L'amicizia non genera debiti

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1287 DR: La loro approvazione ***
Capitolo 2: *** 1287 DR: Le loro regole ***
Capitolo 3: *** 1287 DR: Le loro indagini ***
Capitolo 4: *** 1287 DR: Il loro interrogatorio ***
Capitolo 5: *** 1287 DR: Il loro benvenuto ***
Capitolo 6: *** 1287 DR: La loro famiglia (Parte 1) ***
Capitolo 7: *** 1287 DR: La loro famiglia (Parte 2) ***
Capitolo 8: *** 1287 DR: La loro famiglia (Parte 3) ***
Capitolo 9: *** 1287 DR: La loro rete di vie sotterranee ***
Capitolo 10: *** 1287 DR: La loro cavalleria ***
Capitolo 11: *** 1287 DR: Le loro risorse ***
Capitolo 12: *** 1287 DR: La loro guerra (Parte 1) ***
Capitolo 13: *** 1287 DR: La loro guerra (Parte 2) ***
Capitolo 14: *** 1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 1) ***
Capitolo 15: *** 1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 2) ***
Capitolo 16: *** 1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 3) ***
Capitolo 17: *** 1287 DR: La loro Battaglia di Koom Valley ***
Capitolo 18: *** 1287 DR: La loro ritirata strategica ***
Capitolo 19: *** 1287 DR: Il loro anello debole ***
Capitolo 20: *** 1287 DR: Il loro addio ***
Capitolo 21: *** 1287 DR: L'Inganno ***
Capitolo 22: *** 1287 DR: La loro giustizia ***
Capitolo 23: *** 1287 DR: La loro pace ***
Capitolo 24: *** 1287 DR: La loro guarigione ***
Capitolo 25: *** 1287 DR: La loro diplomazia ***
Capitolo 26: *** 1287 DR: Il loro tempo ***
Capitolo 27: *** 1287 DR: Il loro futuro ***
Capitolo 28: *** 1287 DR: La loro casa ***
Capitolo 29: *** 1287 DR: La loro caccia ***
Capitolo 30: *** 1289 DR: Il loro amico (Parte 1) ***
Capitolo 31: *** 1289 DR: Il loro amico (Parte 2) ***
Capitolo 32: *** 1294 DR: La loro missione ***
Capitolo 33: *** 1316 DR: Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1287 DR: La loro approvazione ***


1287 DR: La loro approvazione

L'elfo dei boschi procedeva tranquillo e a testa alta, sul suo volto aleggiava un'espressione di gioia appena contenuta. Stava tornando a casa dopo più di un anno di vagabondaggio e avventure e non vedeva l'ora di rivedere la sua famiglia e il suo clan.
Il suo compagno dalla pelle scura non era altrettanto entusiasta, ma lo seguiva di buon grado. Johel era suo amico, e la cosa era già straordinaria di per sé; in realtà al momento era il suo unico amico, quindi se voleva tornare dal suo clan il minimo che il drow potesse fare era accompagnarlo senza lamentarsi.
Nel tardo pomeriggio finalmente raggiunsero le propaggini settentrionali della foresta di Sarenestar. In quella zona il terreno era già collinare, come in tutto il bosco che s'innalzava dolcemente fino alle pendici delle Montagne del Cammino. L'elfo nero si diresse con passo sicuro verso il prato in leggera pendenza dove era solito campeggiare quando Johel tornava nella sua foresta. Era un declivio esposto a nord, mai direttamente colpito dal sole, e d'inverno poteva diventare abbastanza freddo, però la luce diretta del sole dava ancora fastidio ai suoi occhi abituati all'oscurità. Inoltre c'era un ruscello non lontano da lì, un elemento necessario nella scelta di un sito dove accamparsi.
“Sei sicuro di volerti fermare qui, Daren?” Gli domandò l'amico, come faceva ogni volta.
“Certo, è un buon posto dove montare una tenda. Non è lontano dalla foresta, e poi ormai i tuoi compagni sanno che mi fermo sempre qui. Sono più tranquilli se possono tenermi d'occhio.” Rispose il drow, in tono pragmatico.
Johel, l'elfo dei boschi, lo guardò con una punta di tristezza e scosse la testa. “Non riesco mai a capire, dal tuo tono, se sei contrariato o davvero non t'importa. Ma quello che volevo dire, era se non preferiresti entrare nella foresta, questa volta.”
“I tuoi parenti mi sopportano a stento.” La replica giunse con voce stanca, annoiata. Quella conversazione si ripeteva ogni volta che si avvicinavano alla foresta natia di Johel. “Non sono contrariato, è normale, io sono un drow. Quando mi vedono, le madri portano via i bambini e i guerrieri mettono mano alla spada, e non saranno le tue rassicurazioni a far cambiare il loro atteggiamento. Non sono interessato a dimostrare qualcosa, non mi interessa avere la loro fiducia, e non voglio causare scompiglio nel tuo clan.” Chiarì, per l'ennesima volta. “Starò qui, dove sanno che possono tenermi sotto tiro con i loro archi. Non mi hanno mai dato incomodo.”
Questo è l'accordo che ho con tuo padre. Pensò, ma non lo disse ad alta voce. Johel non sapeva nulla di quel particolare compromesso.

