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Autore: Ser Balzo    12/12/2019    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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17.

Il Re sotto la Montagna

 

 

My daddy was a miner 

He’s now in the air and sun 

He’ll be with you fellow workers 

Until the battle’s won 

 

Which side are you on, boys

 Which side are you on? 

 

Don’t scab for the bosses 

Don’t listen to their lies 

Poor folks ain’t got a chance 

Unless they organize

 

Which side are you on, boys

 Which side are you on?  

 

– Natalie Merchant, Which Side Are You On

 

 

 

 

 

La donna non aveva bisogno di impartire i suoi ordini a voce alta. Senza che le fosse necessario fare alcunché, un gruppo di persone si staccò dalla folla e andò rapidamente a recuperare le armi che i soldati regolari avevano lasciato cadere.

Il capitano Aber le si avvicinò, le mani strette delicatamente intorno alla lama della sciabola.

«Capitano Scipio Aber, Terza Compagnia, Ventiduesimo Reggimento, Quinta divisione, Terzo Corpo d’Armata dell'Esercito Regolare di Panem. Con chi ho l’onore di parlare?»

Se anche la donna fosse rimasta colpita dai modi affettati del capitano, non lo diede a vedere. Accolse con un cenno del capo le sue parole e soffermò lo sguardo sull’elegante guardia dorata della spada. Il lato sinistro del suo volto era attraversato da una lunga cicatrice: qualunque cosa gliel’avesse procurata, aveva anche reso inutilizzabile l’occhio, ridotto ad una pallida e spenta imitazione di quello destro, piccolo, verde-oro ed estremamente attento. Il capitano Aber sembrò a disagio quando quell’occhio ritornò su di lui.

«Codrina Wheaterson. Guido queste persone.»

Aber guardò gli uomini e le donne dietro di lei, confuso dalla mancanza di gradi ed etichetta della sua interlocutrice. «Bene, dunque. Allora offro a voi la mia spada, come simbolo di resa formale della mia compagnia.» Con un leggero inchino, le porse la sciabola dalla parte dell’impugnatura.

«Tenetela pure» rispose Codrina, sollevando una mano. «Non è mio compito accettare la resa, sua o di chiunque altro.»

«Oh» disse Aber. Avvicinò a sé la spada, ma continuò a tenerla per la lama, incerto su come muoversi. «E di chi sarebbe, ordunque?»

«Per saperlo, dovrete venire con noi.»

«Con voi? E dove, di grazia?»

«Alla Montagna. Una volta lì, potrete decidere del vostro destino.»

Il capitano Aber si volse a guardare quel che restava dei suoi uomini, la Ghiandaia Imitatrice e i suoi due compari, gli inquietanti ragazzini con le corazze nere e i cinque ribelli.

«Bene» disse infine, impugnando la sciabola e rimettendola nel fodero. «Signorina Wheaterson, siamo nelle sue mani.»

 

Da quello che poteva capire Dan, erano ancora una volta prigionieri. A prima vista, la folla che li circondava sembrava in tutto e per tutto appartenente alla Fanteria di Linea Volontaria; ma c’era qualcosa di diverso, in ognuno di loro. Più che ad una colonna di pecore destinate al macello, somigliavano ad una colorata comitiva diretta ad una qualche festa di paese. I loro volti erano permeati di una strana energia, le loro schiene erano dritte, ogni tanto qualcuno addirittura rideva.

E sopratutto, cantavano.

 

If you love somebody enough
You’ll follow wherever they go

That’s how I got to Memphis

That’s how I got to Memphis

 

«Memphis» disse Dana. «Chissà che accidenti è, Memphis.»

«Credo sia come un penny» disse Dan. 

«Forse una città. Di prima di Panem.»

«Forse.»

 

 

If you love somebody enough

You’ll go where your heart wants to go

That’s how I got to Memphis

That’s how I got to Memphis

 

 

«Credo che non abbia importanza, in fondo» disse Lee.

«In che senso?» gli rispose Dana.

«Qualunque cosa sia stata, Memphis non esiste più. Nessuno sa dove sia. Quindi può essere in ogni luogo.»

«Casa è dov’è il tuo cuore» disse Dana.

Lee lanciò un breve sguardo a Penelope, che gli rivolse un timido sorriso. «Amen, sorella. Dov’è il tuo cuore.»

