Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses
Segui la storia  |       
Autore: Euachkatzl    11/09/2013    5 recensioni
2013: la rivista Rolling Stone decide di pubblicare una biografia di uno dei gruppi rock più grandi di sempre, i Guns n' Roses. Ogni ex componente del gruppo viene intervistato singolarmente, vengono poste loro identiche domande. Ad una, però, rispondono tutti allo stesso modo.
"Un periodo della tua vita al quale vorresti tornare?"
"Febbraio 1986"
Ma che è successo, nel febbraio 1986?
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
È passato un sacco di tempo. Non so quanto, ma tanto. Il prossimo turno è il nostro. Un dottore dall’aria annoiata ci sfila davanti, il camice bianco svolazzante davanti a noi. Apre la porta alla fine della sala, quella da dove era uscita quella biondina che mi sta immensamente in culo, ed entra. Lo sentiamo scambiare quattro chiacchiere con il medico già in servizio, un paio di risatine, poi uno dei due fa capolino dalla porta.
“Il prossimo” dice, ridendo ancora per la battutina del collega.
Ci alziamo tutti e tre e ci dirigiamo alla fine della sala.
“Vado da solo” dice Jeff prima di entrare. Annuiamo. Appoggio le spalle al muro, Duff resta in piedi di fronte a me, guardando i cartelloni appesi ai muri bianchi. ‘Sex, drug, rock n’ roll. Just coffee for me, please’ recita un manifesto.
“Il problema è che noi la caffettiera non ce l’abbiamo più, dobbiamo ripiegare sul resto” commenta Duff.
“Quindi sono stata io a rovinarvi?”
Lui fa spallucce.
“Ci hai rovinato bene”
Sospiro. Quanto cazzo ci mette Jeff?
“Signorina?” Mi volto di scatto nel sentire il dottore che mi chiama, non mi ero neppure accorta che si fosse aperta la porta.
“Sì?”
“Le dispiacerebbe venire dentro un attimo? Anche il suo amico”
Io e Duff entriamo nello studio, mi guardo intorno un po’ nervosa. Diecimila quadri tra attestati o semplici foto sono appesi lungo le pareti, un grande armadio in un angolo della stanza. Di fianco alla porta, un lettino nero dove è seduto Jeff, con il polso fasciato e gli occhi lucidi.
“Come stai?”
“Mi hanno dato i punti così, a secco, secondo te come sto?”
Rispostaccia. Ma me l’aspettavo. In fondo non sono io quella che ha dovuto farsi mettere i punti una seconda volta sullo stesso polso.
“Volevo fare un discorsetto a tutti e tre” inizia il dottore seduto alla scrivania, mentre l’altro sta sistemando l’armadio. “Ogni notte ne arrivano davvero tanti, di giovani come voi. Io mi chiedo perché dovete andare a farvi male per un po’ di divertimento. Perché alle feste dovete ubriacarvi fino a finire in coma. Perché dovete farvi di quella merda che neanche Dio sa cos’è. L’ho visto il tuo polso, ragazzo, non è la prima volta che ti ritrovi con un taglio del genere. Vedete di smetterla di fare cazzate, perché a me passa la voglia di curarvi ogni sera”
“Veramente…” tenta Duff, ma viene prontamente fermato dal dottore.
“Non cominciate col discorso che voi siete santi o chissà cosa. Non attacca”
“Stavamo facendo la cena e a un mio amico è scivolato un bicchiere. E l’altro taglio me lo sono fatto a otto anni. E non sopporto che la gente mi dica che sono un drogato” taglia corto Jeff, scendendo dal lettino. Esce dalla stanza seguito da me e Duff, che in segno di saluto fa sbattere la porta il più violentemente possibile.
 
Il portone si apre e vedo entrare Duff, Jeanette e Izzy.
“Come stai?” chiedo subito, osservando il polso fasciato di Jeff. Per tutta risposta, lui scuote la testa e se ne va in camera. Rivolgo un’occhiata interrogativa agli altri. Anche loro scuotono la testa.
“Gli passerà” è l’unico commento di Jeanette, che si siede sul divano di fianco a me. Appoggia i gomiti sulle ginocchia, si nasconde il viso tra le mani.