Erano passate circa due decadi da quando, per la prima volta, Johel lo aveva portato nella foresta di Sarenestar. All'epoca, l'idea era quella di presentare il suo improbabile amico alla sua famiglia e al suo clan.
Prevedibilmente, la cosa non era andata molto bene. I parenti di Johel sapevano che aveva incontrato un avventuriero con cui aveva stretto amicizia una quindicina di anni prima e che da allora spesso avevano viaggiato insieme, ma non sapevano che fosse un drow. Gli elfi di Superficie erano fieramente ostili verso la razza dei loro oscuri cugini, e non senza motivo. C'era un fiume di sangue a separare le due razze elfiche, versato nel corso di millenni di guerre, massacri e crudeli sortite, spesso da parte dei malvagi drow. Per di più, Johel e Daren si erano conosciuti in una circostanza infausta, quando il gruppo con cui l'elfo viaggiava era appena stato attaccato e sterminato da una banda di briganti umani. Nella foresta di Sarenestar nessun elfo credeva davvero che il drow fosse estraneo a quella disgrazia. Nessuno tranne due di loro: Johel, che era presente ed era stato l'unico sopravvissuto, e Raerlan, un ranger dal carattere solare che per qualche motivo credeva alla loro versione.
Daren era rimasto due giorni nella foresta di Sarenestar “ospite” del clan Arnavel, costantemente tenuto d'occhio da guardiani nervosi e pronti ad imbracciare l'arco, nonostante il drow fosse stato disarmato al suo arrivo. La loro prudenza non era fuori luogo e Daren non si era certo offeso: un drow veramente malintenzionato avrebbe potuto trovare il modo di rubare la spada a uno di loro e fare almeno qualche danno prima di cadere sotto le frecce, ed era giusto e lusinghiero che ne fossero consapevoli. Aveva cercato di mantenere un atteggiamento innocuo e non aggressivo, ma loro si aspettavano che lui cercasse di ingannarli quindi qualsiasi gesto di buona volontà sarebbe stato interpretato come una parte dell'inganno.
Alla fine il padre di Johel, che era il capo dei guerrieri del clan, lo aveva preso da parte e con tutta calma gli aveva proposto un accordo: “Puoi accamparti al limitare della foresta, dove possiamo vedere i tuoi movimenti.” Gli aveva proposto, con l'aria di fargli una concessione quando in realtà si trattava di una misura che andava a tutto vantaggio degli elfi. “E non muoverò obiezioni se continuerai a viaggiare insieme a mio figlio. Ma se provi a mettere piede nella foresta ti farò crivellare di frecce. E se mio figlio dovesse morire mentre è con te, ti riterrò personalmente responsabile e ti troverò, ovunque tu sia. Hai capito bene le mie condizioni?”
Daren ricordava questa cosa con un po' di fastidio. L'anziano elfo non gli aveva chiesto se voleva accettare quelle condizioni, ma solo se le aveva capite. Non era un'offerta, era un ordine. Ma lui aveva bisogno dell'amicizia di Johel, per motivi pragmatici oltre che sentimentali, quindi aveva assentito. E da allora, quel patto era sempre stato rispettato.
 
“Sono passati quasi vent'anni, non posso credere che la mia famiglia ancora non si fidi di te.” Si lamentò l'elfo dei boschi, riportandolo al presente.
Daren mosse una mano con noncuranza, come a dirgli di lasciar perdere. “Non essere contrariato, si preoccupano per te. Un drow può pianificare un inganno anche per decenni, o per secoli. In questa faccenda, sei tu ad essere folle, non loro ad essere paranoici.”
Johel lo guardò con aria indignata. “Io mi fido di te.” Annunciò con estrema convinzione.
“Sì. Per questo ho detto che sei folle. Non si capiva dal contesto?” Insisté il drow. “Forse non sono ancora molto fluente nella tua lingua.”
“Non ancora, già, ma comunque avevo capito. Ah, sai cosa? Mio padre non vuole che t'insegni. Dice che se imparerai a parlare correttamente come uno di noi, un giorno fra molti decenni potrai farti passare per elfo di Superficie con qualche travestimento magico, e in quel modo potresti infiltrarti in una comunità elfica e compiere qualche turpitudine.”
Lo disse come se fosse uno scenario pazzesco e inverosimile. Il drow gli rispose solo con uno sguardo vacuo e per nulla sorpreso.
Calò un silenzio pesante.
“Non... non intendi negarlo?” Domandò alla fine Johel.
“A che pro?” Daren scrollò le spalle. “È vero che potrei farlo. Così come potrei ucciderti nel sonno. Così come tu potresti uccidere me nel sonno. Abbiamo scelto di fidarci l'uno dell'altro perché crediamo che nessuno dei due sceglierà di fare queste cose. Non perché non ne siamo capaci. Ora potrei prometterti che non farò mai del male ad un elfo, ma quanto valgono le parole? O ti fidi di me, o non ti fidi.”
“Mi fido.” Ripeté Johel, con la stessa convinzione. “E vorrei riuscire un giorno a convincere anche la mia famiglia che meriti fiducia.”
“Non crederanno alle tue parole così come non credono alle mie, l'unica cosa che posso fare è continuare a comportarmi in modo corretto. Ora, o mi dai una mano a montare la tenda, oppure te ne vai e mi lasci lavorare in pace.”
Il giovane elfo dal passo veloce e leggero si era già dileguato prima che il drow finisse di parlare. Come sempre, quando c'era da lavorare Johel era bravissimo a scansare il pericolo.
Vai a casa, pensò Daren con un sorriso mesto, saranno tutti felici di vederti. Vivo.