 

Impiegarono tutta la giornata ad attraversare una pianura inondata dall’acqua, molto probabilmente uno stratagemma adottato dai capitoli per rallentare l’avanzata nemica. Al tramonto, il cielo e i piccoli laghi creati dalla guerra rifrangevano le ultime luci del giorno in un’incredibile acquerello di rosso, blu, arancione e rosa, trasformando le sparute carcasse di veicoli ed edifici in strane creature di un’altra era.

Appena il sole scomparve dall’orizzonte, alla testa della colonna, una voce di donna calda e roca si levò a salutare il crepuscolo.

 

Who’s gonna dig theses graves?

Who’s gonna dig theses graves?

Somebody help me dig these graves, I can’t do it all my own

 

«Non ci credo» si lamentò Artemisia, esasperata. «Qualcuno li faccia smettere… o ci penserò io.»

La minaccia però, sortì l’effetto opposto: tutta la colonna, come fosse un’unico organismo, si unì alle parole della donna per continuare il canto.

 

Who’s gonna dig these graves?
Who’s gonna dig these graves?

Somebody help me dig these graves, I can’t do it all my own

 

«Sbaglio o improvvisamente non sembrano più tanto allegri?» disse Penelope.

«Nessuno è allegro quando deve scavare tombe» rispose Lee.

«Spero solo che non siano le nostre.»

Lee abbassò lo sguardo sulle sue scarpe rotte. «Lo spero anche io.»

 

Who’s gonna dig these graves?
Who’s gonna dig these graves?

Somebody help me dig these graves, I can’t do it all my own

 

«Arriva la notte» disse ad un tratto Dana. «Cantano per lei.»

 

Dopo mezz’ora di marcia, le terre allagate erano definitivamente alle loro spalle. Si fermarono vicino ad un gruppo di alberi, uno dei quali era stato abbattuto da un proiettile di artiglieria inesploso che aveva trapassato lo spesso tronco come fosse di seta e si era infilato nel terreno, scavando intorno a sé un cratere di un metro di diametro. Ancora una volta, senza bisogno che ci fosse bisogno di ordini, una decina di persone armate di asce si diressero al tronco e lo fecero rapidamente a pezzi. Mezz’ora dopo, un grande fuoco illuminava la notte.

 

Stranamente, nonostante fosse il momento migliore, nessuno sembrava avere voglia di mettersi a cantare. Silenziosa come uno spettro, Codrina si sedette su una roccia, tirò fuori dal mantello una spada dalla lama leggermente ricurva e la estrasse dal fodero, lasciando che le fiamme illuminassero cupamente l’acciaio.

«Una katana» disse Ares. «Non un’arma che si vede spesso in giro.»

«Non è mia» disse Codrina, che si era messa a pulire la lama con un panno. «Non completamente, almeno.»

«L’hai trovata sul campo di battaglia?»

L’occhio di Codrina fissava la lama. «Mi venne regalata, tanto tempo fa.»

«Capisco.»

«Non credo» disse Codrina, sollevando l’occhio verso il suo volto. «Sei del Distretto Tredici?»

«Certo che no» rispose d’impeto Ares, una sfumatura di disgusto nella voce.

«Chiedo scusa. L’armatura nera mi ha confuso» disse Codrina, come se avesse sbagliato ad indovinare la sua età.

«La mia lealtà va al Distretto Due» disse Ares, con una certa enfasi. «E al Presidente Snow.»

«Certamente.» Codrina sollevò la lama, osservando come le fiamme si riflettevano sulla sua superficie lucida. «Dimmi…»

«…Ares.»

«Ares. Oh, lei avrebbe gradito…»

«Lei chi?»

«Dimmi, Ares» proseguì Codrina, ignorando la domanda. «Sei mai stato nell’Arena?»

Ares parve d’un tratto a disagio. «Non ho ancora avuto quest’onore.»

«Neanch’io.» Codrina appoggiò la katana sulle gambe. «Perché trent’anni fa qualcuno andò al posto mio.»

«Oh.» Ares cercò delle parole per riempire il vuoto che si era creato dopo quell’esclamazione, ma non ci riuscì.

«Non era una combattente, ma era sveglia. Forse anche troppo. Arrivò fino alla fine: a contenderle la vittoria era rimasto solo un ragazzino del Sette, a cui uno dei Favoriti aveva praticamente staccato un braccio. Era fatta. Ma lei non voleva uccidere un innocente.» Codrina sollevò la spada e la puntò contro Ares. «Guardò verso le telecamere, mi disse addio e si gettò su questa spada. Morì, piuttosto che venire meno ai suoi principi.»

