri o agli zombie. Avevo guardato gli horror senza temere attacchi improvvisi da parte di chissà quali creature sovrannaturali e riso, divertito, dinnanzi a documentari riguardo a eventuali alieni, sparsi chissà dove nell’universo.
Non avevo mai creduto a niente, se non a ciò che potevo vedere e, eventualmente, toccare.
Avevo ascoltato con sufficienza, e con una certa noia, i racconti del “terrore” messi in piedi dai miei amici, quando andavamo in campeggio. Avevo sempre detestato le tanto decantate “serate di puro terrore intorno al falò”, perché le avevo trovate noiose. Mai che qualcuno fosse riuscito a spaventarmi, tant’è che alla fine i componenti della mia combriccola avevano finito per fare a gara a chi riuscisse per primo a farmi tremare come una foglia.
«Non c’è gusto con te, Naruto!» mi disse Kiba una volta. «Non è possibile che non ti vengano i brividi! E dire che di questa ero sicuro!»
E io avevo ribattuto, pazientemente, con una misera alzata di spalle, accompagnata dal movimento deciso di un dito. «Non sono io il problema, siete voi che vi lasciate abbindolare facilmente.»
Perché io ci avevo creduto, ci avevo creduto davvero che, oltre a noi esseri umani, non esistesse alcuna altra forma di vita.
Finché non cominciarono le prime sparizioni in città.
Il chiacchiericcio intimorito dei miei compagni di classe mi faceva irritare, perché qualcosa dentro di me mi stava sussurrando di aver sempre sbagliato, di avere avuto un punto di vista troppo realista e chiuso. Che, oltretutto, era decisamente anticonformista, rispetto al mio modo di comportarmi, da perfetto sognatore, con la testa sempre tra le nuvole.
Sognatore, non visionario.
«Si tratterà di un criminale» concludevo svelto, chiudendomi all’istante, ed ermeticamente, in una dimensione tutta mia, dove non esistevano altro che le mie convinzioni.
Non esistono i fantasmi.
«Ah sì? E allora mi spieghi come mai, genio, non c’è la minima traccia di chi possa essere questo “criminale”, come ti ostini a definirlo?» Kiba gesticolava terribilmente, impaurito, pazzo.
«E tu mi spieghi quali prove avresti per rendere veritiero ciò che dici?» Lo avevo ammutolito.
Ma la quiete non era durata per molto. Le sparizioni, anche se più rare, erano continuate e con loro le nostre liti; sorgevano nei momenti meno opportuni e scatenavano un fracasso assordante. Nessuno dei due cercava di spiegare le proprie motivazioni, ma erano soltanto le urla di due persone che, sebbene si trovassero a meno di un palmo dal naso, non riuscivano a spiegarsi, non si sentivano, perché erano troppo lontane.
Così, inevitabilmente, avevamo litigato.
Alle rumorose frasi e accuse si era sostituito un doloroso silenzio. Inconsciamente io avevo cercato di capire le sue tesi, così come lui aveva fatto con le mie, ma non c’era più stato un punto d’incontro.
E si sa, la situazione resta inalterata se non sopraggiunge un fattore che la muta.
Fino a quando da Konoha non sparirono altre due persone. Era stata l’ultima di una lunga serie, ma senza dubbio si era trattato di quella che mi aveva colpito di più. Perché, quella volta, a volatilizzarsi nel nulla, senza alcunissima traccia della loro sopravvivenza o della loro morte, furono i miei genitori.
Kushina Uzumaki e Minato Namikaze.
Da quel momento, la mia vita cambiò, come era normale che fosse. Smisi di chiudermi ostinatamente nel mio sbagliato – perché ormai l’avevo capito, non poteva essere altrimenti – punto di vista, e andai da Kiba. Non ci fu bisogno di parole, perché la tremenda notizia della sorte della mia famiglia si era già saputa. Come se il vento impetuoso, che comandava ogni cosa, fosse stato più veloce delle mie gambe, e avesse avvertito tutti, li avesse messi in guardia.
Era stato in quei giorni che, dopo aver girato, cercato e urlato in lungo e in largo i miei familiari, avevo preso una decisione importante: avrei fatto di tutto per ritrovarli, e ci sarei riuscito.
Non escludevo più l’esistenza di alcun essere paranormale, anche se il perché non l’avevo rivelato a nessuno.
Del volto pallido che avevo visto quella notte, mentre strisciava silenziosamente accanto alle tende, sicuro di non essere visto; delle macchie di sangue che gli imbrattavano la veste bianca anch’essa, che si confondeva col volto; del frastuono delle catene che aveva ai piedi, e che si trascinava dietro come se pesassero dieci volte di più del loro peso effettivo; ma soprattutto, non dissi, né avrei mai detto, degli occhi neri e perfidi che la strana creatura aveva puntato nei miei azzurri, prima di farmi cadere al suolo, privo di sensi.
Prima di svenire, ebbi solo la consapevolezza di non riuscire a percepire il freddo delle mattonelle. Anzi, rispetto all’aria gelida che si era diffusa in quella stanza, il pavimento equivaleva all’inferno.
 