Daren non lo sapeva, ma le sue azioni stavano davvero cominciando a cambiare l'atteggiamento degli elfi del clan Arnavel nei suoi confronti. I primi anni, quando si accampava su quella collinetta, una piccola squadra scelta di ranger si appostava sempre sugli ultimi alberi della foresta alle sue spalle. I loro archi erano sempre pronti a colpire se necessario, tutti gli elfi tenevano fra le dita una freccia, o perfino due, pronti ad incoccare al minimo segno di minaccia. Adesso, dopo vent'anni di quella routine fatta di visite occasionali, appostamenti e notti insonni a controllare un campeggiatore tranquillo, il contingente di elfi che lo teneva d'occhio si era ridotto a tre soli ranger, e spesso i loro archi erano ancora agganciati alla schiena. Tranne quando il padre di Johel si trovava fra loro, in quel caso mostravano la prontezza e l'attenzione dei primi tempi.
Ogni tanto Raerlan andava a trovarlo per scambiarsi racconti di avventure (anche se era stato più volte scoraggiato dagli altri ranger), e queste brevi visite rompevano la monotonia e la noia di quei giorni di campeggio. Più spesso, Daren rimaneva da solo e allora leggeva qualcosa, rammendava i suoi abiti e la tenda, faceva l'inventario dell'equipaggiamento o lavava i vestiti nel ruscello, ma non aveva mai osato allenarsi con le armi. Non voleva fare nulla di potenzialmente minaccioso.


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Capitolo 2
*** 1287 DR: Le loro regole ***


1287 DR: Le loro regole

“Quindi è fatto così, un drow!”
Daren si alzò a sedere di scatto, in allarme. Si era sdraiato un momento a guardare il cielo, che risplendeva degli splendidi colori del tramonto, e fino a un attimo prima era assolutamente sicuro di essere solo.
Si sbagliava. La voce allegra e infantile che l'aveva colto così alla sprovvista apparteneva a un ragazzino elfo, anzi, un bambino: non poteva avere più di nove o dieci anni.
“Che cosa fai qui, monello? Non è proibito avvicinarsi a me?” Inquisì il drow, guardandolo male.
Il bambino scrollò le spalle e scosse la testa, facendo ciondolare i morbidi ricci castani. “Sì, ricordo qualcosa del genere... ma le leggi non mi interessano.” Disse con aria noncurante.
Daren studiò il piccolo per un lungo momento: era chiaramente un elfo dei boschi, parlava con lo stesso accento degli elfi di Sarenestar, sembrava disarmato e innocuo. E solo.
Come è arrivato qui? Non c'è nessuno con lui?
“Torna a casa, su. Fuori dai piedi.” Gli intimò, indicandogli la foresta.
“Uhmmm...” il bambino guardò la selva con aria critica. “Inizia a fare buio e io ho paura a camminare nel bosco di notte.”
Un'obiezione ragionevole, si rese conto l'elfo scuro.
“Chi ti ha accompagnato qui?”
Il piccolo lo guardò senza capire. “Sono venuto da solo, no?”
Daren era sempre meno convinto.
“Chi sei? Perché sei qui?”
“Mavael. Mi chiamo Mavael.” Si presentò con un gran sorriso. “E volevo conoscerti perché ero curioso. Raerlan dice che sei una brava persona.”
“Ah, così sei amico di Raerlan.” Il drow si alzò in piedi, spazzolandosi i calzoni. “Avrei dovuto capirlo, sei imprudente come lui. Dai, vieni, ti accompagno al limitare della foresta. Ci sono dei ranger lì, uno di loro potrà riportarti a casa.”