 
Rimango a fissare il pavimento per un po’. Penso. Penso a tutte le cattiverie che ho fatto a Jeff. Di nuovo. Ci penso troppo, ultimamente. E ci sto male ogni volta di più.
 
“Ma guardate quant’è bello”
Eravamo in ospedale, reparto maternità. Ero una nanetta, avevo due anni. Tiravo i pantaloni di papà in modo che si accorgesse di me. Tirami su, papà, voglio vedere il mio fratellino. Ma papà non mi badava.
“Somiglia a Jeanette”
“Anche lui diverso dai genitori, insomma”
“Forse alla fine è un bene”
Ho visto Jeff per la prima volta quando la mamma è tornata dall’ospedale. Cinque giorni dopo che era nato.
“Allora, è bello, il tuo fratellino?”
Osservai quell’esserino che la mamma teneva in braccio. No, non era per niente bello. I miei occhioni neri passarono da Jeff a papà, alla mamma.
“Potresti anche dire qualcosa, hai due anni, sarebbe ora”
Non parlavo. Guardavo la mamma, Jeff, papà, Jeff, la mamma. Lui non era bello. Io ero più bella.
 
Sento un singhiozzo. Mi volto verso Jeanette. Piange.
“Ehi, che c’è?”
Lei continua a piangere, senza badarmi. Le sue lacrime bagnano il pavimento. La sue spalle si alzano e si abbassano seguendo il ritmo dei singhiozzi. Faccio per avvicinarmi a lei, ma si alza di scatto.
“Vado in bagno” mi dice, senza neppure guardarmi, senza girarsi. Va velocemente verso la porta scura e la chiude alle sue spalle.

 
Mi appoggio al legno scuro e mi lascio scivolare fino a terra. Alzo la testa, fino a vedere la lampadina appesa al soffitto. Stringo forte gli occhi, per far uscire le ultime lacrime. Ma non sono le ultime, ce ne sono ancora altre. Molte altre, che premono per uscire. Ricaccio indietro i singhiozzi, non permetto loro di venire fuori. Di uscire dal mio cuore. Rimangono lì fermi, a ristagnare insieme ai sensi di colpa, che per sedici anni sono rimasti zitti zitti, per poi esplodere e uccidermi. Mi alzo e mi sciacquo il viso, senza neppure guardarmi allo specchio. Devo avere un aspetto osceno. Vedo la mia maglietta dei Ramones appesa alla maniglia della finestra. Mi spoglio e indosso solo quella, tanto è talmente enorme che mi arriva a metà coscia. Prima di infilarmela, guardo il piccolo tatuaggio che ho sul fianco sinistro. Sorrido amara. Quello sì che ha fatto male, altro che un pezzo di vetro sul polso. Taci, Jeff, tu non hai neppure la lontana idea di cosa sia il dolore.
 
Jeanette esce dal bagno con addosso solo una maglietta e un sorriso timido.
“Che è successo?”
“Niente. Un momento di depressione” mi sorride, i suoi occhi sono ancora arrossati. Non me la racconta giusta.
“Avete altri concerti in programma?” tenta di deviare il discorso. E ci riesce.
“Proverò a chiedere in giro, non è che ci chiamano loro per  fare un concerto. E poi devo sentire se Jeff può suonare, con il polso ridotto così”
Lei annuisce. Abbiamo esaurito l’argomento ‘concerto’. Abbiamo esaurito qualsiasi argomento.
“Vado a dormire”
Lei annuisce di nuovo, lo sguardo perso nel vuoto.
“Buonanotte”
 

Sono sola. Mi distendo sul divano e chiudo gli occhi. Dopo qualche minuto, o ora, una melodia con la chitarra mi riempie le orecchie. È dolce, tranquilla, non quel rock duro che ero abituata a sentire. È bellissima.
 
