«Artista…»
«Conte…» Leonardo sorrise debolmente dal suo letto di dolore. Le tende candide furono attraversate da una brezza leggera, palpitarono lentamente al ritmo del suo respiro. «Sei tornato.» rimarcò compiaciuto.

Lo guardò, le spalle al fuoco che incendiava una ciocca di capelli traendone riflessi vermigli.

Il Cavaliere Nero incedeva sul suo destriero andaluso, incurante della luce livida che lo rivelava, senza riguardi per la campagna, tenera e verde, che sembrava ritrarsi al suo passaggio.

Girolamo alzò gli occhi al cielo e allungò le mani sui pantaloni.
«No.» sussurrò Leonardo.
«E invece sì. Sono desiderato a Forlì.»
«Siete desiderato qui.»

Lentamente Riario si girò. Era intatto: il profilo affilato, il collo elegante e sottile, gli zigomi perfetti. Sul viso di eterno ragazzo non c’erano tracce del recente attacco subito.

La congiura dei Pazzi non era mai stata perdonata e quella notte Girolamo Riario avrebbe pagato con la vita.

Era come lui, quel ciondolo che rappresentava la casata dei Riario: dolcezze infantili e aculei.

A tutti sembrava che il sole fosse più forte e sorprendente della Luna. A tutti, ma forse non a lui. L’artista.
Quella sera Riario non aveva avuto bisogno di guardarlo, l’aveva sentito arrivare prima ancora di scorgerne la snella figura.

«E allora scappate, cosa fate ancora qui?»
«Non hanno prove. E comunque… Ti aspettavo. Ci vediamo a Roma. Furono le tue parole, ricordi, Leonardo?»

Era ancora lì, legato a quell’albero, ma il lavoro incessante dei polsi lo aveva quasi liberato dalle corde. E i denti avevano completamente lacerato il bavaglio. «Aiuto.» disse senza troppa convinzione.
«Sarà un po’ difficile ottenerlo se sospirate così.»