I due si avviarono con passo tranquillo verso la cima della collina, dove ufficialmente cominciava la foresta e il territorio degli elfi.
Daren si fermò a pochi passi di distanza dai primi alberi, guardandosi intorno. Gli sembrava che non ci fosse nessuno.
“Ehilà! Elfi della foresta di Sarenestar! Uno di voi potrebbe riportare a casa questo bambino?” Chiamò, ad alta voce.
Nessuna risposta, tranne il verso offeso di un gufo svegliato prima del tempo.
“EHILÀ!” Ripeté il drow, stavolta gridando. “C'è nessuno?”

Tre ranger erano appostati come al solito fra le fronde degli alberi, ma gli elusivi elfi dei boschi imparavano fin da bambini a mimetizzarsi fra le fronde. Nemmeno la vista acuta del drow era riuscita a scovarli.
I due ranger di grado inferiore guardarono all'unisono verso il loro capo. Quel giorno, proprio Tazandil, il padre di Johel, capitanava la spedizione di sorveglianza.
L'elfo dei boschi rifletté velocemente; quella era un'occasione per testare la correttezza del drow, mettendolo davanti a una scelta in cui qualsiasi soluzione sarebbe stata sbagliata. Fece cenno ai suoi di rimanere nascosti e in silenzio. Voleva vedere cosa avrebbe fatto quel sedicente “amico”.

Daren era davvero molto combattuto.
Dire che Sarenestar fosse il territorio degli elfi era una definizione generosa: i ranger erano pochi e la superficie da pattugliare era vasta, la foresta non mancava di mostri e goblinoidi, per non parlare dei semplici animali come lupi o cinghiali che potevano essere molto pericolosi, specialmente per un bambino solo. Strane ombre cominciavano a intravedersi fra gli alberi e il drow non aveva grande esperienza di cosa potesse vivere in una selva. Quindi immaginava il peggio.
Che faccio? Non posso lasciare che questo bambino torni a casa da solo, potrebbe dover camminare per ore. Ma se entro nella foresta mi uccideranno.
Posso forse tenerlo con me per stanotte? No, i suoi genitori andrebbero fuori di testa. Deve tornare a casa.

L'elfo scuro considerò tutte le possibilità, lasciò vagare lo sguardo sugli alberi deserti (o almeno credeva che fossero deserti) con l'aria di aver subito un torto, e alla fine prese la sua decisione.
Sganciò dalla cintura i foderi delle sue spade corte gemelle, con movimenti lenti e senza mai avvicinare le mani alle impugnature. Una alla volta, appoggiò le spade sulle radici del primo albero che aveva davanti. Poi fu il turno della sua spada bastarda, a cui era particolarmente affezionato: anche quella rimase sul limitare del bosco. Infine, si liberò anche del pugnale che teneva nello stivale. Prese in braccio il bambino, sollevandolo di peso, e si addentrò nella foresta con il cuore in subbuglio.
Oh, al diavolo. Si disse per farsi coraggio. Arriva sempre un momento nella vita in cui si deve decidere se seguire le regole o fare la cosa giusta.

