Capitolo
rivisto e corretto.
Beh,
innanzitutto grazie per essere entrate/i! Questa storia
mi frullava in testa già da qualche tempo e ho sentito il
bisogno di
pubblicarla! Mi piacerebbe davvero tanto sapere cosa ne pensate, visto
che è da
questo che dipenderà il proseguimento della storia.
Buona
lettura!!
Vero
I
capitolo
«Si avvisano i gentili passeggeri che il volo 765489 delle
ore diciannove, con
direzione Seattle, Stato di Washington, è in
partenza».
Salutai
per l’ennesima volta mia madre Renée,
dopo averle giurato ancora e ancora di chiamarla ogni settimana e di
mandarle
almeno tre mail al giorno. Baciai la guancia di quella donna dai tratti
ancora
estremamente infantili, che era mia madre, e salii
sull’aereo. Una volta
seduta, la osservai dall’oblò. Era completamente
concentrata nell'osservazione
del mezzo, probabilmente tentava di autoconvincersi che fosse in grado
di
portare a destinazione e, possibilmente, viva e vegeta, la sua bambina.
Un uomo
in uniforme le si avvicinò e, dopo aver parlottato un
po’, le fece segno di
allontanarsi. Renée non sembrava per niente contenta, ma fu
costretta ad
obbedire. Scossi il capo, non poteva certo restare vicino ad un aereo
che si
preparava al decollo. Ma Renée era così:
sprovveduta e apprensiva allo stesso
tempo. E decisivamente cocciuta, anche. Sì,
perché la mia cara mamma – non
compresi mai in che modo – era riuscita ad avvicinarsi al
mezzo prima della mia
partenza. Avevo fatto il checkin, attraversato la porta scorrevole che
conduceva alla pista e me l'ero ritrovata davanti, sorridente e
vittoriosa come
una bambina che è finalmente riuscita ad ottenere un nuovo e
agognato
giocattolo.
Continuavo
ad osservarla mentre, scortata
dall’uomo in divisa, rientrava nell’edificio
principale dell’aeroporto. I biondi
capelli erano scompigliati dal vento e potevo facilmente immaginare
l’espressione imbronciata del suo volto e i suoi occhi,
azzurri quanto il mare
in una calda giornata estiva, avviliti. Era il mio opposto: lei bionda
con
occhi blu, io mora con occhi cioccolato. Lei solare, impulsiva ed
estroversa. Io
timida, seria e responsabile. Si era da poco sposata con Phil, un
giocatore di
baseball di leghe minori e, poiché lui viaggiava molto,
soffriva nel dover
stare a casa con me e lontana da lui. Ma, d’altra parte, non
sopportava l'idea
di lasciarmi sola per seguirlo. Avevo quindi deciso che era arrivato il
momento
di andare ad abitare da mio padre, nel nord-ovest dello Stato di
Washington,
nella penisola d’Olympia, più precisamente in una
minuscola cittadina di
tremila e qualche abitante, Forks.
Ed
è un bel salto di qualità se si pensa che
avevo vissuto per anni a Phoenix, capitale dell'Arizona, e che mi stavo
trasferendo in un paesino sperduto nel quale l’intera scuola
superiore contava
solamente poco più di trecento alunni. Da Phoenix, una delle
città più calde e
assolate dell’America, a Forks, capitale della pioggia e del
muschio.
Mi riscossi quando la voce di una hostess avvertì i
passeggeri dell’immediata
partenza e solo allora mi resi conto che erano parecchi minuti che
fissavo
fuori dall’oblò, e che un altro passeggero si era
accomodato nel posto accanto
al mio.
Un
uomo biondo, dalla pelle
estremamente pallida, teneva le mani sulle gambe e, anche da seduto,
potei
capire che doveva essere alto. Si voltò e mi sorrise. Non
avevo mai un sorriso
così bello, o un volto così bello. Avrebbe fatto
invidia a qualunque star di
Hollywood.
«Salve!
Perdonami, non ti ho nemmeno chiesto se
potessi sedermi, ma non volevo interrompere il filo dei tuoi pensieri.
Il posto
è libero?», mi chiese gentilmente, accennando alla
poltrona dov’era seduto.
Osservandolo in volto la mia attenzione venne catturata dal singolare e
quasi
innaturale castano dorato dei suoi occhi. Non ne avevo mai visti di
quel
colore, prima.
«No,
stia tranquillo e mi scusi per non
averle prestato attenzione», risposi, mentre le mie guance si
coloravano
leggermente. Non ero certa però che l'imbarazzo fosse
causato solamente dalla
mia sbadataggine: quell'uomo mi metteva in soggezione.
«Figurati,
ma dammi pure del tu, non
sono poi così vecchio!». Come se non potesse farne
a meno, ridacchiò. Mi porse
la mano. «Carlisle».
«Bella».