Sono seduto per terra, appoggiato al muro, a strimpellare una chitarra che ho trovato qua in salotto. Non so di chi sia, non l’ho mai vista prima. Suono piano, credo che Jeanette stia dormendo. Note a caso, accordi usciti male, che le fanno spuntare un sorriso beato. Sorrido anch’io. Piego la testa all’indietro, continuando in quella sequenza di note assurda e disordinata. Steve esce dalla nostra stanza e si dirige verso la cucina. Si ferma a metà strada, guardando la scena che gli si presenta davanti. Una ragazza mezza nuda addormentata sul divano e un ragazzo che, contrariamente a qualsiasi legge naturale, resta seduto per terra a suonare, senza nemmeno degnare di uno sguardo lo spettacolo che ha davanti.
Qualche minuto dopo, anche Slash esce dalla sua stanza. Anche lui va verso la cucina, anche lui a metà strada si ferma e ci guarda. Poi va a farsi la colazione. Sento un vociare concitato provenire dalla cucina. Tento di seguire la conversazione, ma continuo a pensare a mille cose, a quali corde schiacciare, a come diavolo era il testo di Paradise City, alle gambe magre di Jeanette appoggiate delicatamente sul divano, alla voglia che ho di una doccia calda, o di un letto caldo, alla scaletta del prossimo concerto, al locale dove faremo il prossimo concerto. Ci sarà, un prossimo concerto?
“Però potevi stare attento cazzo, è ridotto davvero male”
“Ma stare attento cosa? Dio, sono cose che capitano. Mica l’ho ucciso”
“Non può suonare ridotto così”
“Massì che può suonare, io ho suonato con due dita rotte, può anche lui”
“Speralo, sennò mi incazzo davvero”
“Taci, Saul”
Steve e Slash escono dalla stanza, incazzati. Steven si chiude in bagno, mentre Slash mi passa di fianco senza badarmi, diretto verso la sua stanza. Lo blocco.
“Che è successo?”
“Spero per Steve che Jeff possa suonare anche con un polso del genere, altrimenti lo meno forte”

 
Apro gli occhi e vedo Duff che sonnecchia appoggiato al muro con una chitarra bianca abbandonata davanti ai suoi piedi. Di fianco a me, seduto su un bracciolo del divano, Steven, che fissa il tappeto. Dalla cucina la voce di Slash, che chiacchiera con Axl.
La porta della stanza di Jeff si apre e ne esce mio fratello con un’aria mogia. Duff si sveglia, Steve alza la testa, Axl e Saul fanno capolino dalla cucina. Fisso anch’io Jeff. Siamo in cinque a guardarlo. Neanche dovesse dirci se è incinto o meno.
“Allora?” è il rosso a rompere il silenzio.
“Allora cosa?” Jeff sembra cadere dalle nuvole, come se non sapesse il motivo per il quale tutti ci siamo fermati a fissarlo. O vuole fare il prezioso o è una brutta notizia. E ho paura che l’opzione più plausibile sia la seconda.
“Cosa ha detto il dottore?” taglio corto io.
“A parte il discorso che siamo tutti dei drogati e roba così? Per almeno dieci giorni ho il polso steccato”
“Quindi per dieci giorni non suoni” conclude Axl. Jeff annuisce.
“Hai visto, Steven? È tutta colpa tua, questo casino. Adesso per due settimane non suoniamo più” si arrabbia Slash.
“Ehi, sta calmo. Tanto non suonavamo comunque” tenta di difendersi il biondo. Guarda Axl, in cerca di un appoggio. Lui scuote la testa.
“Tra tre giorni c’è un concorso per gruppi emergenti. E andarci non sarebbe stata una brutta idea”
“Ecco, vedi? E noi non ci andiamo. Per colpa tua. Perché tu non puoi stare un attimo attento, devi fare un casino ogni volta che tocchi qualcosa”
“Cazzo, non è la fine del mondo. Calmati un attimo” Steve si alza, giusto per avere una posizione più autoritaria in quella discussione. Ma alla fine lui resta sempre l’accusato. Accusato da Slash.
“Ma Dio, non capisci? Noi quel concorso lo vincevamo, qualcuno ci notava e partivamo, e chissà cosa potevamo fare. E invece tra tre giorni saremo qui dentro, a cambiare le fasciature a Izzy perché tu non riesci a comportarti da adulto. Sei sempre quello che combina casini. Vedi di crescere un po’, perché ormai sarebbe ora”
“Sì, devo crescere? Sbaglio o eri tu quello che mi ha chiamato quella sera dicendomi ‘Adler abbiamo bisogno di te’? Che è, sono retrocesso col tempo?”
“Non ti vedevo da mesi, non mi ricordavo che fossi così coglione”
“Allora forse è meglio che me ne vado, tanto di coglioni in questa casa ce ne sono già abbastanza”
E Steve, coerente col suo discorso, prende e se ne va. Guardiamo tutti la porta, aspettando che da un momento all’altro si riapra,  invece resta chiusa. Chiusa. Stanchi di fissare quella porta, il nostro sguardo si posa su Slash.
“Ma bravo. Magari senza la chitarra ritmica qualcosa potevamo combinare, adesso siamo pure senza batteria” lo sgrida Duff, per poi uscire pure lui.
Axl, che strano ma vero non dice niente, se ne va in camera sua, seguito da Jeff. Io resto ancora lì sul divano, a guardare Saul.
“Dai, tirami su merda anche tu, così sono soddisfatto”
Scuoto la testa.
“Ormai l’hai fatto. Non c’è più niente da dire”
 