“Mi porti a casa?” Chiese il ragazzino, sistemandosi meglio in braccio al drow. Daren aveva già avuto a che fare con dei bambini, alcuni spaventati, alcuni capricciosi, ma finora nessuno si era mai mostrato così tranquillo e sicuro di sé. O sicuro di lui.
“Ti porto dal primo elfo che incontriamo.” Lo corresse. “Non ho il permesso di entrare nella foresta.”
“Eppure vedo che questo non ti ha fermato, drow.” Intervenne una voce autoritaria, che Daren conosceva bene. Imprecò internamente e si voltò: Tazandil era lì.
Ovviamente. Comprese l'elfo scuro. C'era, ma ha fatto finta di non sentirmi.
Altri due elfi sbucarono dal sottobosco, uno alla destra di Daren e uno alla sua sinistra. Tutti e tre avevano una freccia incoccata e l'arco in tensione.
“Ti fai scudo dietro a un bambino?” Lo provocò nuovamente l'elfo più anziano.
Vaffanculo, Tazandil. Sul serio, vaffanculo di cuore.
Daren lasciò andare il bambino, guardando malissimo l'elfo. Contrariamente a ogni sua previsione, il ranger abbassò l'arco. Gli altri due lo imitarono, segretamente sollevati. A loro giudizio, il drow non aveva fatto nulla di male, aveva anche posato a terra il bambino rinunciando ad una possibile copertura...
“Hai scelto di disobbedirmi.” Considerò Tazandil. “Hai forse dimenticato le mie minacce?”
“Ho provato a chiamare aiuto.” Spiegò il drow. “Non per me, ma per questo ragazzino. Nessuno ha risposto. Cosa dovevo fare, lasciare che si incamminasse da solo nella foresta di notte? O tenerlo con me, lontano dai suoi genitori?”
“Ti ho chiesto se hai dimenticato le mie minacce, drow.” Ripeté il ranger, mortalmente serio.
“No, la mia memoria funziona ancora molto bene!” Sbottò Daren. “Se mi concedi un ultimo desiderio, vorrei darti un pugno in faccia.”
Uno dei due esploratori venne colto da un improvviso attacco di tosse, dissimulando in modo passabile una risatina. Tutti rispettavano Tazandil per le sue abilità combattive e per la dedizione verso i suoi compiti, ma non significava che fosse molto simpatico ai suoi sottoposti.
“Elendyl.” Ordinò il ranger capo, rivolto all'elfo che aveva riso. “Prendilo prigioniero.”
L'elfo più giovane lo guardò incredulo, poi guardò Daren, poi di nuovo il suo capo.
“Io? Da solo?”
“Sì, tu, da solo. Raedeth andrà a prendere le sue armi. Cosa c'è, hai paura di un nemico disarmato?” Lo istigò Tazandil.
“Non sono un nemico!” Protestò Daren.
“Sono giustamente prudente.” Borbottò Elendyl. “Si tratta di un drow.”
“Se tenta qualche scherzo, gli pianto una freccia in gola.” Promise il vecchio elfo, risollevando l'arco.
Mavael si fece avanti coraggiosamente, guardando i tre ranger dal basso dei suoi tre piedi e mezzo d'altezza. “Raerlan dice che lui è a posto, e Raerlan lo sa sempre quando una persona è cattiva. Ha il sesto senso, come sua madre, perché loro sono magici.” Spiegò il bambino, con l'aria di voler essere d'aiuto. “Infatti l'elfo scuro mi stava aiutando a tornare a casa.”
“Con te faremo i conti dopo, marmocchio.” Promise Tazandil. “Non so come hai fatto ad arrivare lì senza che ti vedessimo, ma ti assicuro che non lo farai più. Parlerò chiaro con i tuoi genitori!”
“Mia mamma è morta.” Spiegò il bambino, facendosi da parte mentre uno dei ranger legava le mani di Daren dietro la schiena. Il drow non oppose resistenza, sarebbe stato inutile, era disarmato. “Mio padre è in missione. Io sto con Raerlan per il momento, è amico della mia famiglia.”
“Allora parlerò con Raerlan. Un altro gesto irresponsabile come questo, e lo sollevo dai suoi doveri di ranger.” Tazandil prese per mano il bambino e iniziò a trascinarselo dietro, in modo deciso ma non aggressivo.

Gli elfi scortarono il piccolo Mavael, il prigioniero drow e le sue armi fino al loro accampamento. I ranger della zona settentrionale conducevano una vita seminomade, pattugliando i confini della foresta e proteggendo gli insediamenti che si trovavano più all'interno. Il campo però era fisso: questo gruppo presto si sarebbe spostato altrove e un altro gruppo avrebbe occupato questa postazione. Questo sistema minimizzava gli errori dovuti alla sbadataggine, perché i dettagli sfuggiti ad un ricognitore potevano essere notati da un suo collega, e la vita nomade impediva ai ranger di cedere alla noia e all'abitudine; un'eccessiva sicurezza di sé spesso è l'anticamera del fallimento.
C'erano delle gabbie di legno nell'accampamento, che di solito venivano usate per tenerci i prigionieri che dovevano essere interrogati. L'elfo scuro venne sospinto dentro una di quelle gabbie. Quelle anguste celle erano troppo basse perché potesse stare in piedi, e la sua non faceva eccezione, quindi si sedette. Uno dei pali di legno era scortecciato in un punto, da quello Daren intuì che di solito i prigionieri venivano legati in modo che la corda passasse intorno al palo. Nel suo caso però non lo fecero, i suoi polsi erano sempre legati dietro la schiena ma lui era libero di muoversi per la gabbia... bassa e angusta. Ciò non di meno, era sempre un trattamento leggermente migliore del solito e questo gli dava un po' di speranza.

     

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Capitolo 3
*** 1287 DR: Le loro indagini ***