Gli
strinsi la mano e fui percorsa
da un brivido: la sua pelle era terribilmente fredda. Anche
nell’abitacolo, pur
essendoci l’aria condizionata, c’erano almeno venti
gradi. Continuai a
osservarlo – era difficile distogliere lo sguardo –
e, mentre era impegnato a
frugare nella sua borsa, notai che davvero non doveva essere molto
più grande
di me. Doveva avere venticinque anni, al massimo. C’era
qualcosa, però, in
quello sguardo profondo e nel sorriso cordiale che lo invecchiavano di
parecchio.
«Sei
sola?».
Annuii.
«Se
non sono indiscreto, per quale motivo vai a
Seattle in pieno Gennaio, e pure da sola?». Sembrava
sinceramente preoccupato
per me, come un padre, così gli risposi.
«Vado
ad abitare da mio padre, a
Forks, nella Penisola di Olympia. Non so se conosci la cittadina,
è molto
piccola».
Dare
certe informazioni ad uno
sconosciuto non è certo una scelta saggia, eppure c'era
qualcosa nel suo
sguardo che mi impediva di mentirgli.
«Davvero?
Che coinc-». Dal suo
cellulare arrivò un trillo e lui si interruppe: un
messaggio. Lo lesse e
aggrottò la fronte, un cipiglio pensieroso si
formò sulla fronte marmorea,
mentre osservava intensamente il display.
«Scusa,
Carlisle, ma quello dovresti
spegnerlo, per sicurezza. Non vorrei morire in questo aereo per colpa
di un
telefono!», gli dissi sorridendo ironicamente, ma lui mi
osservò in viso più del
dovuto e il mio sorriso vacillò. Poi annuì, forse
più a se stesso che a me.
«Sì,
hai ragione».
Mi
sorrise, poi prese un libro dalla valigia che
aveva con sé e cominciò a sfogliarlo. Mi
accomodai meglio sul mio sedile e mi
preparai a recuperare le ore di sonno che avevo perso quella notte,
impegnata
com'ero a preparare le valigie.
Mi
risvegliai di soprassalto con la
sensazione di essere sbalzata. Mi aggrappai alla base della
poltroncina,
spaventata. Impiegai qualche secondo per ricordare che sedevo su un
sedile e
che mi trovavo su un aereo. È sorprendente quanti dettagli
si possano
registrare in pochi secondi di panico. Ricordo perfettamente i visi
spaventati
dei passeggeri, la hostess che si aggrappava ad una fila di sedili, la
mascherina che usciva dal soffitto dell’aereo, a un soffio
dal mio viso, un
boato. E poi il buio.
Annegavo
nelle acque buie di un lago
profondo. Tentavo di risalire in superficie, ma più mi
agitavo più finivo
sotto, sempre più in basso.
Dolore.
Un
improvviso, acuto e mai avvertito
dolore mi riportò velocemente in superficie. Spalancai gli
occhi, ma non vidi
nulla. Pensai di essere ancora avvolta dalle acque nere. Avvertivo
delle fiamme
avvolgermi, mi laceravano la carne e incendiavano ogni mia cellula.
Eppure solo
l'oscurità mi circondava e il fuoco non brucia
sott’acqua.
Poi
capii. Le fiamme venivano dall’interno del
mio corpo, erano dentro di me. Il rogo si sviluppava dal cuore e si
estendeva,
allo stesso tempo, lentamente e velocemente, in tutto il corpo.
Avvertii
un suono stridulo e potente, che mi
infastidì, un urlo? Il bruciore alla gola, intensificato dal
fuoco, fu il chiaro
segnale che ero stata io stessa ad emetterlo. Avvertii qualcosa di
freddo sulla
mano destra. La cercai tra le fiamme e mossi le dita. M'immobilizzai
immediatamente, il fuoco pareva intensificarsi ad ogni mio
più piccolo
movimento. Eppure, ne ero certa, qualcosa stringeva la mia mano. Cercai
di
concentrarmi su di essa, di non pensare al fuoco, di visualizzare la
stretta
che la avvolgeva… Era forte, molto forte, ma gentile. Un
leggero spostamento
d’aria.
«Perdonami».
Qualcuno
mi aveva soffiato vicino all’orecchio,
una voce conosciuta, melodiosa. La ricollegai a due gemme dorate,
incastonate
ad un viso bellissimo. Sapevo chi era! Era… Il suo nome
era…
«Carlisle»,
lo chiamai. Ma la mia voce era troppo
bassa, troppo debole. Ma lui doveva sentirmi, doveva aiutarmi e
spegnere
l’incendio!
«Perdonami,
ti prego».
Avvertii
un altro spostamento d'aria e la sua
presenza accanto alla mia testa. Che si fosse seduto? Questo doveva
voler dire
che mi trovavo distesa, quasi certamente supina. Concentrandomi sulla
schiena,
o le braci che ne rimanevano, avvertii qualcosa di duro e umido.
Terreno? Una
brezza leggera, che comunque non serviva a darmi sollievo dalle fiamme,
mi
sfiorava il volto. Dovevamo trovarci all'aperto.