 
*   *   *
 
 
«Sono distrutto!» sbadigliai, e il suono emesso da quell’atto andò a coprire il fragore del vento e l’imperversare della tempesta. O almeno, alle mie orecchie non arrivò altro che lo sbadiglio. Allungai le braccia in alto e mi spinsi all’indietro, lasciando che la vecchia sedia in legno, scricchiolante, dondolasse sotto il mio peso.
Avevo perso il conto di quanti anni avessi trascorso da solo in quella casa; da quando avevo ricordo dei miei, cinque anni probabilmente.
Già… Minato Namikaze e Kushina Uzumaki erano spariti già da cinque lunghissimi anni e io, che continuavo a mantenere la mia promessa, o almeno a cercare di farlo, restavo un testardo. Non mi sarei arreso davanti all’evidenza dei fatti, ma avrei lottato fino alla morte per recuperare la mia famiglia, dovunque si trovasse.
Perché avevo imparato a non escludere nessuna ipotesi: tutto era possibile, anche ciò che avevo ritenuto impossibile fino ad anni prima.
Osservai degli appunti, illuminati da un soffio di luce prodotto da una candela, che erano quanto più di simile a testimonianze ci potesse essere. In pratica, non erano altro che taccuini, sottospecie di “diari”, narranti degli ultimi minuti di esistenza terrena degli scomparsi.
Avevo chiesto la collaborazione di un po’ tutti gli abitanti di Konoha che avevano avuto la mia stessa sorte.  Qualcuno aveva acconsentito, piuttosto fiducioso, mentre altri mi avevano sbattuto la porta in faccia, con violenza.
Ma sapevo che era il loro dolore a portarli a questa chiusura. Però, io stavo tentando di trasformare il dolore in forza, perché solo così sarei potuto andare avanti e non lasciarmi morire.
Rileggevo velocemente quanto mi era stato consegnato, e non era la prima volta che fissavo nella mia mente quelle parole: all’apparenza sembrava che non ci fosse alcun punto in comune. Ma in quale altro modo avrei potuto tentare, se non in quello?
Mi ero anche documentato, quanto più possibile, riguardo a fantasmi e a spettri, sperando che qualche testo permettesse alla lampadina nella mia zucca di accendersi.
Mi abbandonai a un sospiro: l’indomani avrei dovuto riconsegnare i libri alla biblioteca. Avevo fissato qualche dettaglio più importante – mica tutto, però! Del resto, non mi era mai piaciuto troppo studiare –, ma se il vero indizio, quello che mi avrebbe aiutato, andasse scovato? Individuato tra le righe?
Abbandonai anche solo l’idea di rileggere qualche brano, ritornando a focalizzarmi sui pezzi di carta, che probabilmente erano fonti quantomeno più attendibili di semplici libri di testo.
Sempre meglio la pratica della teoria, no?
Strinsi un foglietto logoro, che più di tutti mi pareva dettagliato. In effetti, non avevo potuto pretendere più di quanto le famiglie colpite dalle sparizioni avevano fatto. In fondo, mi presentavo come una sottospecie di ciarlatano, che non aveva creduto negli spettri, se non dopo che questi gli avevano fatto un torto. Non ero la persona più attendibile del momento.
Sospirai ancora, e contemporaneamente mi passai una mano tra i capelli biondi. Gli occhi mi si chiudevano – era quasi mezzanotte, e nelle ultime settimane mi ero sottoposto a una fase di studio e ricerche no stop – ma quel pezzo di carta che mi rigiravo tra le dita era troppo allettante per essere ignorato.
 
“Mi trovavo in cucina, quando sentii un rumore. Lì per lì non mi preoccupai, pensando che fosse stata mia moglie a produrlo. Quando, però, mi sopraggiunse il suono delle catene, mi precipitai da mia moglie, ma non trovai nulla. Ad accogliermi, solo il rumore di una tempesta che fino a poco prima non c’era e una macchia di sangue sul divano.”
 