1287 DR: Le loro indagini

Prima che calasse la notte, qualcuno portò nella sua gabbia un sacco a pelo perché potesse almeno stare al riparo dal freddo. L'elfo gli lasciò anche qualcosa da mangiare, e dopo aver richiuso la porta della gabbia con un lucchetto fece cenno al drow di avvicinarsi.
“Girati, poggia i polsi contro le sbarre. Ho il permesso di sciogliere i tuoi legacci.” Annunciò in tono neutro, sfoderando un corto pugnale.
“Come so che non mi accoltellerai alla schiena?” Replicò il drow, sentendosi in vena di prudenza.
“Se Tazandil avesse voluto ucciderti, lo avrebbe fatto quando ti ha trovato nella nostra foresta con uno dei nostri bambini.” Fu la pronta risposta dell'elfo. “Sarebbe stato facile raccontare che lo avevi rapito.”
“Ero disarmato.” Protestò il prigioniero. “Come avrei potuto rapirlo?”
“Se Tazandil avesse voluto ucciderti, le tue armi sarebbero state trovate sul tuo corpo.”
Daren annuì, accettando quella ovvia spiegazione. Era un drow, quindi capiva bene gli inganni. Anche lui avrebbe potuto inventare una messinscena del genere, se nella sua cultura fosse esistito il concetto di biasimo per motivi etici. Raramente ad un drow serviva una giustificazione per uccidere qualcuno.
L'elfo scuro si spostò verso la parete di sbarre davanti al ranger e si sedette sui talloni, dandogli le spalle e sporgendo i polsi all'indietro. Con pochi gesti rapidi, il ranger tagliò le corde che lo tenevano legato. Daren si rilassò leggermente; l'elfo aveva detto la verità, non intendeva ucciderlo. Anche se Tazandil non l'aveva ordinato, Daren non poteva essere certo che questo elfo in particolare non avesse qualche motivo per volerlo morto. Si allontanò in tutta fretta dalle sbarre, massaggiandosi i polsi.
“Non dovrei attardarmi a parlare con te.” Gli confidò l'elfo, sottovoce. “Ma sembra che sarò il tuo guardiano per stasera e temo di annoiarmi.”
“Non pensi che cercherò di scappare?” Inquisì il drow, raccogliendo il fagotto di cibo che l'elfo dei boschi gli aveva lasciato.
L'altro si strinse nelle spalle, esitante. “Ho passato molte notti a fare la guardia sul tuo accampamento, negli ultimi dieci anni. Tendo a credere alla versione di Johlariel.”
Questo frammento di informazione rivelò a Daren alcune cose; l'elfo era un ranger abbastanza in gamba da essere incaricato della sua sorveglianza, ma non era in confidenza con Johel né con la sua famiglia, visto che usava il suo nome per esteso anziché il nome più breve usato dagli amici. Forse proveniva da un altro insediamento.
“Di dove sei originario?” Gli domandò, per genuina curiosità e anche per verificare la sua ipotesi.
L'elfo rimase sorpreso a questa domanda, si sarebbe aspettato che il drow gli chiedesse “Cosa mi accadrà?”, o magari “Chi sei?”, se proprio aveva delle curiosità su di lui personalmente.
“Ormai vivo a Sarenestar, ma vengo dalla Wealdath, la foresta sconfinata a nord di qui. Mi chiamo Thaladir, sono un cugino del tuo amico. Da parte di madre, ovviamente.” Spiegò, come se fosse implicito.
“Ah... ovviamente.” Assentì Daren, fingendo di sapere di cosa stesse parlando.
“Tu da dove vieni? È vero che tu e Johlariel avete girato mezzo continente?”
“Vengo dal nord. E comunque no. Solo una parte della Costa della Spada e un pochino le terre centrali dell'occidente.”
“Ma chissà che avventure!” Bisbigliò l'elfo in tono entusiasta. “Sarebbe troppo... insomma, sarebbe troppo invadente se ti chiedessi di raccontarmene una?”
Daren guardò il ranger per alcuni secondi, in silenzio, riflettendo su quella richiesta e su molte altre cose.
“Tu sei molto giovane, vero, Thaladir?” Domandò infine.
“Molto? Che vuol dire molto? Ho quasi visto tramontare il mio primo secolo.” Si difese l'elfo, corrugando la fronte. “Solo, non ho ancora avuto occasione di vivere avventure per conto mio.”
Daren si avvicinò alla parete di sbarre, sedendosi poi a gambe incrociate. Appoggiò le mani a terra dietro la schiena e sorrise, prendendo un'aria casuale e rilassata. “Mi piacerebbe raccontarti qualche avventura, Thaladir, ma più di ogni altra cosa mi piacerebbe tornare qui fra alcuni anni e sentire i resoconti delle tue avventure. Vedo che hai un fuoco dentro, che potrebbe portarti a grandi cose. Ma perché questo accada, è necessario che tu impari una semplice verità, prima di tutto. È un segreto che quasi tutti gli avventurieri apprendono, prima o poi.”
L'elfo si avvicinò alla gabbia, incuriosito. “Devo per forza impararlo da solo? O puoi rivelarmelo tu?”
Il drow annuì con aria complice. “Posso insegnartelo io, anzi meglio, perché prima lo impari e meglio è. Non si sa mai cosa potrebbe succedere se ti trovassi in una situazione di pericolo senza questa conoscenza.” Daren abbassò la voce. “Ma devo dirtelo in confidenza, perché Tazandil non approverebbe. Penso che lui creda nell'insegnare le cose solo al momento giusto.”
Ora l'elfo era decisamente interessato.
“Non dirò a Tazandil che me lo hai detto, allora.” Sussurrò a sua volta, avvicinandosi alla gabbia.
Oh, sì che glielo dirai. Ci scommetto gli stivali che glielo dirai.
Daren agì con una mossa improvvisa e fulminea. Si diede una leggera spinta con le braccia in modo da portare il baricentro in avanti, una delle sue mani scattò come un serpente passando fra le sbarre e afferrò il giovane Thaladir alla gola. Strinse la presa, abbastanza per essere certo di averlo afferrato, ma senza strangolarlo. Poi ritrasse il braccio, attirando a sé il ranger che sbatté la faccia contro le sbarre, quantomeno i lati del viso. Il colpo alle tempie lo stordì per un momento, ma era abbastanza perché l'altro braccio di Daren riuscisse a raggiungere l'impugnatura del coltello che teneva alla cintura. Quando il povero elfo stordito e sorpreso riaprì gli occhi dopo il colpo, il suo stesso coltello era puntato sotto il suo mento.
Daren vedeva molto bene al buio, quindi vide con chiarezza il viso di Thaladir sbiancare all'improvviso. Lasciò che annaspasse in quel terrore atavico per alcuni secondi, poi abbassò la lama.
“Ecco il mio consiglio, giovane. Non dare mai confidenza ai prigionieri. Alcuni sono disperati, e non sono bendisposti come me.”
Lasciò andare la gola dell'elfo e gli diede una spinta per allontanarlo dalla gabbia. Thaladir cadde all'indietro, trovandosi mezzo sdraiato sull'erba. Poi, con gesto svogliato, il drow gli lanciò il suo pugnale, che atterrò senza danni a poca distanza da lui.
“Dì al tuo capo di mandare qualcun altro. E magari comincia a tenere il pugnale in un posto meno ovvio.” Gli raccomandò, poi stese a terra il sacco a pelo e ci si sdraiò sopra, sbadigliando in modo palese.
Thaladir non andò a chiamare qualcun altro, ma rimase a fare la guardia tutta la notte con gli occhi spalancati e l'arco pronto a scoccare.