«È stata una buona morte» disse Ares, che non si aspettava di rispondere a quel modo.

Lo sguardo di Codrina si indurì di scatto, ed Ares fu sicuro che l’avrebbe colpito; poi però parve sovvenirle una sorta di incredibile, nostalgica tristezza, che le fece abbassare la lama e sollevare l’occhio verso il cielo. «Per lei forse lo fu. Non l’ho mai veramente capito. Anche adesso, a trent’anni di distanza, mi chiedo se non fosse quello il suo unico scopo. Una morte nobile, un guanto di sfida lanciato alla tirannia, all’oppressione e al folle massacro dell’innocenza.» Lo sguardo cadde dal cielo e andò a morire sul fuoco. «Ci sono notti in cui ancora non la perdono.»   

Ares restò in silenzio. A tradimento, senza che avesse il tempo di difendersi da quell’intrusione, venne colto dal pensiero che se lui fosse stato scelto per gli Hunger Games nessuno si sarebbe offerto volontario per salvarlo. Forse sarebbe stato risparmiato, questo sì, ma solo perché qualche altro aspirante Tributo l’avrebbe scavalcato per andare al posto suo. 

«Venne il Presidente Snow in persona a consegnarmi la sua spada. Una sua qualche perversa punizione, suppongo. O forse, in qualche remota parte dentro di lui, era rimasto sinceramente ammirato da quell’atto di suprema abnegazione.»

«Combatti per lei?» disse Ares, che ancora non riusciva a capire da dove gli venissero quelle parole.

Codrina rimase in silenzio. «A volte» disse infine. «Quel che è certo, è che non la dimenticherò mai.»

Trascorse qualche minuto, in cui l’unico rumore erano gli schiocchi della legna ardente. Poi, Codrina si alzò in piedi, l’occhio puntato su qualcosa oltre la spalla destra di Ares.

«Sta arrivando.»

Ares si girò per seguire lo sguardo della donna. «Che cosa?»

Il rumore di un hovercraft in arrivo cominciò a spandersi intorno al falò.

«La vostra via per la Montagna.»

 

Con una leggiadria sorprendente per la sua stazza, l’hovercraft si poggiò delicatamente a terra, mentre la rampa posteriore si apriva per permettere l’entrata dei passeggeri. Il capitano Aber salutò con un rigido saluto militare Codrina, che rispose con un cenno del capo; poi la Terza Compagnia e i suoi ex prigionieri si imbarcarono, diretti verso la Montagna. Dove, a quanto pareva, sarebbero stati in grado di decidere il proprio destino.

 

La Montagna era il centro nevralgico del Distretto Due, un massiccio di roccia rinforzato da acciaio, cemento, carbonio e quanto servisse a renderla una base minacciosa da osservare e impossible da conquistare. Lì erano ammassati i principali armamenti dell’Esercito Regolare, lì venivano sviluppati i nuovi progetti militari, lì erano addestrati gli ufficiali e i corpi speciali: era il verbo furente di Panem fatto roccia, un’inespugnabile fortezza che aveva retto agli anni terribili della prima rivolta. Niente sembrava indicare che la cosa fosse cambiata: non c’erano segni di proiettili d’artiglieria sui suoi fianchi scoscesi, niente fumo che fuoriusciva dalle feritoie dei bunker e dalle terrazze dove erano posizionate le batterie di antiaerea e l’artiglieria a lungo raggio. 

«Non sembra neanche si sia combattuto, qui» disse il capitano Aber, guardando attraverso l’oblò dell’hovercraft.

«Forse è quello che è successo» rispose Baeley.

Aber si voltò di scatto verso di lui. «Come dite? Osate forse affermare che la Montagna si sia arresa senza combattere? È semplicemente inaudito!»

«Arrendersi non è disonorevole, se è impossibile proseguire la lotta» disse Ayla. «Voi stesso l’avete fatto.»

Il capitano Aber la fulminò con lo sguardo. Stava per replicare, quando una voce si diffuse in tutto l’abitacolo. 

«Signori, siamo in arrivo alla Montagna. Tra breve potrete sbarcare. Restate seduti mentre viene eseguita la manovra d’atterraggio.»

«Mai sentito un pilota più cortese» disse Baeley.