Ma come si potevano collegare questi somiglianze con la mia versione – oltre che con quella di qualcun altro – senza avere ulteriori indizi? Era casuale l’arrivo di questo fantasma?
«Non ci capisco niente! Credo proprio di essermi tuffato in un’impresa più grande di me!» Mi allungai sul tavolo e appoggiai la fronte al legno massiccio e lavorato della scrivania. Giorno dopo giorno, cominciavo a perdere le speranze: e se non fossi mai riuscito nel mio compito? Stavo sprecando la mia vita? Avrei fatto meglio a usare i miei, cosiddetti, “anni migliori” per divertirmi e svagarmi? Ma potevo, considerando che molta gente era finita chissà dove? Talvolta, avevo pensato anche di ritornare sui miei passi, rivalutando la mia primissima tesi, ovvero che potesse trattarsi di un criminale molto abile. Ma, non appena la mia bocca formulava questa ipotesi, la mia mente mi riportava agli occhi nerissimi di quell’entità che mi aveva privato di ciò che di più caro avevo al mondo.
«Mamma, papà, cosa devo fare…?»
Ancora una volta non avrei ricevuto alcuna risposta, nessuno mi avrebbe parlato, fatta eccezione per il pianto silenzioso in cui rilasciavo cadere, che era diventato il mio unico compagno fedele.
Singhiozzai sempre più forte, abbandonandomi alla disperazione che mi stava attanagliando le viscere da troppo tempo. Avevo tentato con ogni mio inutile mezzo di reprimerla, di non considerarla, ma alla fine era esplosa, inevitabilmente, facendomi versare più lacrime di quando ero bambino.
D’un tratto un suono, come un tocco di campana.
Mi zittii, alquanto terrorizzato, come se tutta la paura, che non avevo mai provato da piccolo, si fosse scatenata tutta in un momento, ricordandomi solo di quegli occhi.
«Chi c’è?» Mi asciugai gli occhi, strofinandoli, e accesi la pila che tenevo nel cassetto della scrivania stessa. Mi alzai, ordinando alle gambe di non muoversi freneticamente.
Nessuna riposta, come avevo immaginato, solo un altro tocco di campana, più forte.
Cercando di vincere la paura, provai a concentrarmi sui successivi suoni che si facevano spazio in casa mia, fendendo l’aria invernale come spade affilate e bramose di sangue: provenivano dalla stanza.
Mi mossi lentamente verso l’interruttore della luce; lo premetti, ma non accade nulla: il lampadario sopra la mia testa aveva deciso di restare spento.
Perfetto.
«Guarda che non mi fai paura!» urlai, mentendo spudoratamente. Perché non ero più il vecchio Naruto, perché il coraggioso bimbetto, che credeva solo alla realtà effettiva delle cose, era sparito. Era buffa come cosa: invece di smettere di credere alle favole da grande, avevo cominciato a trovarle fondate.
Perfetto, di nuovo.
«Se hai le palle, fatti vedere, tanto lo so che ci sei!» Ero ridicolo, o semplicemente angosciato? Il fatto che parlavo da solo significava che ero diventato pazzo improvvisamente? Più di una volta avevo desiderato che tutto tornasse esattamente come prima e che la mia vita, quello che stavo vivendo, non fosse altro che un sogno.
Sebbene i piedi volessero restare incollati a terra, io non demorsi, ma li sforzai, sfidando quella che mi sembrava una forza di gravità centuplicata. Tremavo, ma avevo atteso quel momento da tanto, no? Non potevo demordere proprio adesso, vero?
Inghiottii il groppo in gola che mi si era formato, e mi asciugai le ultime lacrime. Se proprio dovevo sfidarlo, anche se non sapevo minimamente come fare, lo avrei fatto. Tanto, di scappare non se ne parlava: dove sarei potuto andare?
Una risata disumana mi fermò al posto.
«Mi cercavi? Sono anni che lo fai, non è così?»
Spalancai la bocca e lasciai cadere la torcia a terra, che si spense all’improvviso, seguita all’istante dalla candela. Non c’era un alito di vento, né una fiammella di luce. Ero al buio e in spiacevole compagnia.
Cercai di tranquillizzare il respiro grosso e di calmare i battiti del cuore che andavano a mille. Forse mi sentivo vicino alla morte, o forse ero semplicemente incapace di controllare i ricordi custoditi dalla mia mente, fatto sta che mi ricordai del viso dolce di mia madre, mentre mi diceva che il cuore batte a una velocità supersonica quando si è innamorati.
Non capii cosa effettivamente c’entrasse con quello che mi stava accadendo… a essere sincero, non capivo più nulla. Nessuno aveva mai detto di aver sentito questo fantomatico spettro parlare. Magari… magari se me ne fossi stato zitto, sarei stato salvo.
«No, non lo saresti stato, nessuno lo è.»
«Come ha fatto a leggermi nel pensiero?» parlai, senza nemmeno rendermene conto.
La voce dello spirito mi aveva mandato il cervello al diavolo. Era lenta, troppo lenta come se presagisse la fine, e agghiacciante, crudele e sofferente al tempo stesso. Una specie di melodia fredda che ti trapassava i timpani.
