Di questa storia mi ha attirato subito il contesto storico molto “originale”, nel senso che si distacca dalle solite vicende storiche proposte in questa sezione. La novità mi piace, così come imparare nuove nozioni e decisamente le Crociate del Nord è un argomento di cui si è sentito davvero poco. Le poche imprese belliche nordiche che conosco, lo ammetto, si limitano a quelle di Aleksandr Nevski. Una piccola domanda: esattamente in che anno è ambientato questo racconto?
I personaggi sono davvero ben delineati, calati perfettamente nel contesto storico, esenti dalla pericolosa insidia di modernizzarli per suscitare maggior empatia nel lettore. Ci presenti la Livonia in tutto il suo splendore selvaggio, un luogo pieno di tensioni tra due mentalità totalmente opposte. Ci credo che il povero protagonista fosse spaesato! Giustamente, non c’è amore tra i Samogizi e i Cavalieri Teutonici – ognuno per le proprie ottime ragioni, accusandosi vicendevolmente di etnocentrismo. D’altronde, bisogna considerare che i Cavalieri, per quanto monaci, comunque fossero dei militari, ergo che avessero una concezione meno pacifica rispetto agli altri missionari, seguendo un po’ il modello carolingio di evangelizzazione. Poi sono umani anche loro, dopo aver constatato quanto con le buone non si ottenesse nulla, d’accordo essere cristiani ma fessi no e dunque mi sembra più che giustificata la loro diffidenza verso i pagani, tutt’altro che innocenti figli dei fiori.
Leggendo le prime righe, ho avuto una sensazione tra “Sleepy Hollow” e i film western di Sergio Leone. Hai reso molto efficacemente l’aria tesa e soffocante, quasi ci si dovesse aspettare un’imboscata ad ogni angolo. La natura stessa, infatti, pare far da complice ai Samogizi e quest’ultimi, stando ai racconti di Mathias, non si fanno scrupoli di giocare sporco se significa far contenti i loro dei e liberarsi degli “infedeli.”
Passando al protagonista, Reinhardt, è qui la mosca bianca del gruppo, rappresentato come un cavaliere desideroso di mettersi alla prova dopo mesi di inattività e dunque dall’animo relativamente “fresco” rispetto ai suoi compagni più veterani. Credo che l’episodio della carità al mendicante sia stato un accorgimento perfetto per descrivere le diverse realtà da lui vissute: da una parte il mondo urbano e cosmopolita di Venezia, organizzato da regole ben precise cui ci si attiene e dall’altra il mondo selvaggio della Livonia, dove non dico ognuno per sé e Dio per tutti, ma siamo quasi lì. Quel pane, che nel mondo da dove veniva Reinhardt non poteva essere se non un’azione degna di lode, qui è addirittura ridicolizzata come follia dal suo confratello, al limite di contraddire la dottrina cristiana e il concetto della stessa virtù teologale. Naturale è poi la sua confusione, quando Reinhardt ripensa all’espressione di Curo – riconoscente e contenta – e la confronta con i racconti di Mathias, che descrivono i nativi alla stregua di bestie sanguinarie. Emblematico poi “la distanza a lunghezza di spada”, che bene esplica la pericolosità dei reticenti pagani Samogizi. Eppure, io sono dell’opinione che una buona azione, anche in maniera contorta e inaspettata, produca sempre un’altra azione buona, mentre il male chiami altro male. Vedremo poi nel corso di questa storia chi avrà avuto alla fine ragione, se Reinhardt o Mathias e il resto dei Teutonici. Intanto il nostro protagonista sembra ambientarsi bene al castello, ritrovando quel rigore che sentiva di aver perduto e anche un certo cameratismo. Chissà se avrà anche modo di distinguersi per il suo valore militare piuttosto che per i suoi gesti “bizzarri”.
L’unico punto che un po’ mi ha perplesso (rimane una mia impressione, però, e spero che tu non t’offenda se ho capito male) è stato come hai presentato Venezia, una sorta di novella Bisanzio dedita al lusso e alla mollezza, quando invece in inarrestabile ascesa sia economica sia militare, che comportava un impegno in prima persona dei suoi cittadini, indipendentemente dal ceto sociale, fedeli alla massima paolina “chi non lavora, non mangia.” I Veneziani non saranno stati un popolo esclusivamente guerriero, ma di certo non vivevano nell’ozio né avevano timore di affrontare le scomodità ed i pericoli della guerra e delle mude. S’incoraggiavano i giovani nobili a prendere il mare affinché, cito: “s’induriscano alla fatica e alla sofferenza e sappiano esporre la loro vita per la difesa della patria”. Quindi di “volontà adamantina” i Veneziani ne erano pieni, testimoni i tentativi falliti dell’Impero e degli altri stati di sottomettere Venezia sin dai tempi di Albiola. Infine, la città del XIII secolo era ben lungi dall’essere quella elegante di marmo del Sansovino (e lo attestano i numerosissimi incendi) e l’ostentazione del lusso era un’accurata strategia politica per stupire e intimorire gli ospiti importanti, mostrando la propria potenza, in una sorta di programmata schizofrenia poiché nella vita quotidiana, invece, si viveva piuttosto spartanamente e questo per non suscitare invidie, rancori e dunque disordini tra le varie classi sociali, dovendo infatti convivere il ricco con il povero gomito a gomito.
Forse per gli standard e le aspirazioni di Reinhardt, ugualmente i Veneziani vivevano troppo “comodi” e per questo si è stufato. Ho provato anche ad interpretare il suo giudizio basandomi sul fatto che, essendo lui uno straniero, non è da escludere che i Veneziani lo abbiano tenuto lontano dalla loro sfera privata: come i Samogizi che non vogliono aver a che fare con i tedeschi, i Veneziani, pur non sacrificando nessuno agli dei, erano sì molto prodighi verso l’ospite ma al contempo diffidenti e distanti nei suoi confronti e non davano, infatti, molta confidenza.
Piccola parentesi a parte – di nuovo, se ho capito male, chiedo venia - questo primo capitolo mi è molto piaciuto e siamo davvero curiosi di vedere come si evolverà la situazione in queste lande di Livonia.
A presto,
H. (Recensione modificata il 07/06/2021 - 06:17 pm) |