Mi butto sul letto a fissare il soffitto, Jeff è sul suo, con la schiena appoggiata al muro, che giocherella con un accendino.
“Dieci giorni?” chiedo. Giusto per essere sicuro di aver capito bene.
“Se non di più, dipende quanto ci metto a guarire”
“E non riesci a suonare proprio niente?”
“Non riesco neanche a piegare il polso, figurati a suonare”
Devo trovare una soluzione. Non tanto per Steven, tornerà prima di cena, ma piuttosto devo trovare un altro chitarrista per quel cazzo di concorso. Magari la signorina di là conosce qualcuno. Mi alzo e vado in salotto, dove Jeanette è seduta sul divano.
“Non è che conosci un chitarrista che può sostituire Jeff?”
Lei non alza nemmeno la testa. Pensa.
“Non è che posso chiamare qualcuno e dirgli ‘Ehi ciao, ti va di essere il chitarrista di una band sconosciuta per una sera?’ Cioè, non è così facile”
Mi siedo sul divano di fianco a lei.
“E poi dovete trovarvi pure un batterista” aggiunge.
“Steven torna tra qualche ora, non è la prima volta che se ne va”
“Io vado a farmi un giro” conclude lei. Si alza e fa per andare verso la porta.
“Vuoi che vengo anch’io?”
Scuote la testa.
“Voglio stare un po’ da sola”

 
E sono di nuovo in spiaggia. In pieno inverno. A guardare il cielo che promette pioggia. C’è un tempo di merda, ultimamente. Dopo aver cercato Steven per quella che mi è parsa un’eternità, e dopo non averne visto neanche l’ombra, sono venuto qui in spiaggia. Su una sdraio, stavolta. Perché di insabbiarmi dalla testa ai piedi non ne ho proprio voglia.
 
Guardo il cielo un’altra volta. Sono ormai quasi due ore che cammino. E mi sono persa di nuovo. La prossima volta che esco devo ricordarmi che girare per Los Angeles non è così semplice. Ma un giro da soli ogni tanto serve. A schiarirsi le idee. A farsi venire ancora più depressione. Noto un negozio di dischi all’altro lato della strada. Velocemente, entro. Giusto prima che cominci a piovere. Vago da un lato all’altro del negozio, spulciando tra i vinili e le cassette, cercando i nomi dei gruppi che conosco, degli album che mi piacciono di più, fermandomi davanti alle foto sulle copertine. Quanto belli sono i negozi di dischi?
 