Mi
prese una mano e continuò: «Perdonami,
era l’unico modo per salvarti la vita. Non avrei voluto
dannarti per
l’eternità, ma stavi morendo e… No,
comincio dall’inizio». In quel momento un
altro urlo proruppe dalle mie labbra, il fuoco si intensificava sempre
di più.
La poca luce presente – la luna, forse? – mi
permetteva ora di scorgere i
tratti del suo viso. Era piegato dal dolore e i suoi occhi, brillanti
nell’oscurità, colmi di rimorso.
«Perdonami»,
ripeté. Lo guardai dritto negli
occhi: doveva spiegarmi cosa stesse succedendo. Per quanto il dolore
occupasse
la maggior parte della mia mente, e quasi mi impedisse di pensare ad
altro,
avevo bisogno di risposte. E di tentare di distrarmi dal fuoco che mi
logorava.
Prese un profondo respiro.
«Bella,
io sono nato a Londra nel
1640 e… sono un vampiro».
Ammutolii.
Per
un attimo mi parve che anche il dolore fosse
cessato.
Mi
sbagliavo.
Urlai,
mentre il fuoco divampava con maggior
forza nelle giunture. Mi imposi di ascoltare, tentando di non pensare a
quanto
assurdo mi sembrasse tutto ciò. Sapevo di non avere nemmeno
la minima
possibilità di scappare, il fuoco non me l’avrebbe
permesso. Vampiri, roba da
pazzi!
«Lo
stai diventando anche tu Bella,
il dolore che senti è dovuto alla trasformazione in
immortale. Tra tre giorni
il fuoco cesserà e sarai molto più forte, veloce,
intelligente e… pallida. I
vampiri si nutrono di sangue, sono, siamo,
freddi». E rafforzò la stretta sulla mia mano.
Continuavo
ascoltarlo scettica e
convinta di ritrovarmi davanti un matto. Nonostante il fuoco, il mio
cervello
lavorava speditamente. Era pericoloso? Il pensiero, in quel momento, fu
talmente assurdo che non mi fossi trovata a soffrire
le pene dell’inferno, probabilmente avrei riso.
Non c’era niente peggio del
fuoco, niente. E in quel momento avrei preferito qualsiasi cosa, anche
la morte
per mano di qualcuno convinto di essere un vampiro, pur di fare finire
l’incendio.
Eppure,
proprio a causa del fuoco, una parte di
me non poteva fare a meno di credere alle sue parole. Esisteva una
motivazione
razionale al dolore che stavo provando? Per un attimo abbandonai la
realtà e la
razionalità. Cercai di convincermi di poter diventare una
vampira, mi immaginai
nelle vesti di una creatura immortale bevitrice di... Inorridii.
I
vampiri si nutrivano di sangue, sangue umano.
Il terrore e il disgusto
dovevano essere evidenti nel mio sguardo, perché Carlisle
continuò:
«Aspetta,
non trarre conclusioni
affrettate! I vampiri possono nutrirsi anche di sangue animale,
è possibile
vivere senza uccidere esseri umani, proprio come facciamo io e la mia
famiglia.
Siamo come… una sorta di “vegetariani”.
Ma di loro ti parlerò più tardi. Vedi
Bella io ho-». Ma dovette interrompersi a causa del mio,
ennesimo urlo.
Tentavo
in tutti i modi di soffocare le grida,
per permettergli di continuare a parlare, ma non riuscivo nemmeno a
concentrarmi sulla sua voce, tanto il dolore si stava intensificando
«Perdonami,
ti prego. Prima della
partenza una vampira, che considero come figlia mia, ti ha "vista"
trasformata in vampira, membro della nostra famiglia. Poi quando
l’aereo ha
perso quota e siamo precipitati ho capito che dovevo…
salvarti, per così dire».
Assimilai
quelle parole e per quanto
poco mi permettesse il dolore, tentai di rifletterci sopra. L’aereo
su cui
viaggiavo è precipitato, sto diventando una vampira e mi
nutrirò di sangue. Una
veggente ha previsto ciò che sarebbe successo e ora sono qui
a contorcermi in
un fuoco che mi brucia da dentro e un uomo che nemmeno conosco tenta di
rassicurarmi sul fatto che potrò essere
“vegetariana”.
Decisamente
non si trattava della mia normale
routine. Non riuscivo più a riflettere, desideravo solo che
chiunque spegnesse
il fuoco, anche uccidendomi, non mi sarebbe importato.
Carlisle
dovette capire in che
condizioni versavo perché non parloò
più, limitandosi a tenermi stretta la mano
tra le sue.
Rimase
accanto a me durante i tre
giorni della trasformazione, assistendomi nel dolore e rispondendo ad
ogni mio
urlo con un “perdonami” appena sussurrato, intriso
di sofferenza.
Ehi,
siete arrivati fin qua?! Bravissimi/e
xD
Ricordate:è
dimostrato da studi odierni che
recensire fa estremamente bene alla salute del corpo e dello spirito!
(?)
A
presto,
Vero