Fatti coraggio, Naruto. Coraggio! Da quanto tempo stai aspettando questo momento? Da quando speri di poter riportare in vita i tuoi genitori o, se non è possibile, di vendicarti contro questo essere? Non aver paura, in ogni caso sarebbe inutile, ora come ora.
«Qualunque cosa tu faccia sarebbe senza senso, capisci? Perché ora sei nel mio mondo, dove tu non esisti, non hai più una tua personalità. Ciò che è tuo, anche il segreto più intimo, è a mia conoscenza.»
«Stà zitto…» mugolai. Non sopportavo la sua voce: era irritante, ma, quel che era peggio, mi spaventava, e io non potevo permetterlo. Nulla doveva essere più importante e nobile del mio obiettivo.
«Naruto Namikaze!»
Udii il rumore delle catene, sempre più veloce, che aumentava mano a mano che il terrore si impossessava di me. Poi, dal buio assoluto si aprì uno squarcio di luce bianca, dalla quale avanzò, sempre più rapido, un alone chiarissimo, che divenne materiale, se così lo si poteva definire, solo quando fu faccia a faccia con me.
Non riuscii a scrutarne troppi particolari, perché caddi all’indietro, seduto a terra, sovrastato dall’immagine terribile dello spettro.
Le mani tremavano, senza controllo, così come le labbra e le gambe. Solo il cervello era rimasto “dalla mia parte” e, come me, voleva rialzarsi e darsi da fare: peccato, però, che la maggior parte del mio corpo non reagisse.
D’istinto mi portai un braccio davanti agli occhi, perché non avevo più voglia, tantomeno coraggio, di guardare la sua figura.
D’un tratto, qualcosa di freddo mi toccò il mento e, contemporaneamente la stanza intorno a me prese colore: non che mi interessasse granché, visto l’avversario che avrei dovuto fronteggiare, ma il luogo dove mi ritrovai non era più la mia camera.
Avvertii le dita dello spettro stringersi sempre di più intorno alla mia pelle, facendomi male. Era di un freddo gelido, pungente, doloroso. Soffocai un gemito quando sentii una sua unghia incidermi la carne, facendomi scendere un rivolo di sangue.
In quel momento, ero a sua più completa disposizione, tanto che, quando si abbassò quel poco che gli era necessario per guardarmi negli occhi e leccarmi via il sangue, non mi mossi, ma rabbrividii soltanto.
Avevo smesso di tremare, ma gli occhi spalancati e la bocca altrettanto aperta dicevano molto. Non mi ero mai visto in queste condizioni.
«Mi ricordi tanto tua madre» disse lui, accarezzandomi il volto.
Tua madre, tua madre…
Quelle parole mi furono di monito e incoraggiamento, come se lei fosse lì, vicino a me. Non dovevo dimenticare il mio obiettivo.
«Che ne hai fatto di lei, di mio padre, degli altri..?» urlai, colpendogli la mano con un colpo folle e preciso.
Sembrò sorpreso da questo mio gesto; magari, nessuno si era mai ribellato alla sua volontà.
Goffamente, mi alzai da terra, e mi concessi pochi secondi per osservarmi intorno. Non si trattava di un vero e proprio luogo, di un vero e proprio ambiente concreto, quanto di un ammasso di tenebra oscura, ma che allo stesso tempo era illuminata. Sì, dalla presenza del fantasma dagli occhi… rossi? Ma… non era lui quello che cercavo?
«Quei miserabili?» si concesse una risata. «Semplicemente non appartengono più al tuo mondo.»
Trattenni le lacrime, ma non potei evitare che i miei occhi divenissero rossi.
«Che fai, piangi?» mi schernì. «Era quello che meritavano» sussurrò «E tu, come loro, farai la stessa fine.»
Ebbi paura di nuovo.
Il fantasma aveva alzato l’ascia, che impugnava nella mano destra, e me l’aveva puntata contro la gola.
Deglutii, ma non mi spostai, anche perché delle mani fluttuanti mi tenevano bloccato. Alcune, dal terreno, mi paralizzavano le gambe ancora più di quanto queste non lo fossero già. Chiusi gli occhi, pronto al peggio, ma non successe nulla. Pensai, scioccamente, che fosse stato tutto un incubo, ma quando aprii gli occhi il viso del fantasma era ancora lì, un’espressione deformata da una ferocia letale. I suoi occhi cercavano vendetta, lo leggevo benissimo. Era ciò che anch’io avevo sempre voluto contro di lui.
«Perché vuoi vendicarti, spiegati» domandai. Tanto, se dovevo morire tanto valeva approfittarsene.
«Non sono affari tuoi, moccioso.» Fu glaciale e potente, come la stretta al cuore che sentii. Mugolai di dolore: sentivo il cuore come se fosse sul punto di scoppiarmi in petto; era lancinante, ma forse l’unica cosa che mi faceva capire di essere ancora vivo.
Chi muore smette di soffrire.
Il mio pensiero, che avevo capito veniva condiviso anche dallo spettro senza che potessi oppormici, lo irritò ancora di più. Il male all’addome si estese dovunque, fino a martellarmi in testa.
Quando divenne troppo forte, quando non percepii altro se non esso, non fui più in grado di sopportarlo, e persi i sensi.
 