«La guerra è finita dentro la Montagna» commentò Dana. Quando si accorse dello sguardo perplesso che Dan e Lee avevano puntato su di lei, fece spallucce. «È un’impressione.»

«Sii meno inquietante quando esprimi le tue opinioni, per favore» disse Lee.

«Con tutto quello che c’è fuori tu hai paura di me?»

«Assolutamente sì.»

Dana assottigliò lo sguardo e tirò su una faccia scioccamente minacciosa. «Fai bene.»

Lee iniziò a ridere; appena i suoi occhi incrociarono quelli di Artemisia. però, smise immediatamente.

Con un sobbalzo, l’hovercraft toccò terra. Immediatamente dopo, il ronzio dei pistoni idraulici segnalò l’apertura del portellone.

Un refolo di aria fredda si infilò all’interno dell’hovercraft. Dan non poté fare a meno di rabbrividire.

Lì fuori, la Montagna era in attesa.

 

 

Quando aveva sentito parlare della Montagna, Ayla si era immaginata un labirinto di cunicoli non dissimile dal Giacimento del Distretto Dodici – una ragnatela di gallerie scavata nella roccia e illuminata da una cieca luce biancastra dei riflettori – quando andava bene – e da quella arancione e flebile delle lanterne, quando andava male –; invece, nella Montagna di roccia non ce n’era neanche l’ombra. Tutto era ricoperto da paratie d’acciaio, infinite tubature e portelloni a tenuta stagna: ovunque si guardasse, il segno del potere di quel luogo era inequivocabile. Eppure, mentre avanzavano sempre più all’interno del ventre della bestia, Ayla cominciava a scorgere segni che qualcosa, effettivamente, aveva ferito una creatura dall’apparenza così invincibile.

«Qualcuno ha combattuto» disse Baeley, che a quanto pare stava pensando la stessa cosa. «Quelli sono fori di proiettile.»

«Evidentemente deve esserci stata una rivolta interna.»

«Eppure non sembrano essere dei vostri.»

Ayla diede un’occhiata al distintivo di stoffa che i soldati che li scortavano avevano al braccio: giallo con un triangolo nero al centro. Che lei sapesse, nessuno nell’esercito ribelle portava quel simbolo. «Così pare.»

«Non preoccupatevi» disse il soldato della Montagna accanto a loro. «Presto vi sarà tutto chiaro.»

Ayla sbuffò ironicamente dal naso. «Sarebbe la prima volta.»

 

Il centro comandi della Montagna era una stanza imponente dalla pianta circolare, al centro della quale era posizionato un grande e cilindrico tavolo tattico. Almeno una mezza dozzina di soldati con il distintivo della montagna erano indaffarati attorno al tavolo, sulla superficie del quale si intravedeva una mappa tridimensionale con le posizioni delle divisioni dell’Esercito Regolare, in bianco, e di quello ribelle, in nero.

Il centro aveva un’aria decisamente più trascurata di quando c’era stata l’ultima volta, fu l’impressione di Clove. Allora era ancora una studentessa dell’Accademia.

Prima dei Giochi. La mia vecchia vita.

Uno strano sentimento si impossessò di lei al sentire quelle parole riecheggiare nella sua testa. Vecchia vita. C’era qualcosa che la metteva profondamente a disagio, al riguardo. Nostalgia? Rimpianto? 

Risentimento?

Il suo sguardo venne attirato da una presenza quantomai singolare: ad una decina di metri da lei, dentro quello che pareva uno squarcio del pavimento causato da una bomba, qualcuno aveva piantato un albero. Clove seguì la curva del tronco e la nube verde creata dalle foglie. Sembrava quasi che fosse nato lì, cresciuto come una pianta d’edera nel cemento spaccato.

«Ti piace?»

Clove si voltò di scatto, la mano alla cintura. Un uomo anziano la osservava, un lieve sorriso enigmatico dipinto sul volto.

«L’ho fatto portare io dai giardini dei quartieri superiori. Credo sia un buon messaggio di speranza.»

Clove sgranò gli occhi. «Tu.»

Pavlov fece un piccolo cenno con la testa. «Salute anche a te.»

Gli uomini di scorta scattarono sull’attenti. «Signore» disse uno di loro. «L’ultimo carico, signore.»

«Berio, quante volte ti ho detto di smettere di chiamare in questo modo i nuovi arrivati?»

«…molte, signore. Scusi, signore.»

«Tranquillo, sono sicuro che i nostri ospiti non si sono offesi. In confronto a quello che c’è là fuori, il tuo è stato un gran complimento.»