Entro in un negozio di dischi bagnato fradicio, beccandomi qualche occhiataccia dai clienti e dal tizio alla cassa. Ma che ci posso fare, non sono mica io che decido quando far piovere. E quello che ha il potere di sceglierlo, deve farlo proprio quando io sono fuori. Mi guardo un po’ intorno. Dietro una corsia, una figura che conosco molto bene.
“Salve”
Lei si volta di scatto, spaventata.
“Ciao. Che fai qui?”
“Quello che fai tu” rispondo, mettendomi a curiosare tra i dischi.
“Cioè ti sei perso anche tu?”
“Più che altro ho perso Steve”
“Axl dice che tra un po’ torna a casa”
“Speriamo. Intanto torniamoci noi, a casa, che dici?”
Lei guarda fuori.
“Piove a dirotto. Aspettiamo un po’”

 
Guardo fuori dalla finestra. Finalmente ha smesso di piovere. E di Steve, Duff o Jeanette nessuna traccia.
“Però potevi essere più delicato. Lo sai che Steven se la prende per tutto” commenta Jeff.
Slash fa spallucce.
“Tanto torna”
La porta si spalanca. Tutti e tre guardiamo curiosi chi è tornato. Duff e Jeanette. Sempre meglio di niente. Loro si guardano un po’ intorno.
“Steven?”
Tutti scuotiamo la testa o facciamo spallucce. Steven non è tornato. E il dubbio che non torni si allarga sempre di più nella testa di tutti. Jeanette appoggia un sacchetto di plastica bianco sul comò e ne estrae un paio di scatoline.
“La cena” sorride soddisfatta.

 
“Non è che vuoi un letto decente almeno per stanotte?” mi chiede Duff mentre puliamo i pochi piatti che abbiamo usato per cenare.
“Il tuo, magari?”
“Quello di Steve. Tanto io non russo, tranquilla”
“Mi faccio la doccia e arrivo” sorrido io, dirigendomi poi verso il bagno.
Attacco l’acqua e mi spoglio, aspettando che prima o poi diventi calda. Speranza vana. Mi lavo velocemente, per poi uscire dalla doccia infreddolita. Cerco un accappatoio, un asciugamano, un fazzoletto pulito ma di questi non c’è traccia. Ora di pulizie, qui. Ho trovato cosa fare domani. Prendo un asciugamano bianco lanciato in malo modo sul ripiano del lavandino e lo avvolgo intorno al mio corpo. Esamino il mio viso allo specchio per un quarto d’ora buono, fino ad arrivare alla stessa conclusione di tutti i giorni.
“Sei figa, Jeanette” sussurro al mio riflesso.
Mi spazzolo i capelli ancora umidi ed esco in salotto, prendo l’intimo dalla mia valigia e vado nella camera di Duff e Steve. Senza nemmeno controllare se c’è qualcun altro in camera, lascio cadere l’asciugamano a terra e mi infilo gli slip. Sento un movimento di lenzuola dietro di me. Sorrido. Lascio cadere apposta il reggiseno davanti a me, mi piego a novanta a raccoglierlo, lasciando al biondone lo spettacolo del mio fondoschiena davanti a lui. Lancio il reggiseno sul letto di Steve e vado verso la finestra, passando il più lentamente possibile davanti al letto di Duff. Mi pettino i capelli con le mani, chiudo la finestra e torno sul letto vuoto del batterista.
“Posso continuare, se vuoi” sussurro.
“Se ti diverte tanto…”
“Direi che quello che si diverte di più sei tu”
Il biondo ride.
“Continuiamo questo discorso domani, ok?”
Ridiamo un po’, poi torno seria.
“Secondo te Steve torna?”
“Ma certo che torna, che domande”
“…d’accordo. Notte Duff”
“Notte”
 
Ciao, sono l’autrice:
e finalmente sono tornata .-. Era anche ora :)
Vabbè, sono venuti fuori un po’ di casini, un po’ di sentimenti, un po’ di sensi di colpa, un po’ di ricordi.
Ma il tempo risolve tutto.
Un bacio, Euachkatzl <3  
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses / Vai alla pagina dell'autore: Euachkatzl