Nel momento in cui mi risvegliai, mi ritrovai legato.
La puzza di sangue mi prese subito alla gola, facendomi venire la nausea. Ma dove diavolo ero finito?
«Namikaze, secondo te chi muore smette di soffrire?» Lo spettro.
Cosa dovevo dirgli? Il dolore che mi aveva inferto, solo guardandomi, era ancora vivo in me, come se potessi ancora sentirlo. Non volevo più provarlo, lo temevo.
Stetti in silenzio.
«Rispondi!» tuonò.
D’impulso serrai gli occhi, aspettandomi una fitta alla testa, ma non ci fu nulla. Pian piano, mi decisi a guardarlo in faccia,  e rividi quell’iridi nere. Ma ormai non era più importante: qualunque cosa fosse, chiunque fosse e per qualunque motivo fosse, non mi interessava. Ero sotto il suo controllo, tanto valeva cercare di essere razionale.
«Se muori non provi più alcuna emozione, nemmeno il dolore» risposi.
Lui ghignò. «Allora guardami, ti sembro forse vivo?»
Ancora una volta fui indeciso su cosa rispondere, ma optai per un no; scossi la testa.
«Spiegami, dunque, cos’è questa sensazione che sento. Perché sono vivo pur essendo morto?»
Non sapevo rispondere, non lo sapevo…
Cosa dovevo dirgli, e a che scopo? Mi morsi forte il labbro, sperando che mi sovvenisse l’idea giusta per tirarmi fuori dai guai. Ammesso che fosse possibile.
«Questo non lo so.» Mi feci scuro in volto. «Ma quello che so per certo è che io sto male quando non ho accanto la persona che mi… che mi fa stare bene.»
Temetti che la mia vita potesse finire all’istante ma, ancora una volta, non accadde nulla.
Sentii solo una risatina, che non mi piacque. «Facciamo un patto.»
Alzai il capo, esterrefatto. «Un patto?» ripetei.
«Esattamente: hai sei mesi di tempo. Se riesci a diventare la mia» ironizzò, come se mi stesse prendendo in giro, e non desse peso alle mie parole «”persona che mi fa stare bene”, avrai i tuoi genitori indietro.»
I miei genitori? Allora erano vivi! «Altrimenti?» chiesi.
«Altrimenti sarai mio per l’eternità.»
D’impulso sgranai gli occhi, poi mi rilassai, accennando a un sorrisetto. «Come vuoi, signor…?»
«Sasuke… Uchiha.»
 

 



 
Ammesso che siate arrivati quaggiù…
Vi starete chiedendo che cos’è… beh, me lo domando anche io. Ò-ò
Non si tratta d’altro che di un’idea idiota che mi è venuta mentre giocavo a Project 0 (e dire che sono una fifona -///-).
Dunque, cosa succederà adesso? Diciamo che sarà una “normale AU”, dove Naruto tenterà di “cancellare” il dolore provato da Sasuke.

(per il Sasuke isterico/pazzo, immaginatevi quello degli ultimi avvenimenti Cx).
 
Me lo lasciate un commentino? ç-ç
Grazie! Cx 

   
 
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