Carissima Ellie ♥!
Non so se te lo avevo già detto da qualche parte, ma i viaggi del tempo sono una mia fissazione, così come le leggende che si avverano, le profezie che cerchiamo di allontanare da noi e poi, invece, ci agguantano. Tornando indietro nel tempo, Miki ha avverato la leggenda di Murasaki, cadendo in loop temporale tragico ed emozionante già adesso. Nella condizione in cui è non può cambiare il futuro di Okita e dei lupi né raccontare loro della disfatta perché, come Cassandra insegna, non le crederebbero ritenendola probabilmente uno spirito maligno o una strega. Del resto, chi di noi vorrebbe raccogliere un presagio di sventura? Chi vorrebbe sentirsi dire che morirà e sarà sconfitto?
Il passaggio introspettivo che spinge questa ragazza contemporanea ad accettare parzialmente la sua condizione è reso in maniera totalmente convincente: è una scelta, quella di Miki, dettata dall’istinto di conservazione, aiutata da un aggrapparsi a dei ricordi che sfuggono perché, realisticamente, non ci ha prestato la giusta attenzione quand’era il momento. E così, in effetti, è: nemmeno io ricordo i cognomi delle mie bisnonne materne, anche se, al contrario di Miki, mi importava conoscerli e certo non li ricorderei se in questo momento venissi catapultata nell’Ottocento o chissà dove.
Il realismo del passaggio introspettivo si sposa anche con i soliti dettagli pop (ad avere gli occhi quasi viola era Liz Taylor, Miki si confonde volutamente?) creando un clima favorevole per il lettore occidentale che legge e che ne sa ancora meno della giovane americana sugli usi e i costumi del Giappone feudale. Il capitolo è ricco di tensione e ho amato come lo hai aperto, col breve flashback su Hiroaki (credo che scoprirò presto il destino di ‘sto parente che gli somigliava) e il ritorno a quella che pare essere una realtà da incubo in cui tocca sopravvivere.
Okita e Shinpaichi sono fantastici. Irriverenti, acuti, virili. Le autrici donne non sempre sanno cogliere gli aspetti della personalità maschile e annacquano alcuni tratti peccando spesso in una caratterizzazione tristemente poco mascolina. Nel tuo caso, invece, Okita e gli altri ronin parlano tra loro in modo verosimile, minacciando quando c’è da minacciare, ventilando addirittura una pena severa come l’evirazione, ma lasciandosi andare anche a momenti più ludici e basici. E questo è un pregio enorme che regala profondità a un racconto dove il punto di vista prediletto è quello di Miki, appunto, che interpreta come può e ci aiuta anche a creare confronti più vicini a noi, come quello delle psicologhe della scuola, che certamente possiamo decodificare meglio di un abitante del Giappone passato. La chiusa finale, quel chiedere l’anno, è straziante: Miki sa cosa succederà e come. Parla con dei fantasmi, lo hai già detto negli scorsi capitoli, e questa metafora è bellissima. Li vedrà morire e ora li vede così fieri e speranzosi e invece subiranno una disfatta atroce. C’è una poesia incredibile in questo concetto e nel modo in cui stai scegliendo, piano piano, di raccontarcelo, che ti confesso mi sta davvero conquistando. È davvero un fortunato caso avere iniziato a leggerti e mi sto affezionando seriamente a questa vicenda così ben scritta, così ragionata, che non lascia al caso nemmeno la questione – nient’affatto secondaria – degli abiti succinti di Miki, certo non adatti a passare inosservati nell’epoca e nella città in cui è vissuta. Hai ragione, sapere dov’è finita non l’aiuterà, ma è necessario sappia.
Complimenti vivissimi, mia cara, sono rapita! :*
Un caro saluto e spero a prestissimo,
Shilyss |