«Suppongo— sì, signore.»

«Bene.» Pavlov staccò una mano da dietro la schiena e indicò una delle porte della sala. «Se volete essere così gentili da seguirmi, vi mostrerò tutto quello che c’è da sapere sulla Montagna… e quello che adesso rappresenta.»

 

 

Per quanto le riguardava, Clove non aveva alcun interesse a sapere che cosa accidenti rappresentasse la Montagna: i ribelli ne avevano preso il controllo – probabilmente con qualche stratagemma ingannevole e codardo – e questo le bastava. Nonostante le maniere gentili, però, Pavlov non aveva fornito loro alcuna opzione diversa dal seguirlo. Regolari, ribelli, IEROS e persino la stramaledetta Ghiandaia gli andavano dietro come cuccioli obbedienti, tallonati dai fucili dei soldati della Montagna.

Pavlov li condusse in una stanza dalle pareti grigio chiare, dove una serie di luci biancastre toglievano qualunque ombra da un ambiente completamente sgombro, ad eccezione di un tavolo in mezzo alla stanza. Sopra di esso, un portaprovette reggeva cinque fiale di vetro piene di un denso liquido rosso.

E dietro di loro, dritto come un fuso, c’era Cato.

Clove si bloccò. Ares, dietro di lei, finì per sbatterle addosso.

«Che ci fa lui qui?» ringhiò Artemisia.

«Non ne ho idea» disse Ares. «Ma non può essere un caso.»

«Molto bene, signori» annunciò Pavlov. «Mettetevi pure comodi.»

Clove sollevò le sopracciglia. In quella stanza non c’era neanche una sedia, figurarsi qualcosa sul quale mettersi comodi.

I prigionieri – anzi, i nuovi arrivati – si disposero in un gruppo informe che ricordava molto una galassia a spirale. Clove si tenne dietro, quasi nascondendosi dietro la mole di Ares. Non sapeva perché, ma temeva che Cato la vedesse.

Pavlov si portò vicino al tavolo e intrecciò le dita dietro la schiena. «Immagino che tutti voi vi stiate chiedendo qual’è la nostra parte in questa guerra. Coloro di voi che combattono per il presidente Snow ci avranno sicuramente identificati come nemici, visto che abbiamo preso il controllo della loro base più importante; gli altri, invece, si chiedono come mai non sono ancora stati slegati, visto che, avendo combattuto contro l’Esercito Regolare, dovremmo essere alleati. La risposta, come sempre, sta nel mezzo: noi non stiamo né con i ribelli né con Capitol City. Noi siamo la Montagna. E la Montagna è superiore a questa vile e desolante guerra.»

Clove osservò l’espressione di Cato. Guardava dritto davanti a sé, senza alcuna traccia di emozione sul volto. Non sembrava quasi rendersi conto che ci fossero altre persone dentro la stanza.

«In un mondo che sembra non conoscere alternative tra bianco e nero, noi siamo il grigio che spezza le catene. Perché la Montagna non è altro che questo: una libera scelta. Ed è proprio ad una scelta che sarete chiamati.» Pavlov indicò il liquido scuro nelle provette. «Questo che vedete è un siero sperimentale. Era stato creato da Capitol City per svuotare la testa, cancellare ricordi che poi sarebbero stati sostituiti con finte memorie. Uno degli infiniti, mefistofelici trucchi del Presidente per piegare la gente al proprio volere. Ma nelle nostre mani, è ora uno strumento di liberazione.»

«Volete resettarci il cervello?» chiese uno dei soldati in divisa bianca.

«Certo che no» rispose Pavlov. «La questione è semplice. Di fronte a voi avete una scelta: rimanere qui, nel caldo abbraccio della Montagna, e dimenticare tutto il male che c’è là fuori; oppure scegliere di ritornare nei vostri ranghi, qualunque essi siano, a pregare per una morte rapida e misericordiosa. Nel secondo caso, però, saremo costretti a cancellare ogni ricordo della vostra permanenza qui. Per evitare… spiacevoli incomprensioni.»

Il silenzio cadde nella sala immacolata. Clove poteva avvertire l’impercettibile ronzio dell’impianto del riciclo dell’aria. Quanto a Cato, sembrava quasi non battere le palpebre.

