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Autore: ReiraIchinose99    14/01/2012    1 recensioni
E' eretta,statuaria,come una dea infelice che si crogiola nel suo limbo di insoddisfazione.
Cosa ha assediato la sua esistenza da ridurla a un essere dalla tanto malcelata fragilità emotiva?
Un'infanzia travagliata,delusioni amorose,profilo caratteriale complesso e controverso.
Tutto questo è Akane Tsubaki.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Incompiuta
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- Questa storia fa parte della serie 'La ragazza dagli occhi color zaffiro'
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Capitolo 1- La bambina dagli occhi color zaffiro
 
“Lei era una bambina dagli occhi color zaffiro.” aveva detto la zia con la voce rotta dal pianto un giorno in cui un grigiore sembrava permeare l’atmosfera circostante. Un uomo dall’espressione austera la ascoltava in un pauroso silenzio mentre si rigirava tra le mani nodose un block notes di appunti. Nel frattempo imprimeva il suo sguardo pesante e incisivo sulla donna martoriata dai sensi di colpa che se ne stava seduta sul divanetto in pelle di fronte a lui. Un divanetto verde bottiglia, che Akane appena quindicenne aveva chiazzato più volte di gocce di cristallo…
L’uomo annuiva e ogni tanto scriveva qualcosa distrattamente. Gli occhi grigi, i lineamenti marcati, l’espressione apatica, tutto faceva trapelare un intenso e malcelato malessere generale. Un malessere palpabile e impossibile da estirpare.
La donna accavallò leggermente le gambe. Il ticchettio della pioggia battente impregnava la scena di un angoscioso sottofondo. L’uomo intanto le rivolgeva domande, e scriveva, simulando una concentrazione che non aveva. La zia di Akane aveva gli occhi lucidi sovrastati da un fazzoletto bianco retto a stento dalle mani ossute, ridotte a una matassa di ossicini coperti da un sottile strato di carne nivea. Il collo da cigno e il profilo aristocratico ridotto ad una smorfia dolorosa. Una smorfia che nessuno si sarebbe mai aspettato. Una smorfia che si dispiegava sul suo viso un tempo rosseggiante, ricoperto da una sottile patina di severità ingiustificata nei confronti di quella ragazza (Akane) che aveva praticamente cacciato da casa sua. In quel momento se ne pentì.
La sua figura, sbattuta su quel divanetto verde bottiglia, prese la forma di un aggrovigliarsi confuso di lati macabri e vanaglorie nascoste, coltivate col passare degli anni. Infantilismi repressi e pregiudizi si erano riversati su quella ragazza eterea e innocente che dopo aver perso il nucleo familiare più stretto si era rivolta a lei.
In quell’istante la zia di Akane si mise una mano sul viso e si sentii marcire, appassire per sempre, come persona e come donna. La muraglia di ideali che aveva cercato di impartire ai suoi figli si era sgretolata e ridotta ad una poltiglia che si era portata dietro Akane. Se l’era portata via per sempre, e non sarebbe più tornata.
La coscienza iniziò ad attanagliarla tempestandola di uncini perforanti, letali, che l’avrebbero consumata lentamente, linciandola attraverso un susseguirsi di sensi di colpa sempre più potenti e incisivi.
La donna oramai sulla cinquantina, si sentì un individuo fatiscente, squallido, come  gli sprechi voluttuosi della classe sociale più danarosa, come la morte precoce dei bambini poveri del terzo mondo, come le organizzazioni mafiose che affliggevano alcune popolazioni, come le epidemie incurabili..
Sentii come se una piaga primordiale avesse afflitto il suo animo, come se una figlia le fosse irrimediabilmente sfuggita di mano, senza più possibilità di recupero.
L’uomo nel frattempo continuò a fissarla con ostentata insistenza. I suoi occhi invadenti le si erano posati sulla nuca sottile e ben delineata. Un altro uomo sbucò da dietro il divanetto e le sussurrò parole di conforto. La donna fece una smorfia rassegnata mentre cercava di non sprofondare nell’ennesimo pianto inutile e disperato. Spezzò definitivamente la catena di lacrime che le avevano solcato i lineamenti oramai quasi estinti dalle rughe incombenti. Con un gesto deciso della mano allontanò il disturbatore che stava cercando malamente di consolarla e si alzò dal divanetto infrangendo la tragicità patetica di quella scena. Da donna risoluta fece accomodare i due fuori dalla porta, e tornò a sedersi sul divanetto stavolta senza altre superflue presenze.
Un istante dopo si avvicinò ad un portafotografie riposto su un tavolino impolverato di legno laccato avorio. Lo afferrò con entrambe le mani curate e vi fece scorrere lo sguardo assorto qualche tempo. Un tempo che fu molto lungo, o comunque abbastanza per fissare la malinconica immobilità di quella scena in chiunque avesse avuto modo di contemplarla. Era lei. Sempre lei. Un fantasma. Una persecuzione. L’icona di un passato imputridito dagli sbagli commessi e ripercuotibili su un macabro presente e un tenebroso futuro in allerta. La zia riuscì a comprendere l’importanza della scena immortalata da quella foto sbiadita. Era Akane, con i suoi capelli lucenti che ricadevano pesanti e al contempo leggeri sulla schiena minuta. La sua figura eterea e falsamente sorridente accanto a quella funesta dei suoi figli, che sfortunatamente non riuscivano ad eguagliare la bellezza e il fulgore emanati dalla ragazza alta accanto a loro. Sembrava una dea proveniente da una galassia distinta e irraggiungibile.
La maledizione era costituita dal fatto che forse in quella galassia Akane, ci era tornata.
  
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