Il mattino dopo, le orecchie sensibili dell'elfo scuro captarono un fruscio di erba calpestata. Aprì gli occhi, felice per una volta di trovarsi al riparo degli alberi, che soffocavano in parte la luce del sole.
Tazandil era lì accanto alla sua gabbia e lo guardava con espressione indecifrabile. C'era un altro elfo con lui, aveva le vesti di un chierico di Corellon Larethian, il dio più venerato dagli elfi di Superficie.
“Buongiorno.” Salutò Daren, sedendosi in modo più composto sul suo giaciglio. “Temo di aver traumatizzato un po' tuo nipote.”
L'espressione di Tazandil non cambiò di una virgola. “Se fosse mio nipote lo avrei raddrizzato anni fa a suon di flessioni nel fango.” Rispose con freddezza. “È solo un parente di mia moglie, nella sua foresta d'origine sono convinti di saper formare dei buoni ranger. Sapevo che gli avresti dato qualcosa su cui riflettere.”
Daren rimase a bocca aperta, in modo poco dignitoso, per un paio di secondi.
“Mi hai lasciato con lui di proposito? Come sapevi che non lo avrei ucciso per scappare?”
“Non lo sapevo.” Ammise Tazandil, poi fece un passo di lato per permettere all'altro elfo di avvicinarsi. “Drow, ti presento Idhrenor, adepto della chiesa di Corellon Larethian.”
Daren scrutò il sacerdote con un certo interesse. Anche lui sembrava piuttosto giovane, infatti era solo un adepto. Non era il chierico principale della foresta, forse era solo di supporto a questa pattuglia di ranger per curare le loro ferite o portare conforto ai loro spiriti.
“Mi sono perso le preghiere del mattino? O sei qui per raccomandare la mia anima a qualche aldilà?” Domandò, approcciando il giovane adepto con più sfacciataggine del dovuto.
“Non stai per morire.” Rispose Idhrenor, in tono pacato. Non sembrava essersela presa per le provocazioni di Daren, cosa che gli fece immediatamente guadagnare rispetto ai suoi occhi. “Sono qui per chiederti di abbassare le tue difese.”
Il drow lo guardò senza capire. “Sono disarmato, devo togliermi anche l'armatura?”
Il sacerdote stava già scuotendo la testa prima che Daren avesse finito di parlare. “Mi riferisco alle tue difese spirituali. Ieri sera ti ho osservato con cura mentre interagivi con il tuo guardiano. Esistono incantesimi semplici ed elementari che possono rivelare la generale predisposizione d'animo di una persona. Anche mentre attaccavi Thaladir, le tue intenzioni verso di lui non sono mai state malevole. Questo mi ha sorpreso.”
“Eri lì, quindi.” Riconobbe il drow, sorpreso. “Ma non ho percepito la tua presenza!”
L'adepto sorrise con segreta soddisfazione. “Ero invisibile, ma non è tutto merito mio; Thaladir tende a coprire qualsiasi rumore con i suoi discorsi entusiastici.” Scosse la testa con un sorriso, pensando al ranger e alla brutta esperienza che aveva vissuto la sera prima. “Quindi ora sono qui per capire meglio che tipo sei, drow. Magari hai solo un sistema di valori e priorità diverso dal nostro. Magari sei mentalmente disturbato e per te è normale minacciare di morte uno dei nostri ranger a scopo educativo.”
“Non sapevo che il buonsenso fosse una malattia mentale.” Borbottò il drow. “Credevo di essere perlopiù immune alle malattie.”
“Devo chiederti di rimuovere qualsiasi difesa magica che nasconda la verità del tuo animo.” Il chierico riprese il discorso da dove l'aveva interrotto.
“Come prego?”
Idhrenor si armò di santa pazienza e si lanciò in una spiegazione puntuale.
“Se provo a lanciare un incantesimo che rivela la vera natura etica di una persona, guardando te non ottengo nessuna informazione. Come se tu non avessi opinioni su nulla.”
“E magari è così?” Il drow alzò un sopracciglio.
“Sarebbe una condizione abbastanza rara, esclusiva di alcuni asceti che si astengono dalle cose del mondo, o di coloro che hanno interessi personali così forti da estraniarli dalla realtà. Io non penso che tu sia questo tipo di persona. Johlariel non ti sarebbe così affezionato.”
Daren distolse lo sguardo e borbottò qualche imprecazione a mezza voce.
“Non sono a mio agio con questa cosa.” Rivelò infine, senza guardare in faccia gli elfi. “Che succede se scelgo di non farlo?”
“Il tuo esilio perdurerà alle stesse condizioni che già conosci.” Intervenne Tazandil. “Avrai due ore per uscire dalla foresta oppure cominceranno a piovere frecce. Se invece permetti a Idhrenor di divinare la tua anima, la tua condizione potrebbe cambiare di conseguenza.”