«Nient’altro, miei gentili ospiti» concluse Pavlov. «Avete fino a domattina per decidere: fino ad allora, sarete confinati nei nostri quartieri di detenzione. È un po’ spiacevole, mi rendo conto, ma credo che rispetto a quello che avete passato fino ad adesso un po’ di riposo, con un tetto sopra la testa per giunta, non vi sarà poi così d’impiccio.»

Pavlov non disse altro. Senza bisogno di ordini, le guardie spinsero il gruppo di prigionieri fuori da una porta laterale, poi giù per un corridoio e, dopo un’altra porta, ai loro confortevoli alloggi.

Pavlov non aveva tutti i torti, pensò Clove mentre un soldato la spingeva dentro una piccola cella dalle pareti lisce e grigie: rispetto alle macerie e ai rottami dove aveva dormito fino a quel momento, quello era senz’altro un miglioramento.

Si sedette a terra, appoggiò le spalle alla parete e lasciò lentamente uscire l’aria dai polmoni.

Subito dopo, si rese conto che il ragazzo biondo la stava guardando.

Tra tutti i dirimpettai… quando si dice il caso.

Tirò su un ginocchio, cercando di assumere un’aria sprezzante e stravaccata; ma le labbra si rifiutavano di collaborare e la testa sembrava incapace di concepire qualunque espressione la potesse aiutare a sentirsi in controllo della situazione. Si rese conto di essere incredibilmente stanca, e che quello sguardo addosso cominciava a darle veramente fastidio.

«Che cazzo vuoi» gli sputò contro.

Davvero feroce. Complimenti.

Il ragazzo non parve neanche aver registrato le parole. Continuò a guardarla, lo sguardo vuoto, finché le sue labbra non si dischiusero.

«Chi si vede, Sconfitta.»

Quelle parole sembravano così fuori luogo – il fatto stesso che le parlasse era così fuori luogo – che Clove credette di essersele immaginate.

«Chi si vede, Sconfitto.»

Cosa cazzo ho appena detto?

«Credo sia la prima volta che mi stai davanti e non sto cercando di ucciderti.»

«Cercando è la parola giusta.»

Clove non riusciva a crederci. Quel dialogo era così surreale che doveva per forza trattarsi di un sogno. Eppure lei era lì, a sentirsi dire cose che sembravano uscire da una parte di lei su cui non aveva alcun controllo. E lui era di là, a qualche metro di distanza… a fare conversazione.

Il ragazzo parve avere lo stesso tipo di pensiero, perché si irrigidì come se avesse appena preso un colpo di spada alla schiena. Si allontanò dalle sbarre, le voltò la schiena e si sdraiò sul materasso steso sul pavimento della cella.

Clove lo osservò farsi immobile, come se volesse mimetizzarsi con il grigio scuro delle pareti. «Certo è buffo» si sentì dire. «Per due volte hai cercato di uccidermi, e ancora non so il tuo nome.»

Il ragazzo non rispose. Clove attese per un po’, poi decise che avrebbe seguito il suo esempio e si sdraiò sul materasso.

Proprio mentre stava per chiudere gli occhi, una voce le giunse dall’altra cella.

«Dan. Mi chiamo Dan.»

 

 










 


L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Un altro capitolo, un altro pezzo di strada per arrivare a Capitol City. Che potrebbe anche essere la nostra Memphis, se non ci fosse una guerra di mezzo. In ogni caso, ci tenevo a farvi sapere che il personaggio di Codrina Weatherson (il cui dialogo con Ares è forse il mio pezzo preferito di tutta questa sbarellante fanfy) non è precisamente farina del mio sacco, ma un cameo che ho deciso di inserire – senza chiedere alcun permesso all'autrice, perché sono un lestofante – per omaggiare la storia da cui la vera Codrina è tratta: si chiama "Sorelle di Sangue" e la potete trovare qui. Se volete leggere una bella storia di amore fraterno, combattimenti urbani, fanciulle con gran cervello e altre meraviglie, sapete dove andare. In più, potrete osservare come nelle recensioni io perda quel poco di dignità che ancora mi restava. Era destino, d'altronde.
E mentre Clove e Dan – che fanno amicizia rivangando i bei vecchi tempi in cui cercavano di ammazzarsi a vicenda – scivolano tra le braccia di Morfeo, non mi resta che augurarvi buona fortuna, ricordarvi di allacciarvi bene l'elmetto e sperare di rivederci alla prossima!
Tante care cose, e a presto!


 

 

 

 

 

 

 

  
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