Daren rimase in silenzio per un lungo momento, riflettendo sulla proposta. Non passava giorno che il guerriero drow non rinnovasse l'incantesimo che mascherava il suo allineamento morale agli sguardi dei chierici. Non perché avesse qualcosa di deplorevole da nascondere, ma perché era una cosa... privata. Non gli piaceva che degli sconosciuti potessero spiare i suoi veri sentimenti senza il suo consenso.
Però adesso aveva l'occasione di fare un gesto di apertura verso la gente di Johel, e il suo gesto sarebbe stato davvero recepito, per la prima volta dopo quasi vent'anni. Poteva compiere un atto di fiducia verso quella gente? Migliorare i rapporti con la famiglia e il clan del suo amico valeva lo sforzo?
Tazandil però non era un elfo paziente, e mal interpretò il suo silenzio.
“Va bene. Prendi le tue cose e sparisci dalla mia vista.” Disse seccamente, voltando le spalle al drow.
“Aspetta!” Lo fermò Daren, messo alle strette.
L'anziano elfo si girò e lo guardò, in attesa. Daren capì di avere pochissimo tempo per decidere.
Ne valeva la pena? Johel aveva fatto tanto per lui: si era fidato. Lui poteva fare una cosa altrettanto difficile.
“Accetto le condizioni del tuo chierico.” La frase gli uscì di bocca all'improvviso e in tono amaro, come se avesse fatto fatica a tirarla fuori.
Tazandil lo ricompensò con un singolo cenno d'assenso e lo lasciò solo con il giovane sacerdote.

           

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Capitolo 4
*** 1287 DR: Il loro interrogatorio ***


1287 DR: Il loro interrogatorio

Idhrenor attese con pazienza che il drow gli confermasse di aver rimosso l'incantesimo che mascherava il suo allineamento morale. Quando Daren gli fece un cenno d'assenso, il chierico chiuse gli occhi e cercò dentro di sé la magia che il suo dio gli aveva elargito in risposta alle sue preghiere. Si toccò gli occhi chiusi con le mani, mormorando una breve formula, poi attese un momento finché non percepì che la magia stava iniziando ad avere effetto.
Il giovane elfo prese un gran respiro e si fece coraggio: era nettamente consapevole dei suoi limiti, sapeva che se il drow avesse avuto un'aura malvagia e se quell'aura fosse stata troppo forte per lui da sopportare, avrebbe potuto anche sentirsi male. In quel momento avrebbe voluto avere qualcuno a cui appoggiarsi, come Tazandil, o il buon maestro Solaias che gli aveva fatto da mentore.
Idhrenor aprì gli occhi, attento a cercare segni di malvagità nell'animo del drow.
“Ah.” Commentò, ritrovando il suo sangue freddo. “Forse Solaias aveva torto su di te, dopo tutto.”
“E chi diamine è Solaias?” Chiese l'elfo scuro in tono annoiato.
“Il più probabile successore del nostro Sommo Sacerdote di Corellon Larethian.” Spiegò il giovane adepto. “Era assolutamente sicuro che fossi malvagio, visto che, insomma, non hai...” fece un vago gesto con la mano in direzione del prigioniero. “Hai capito... no?”
“No.” Mentì il drow. Si era accorto del disagio di Idhrenor, ma l'adepto stava mettendo a disagio lui, e mal comune mezzo gaudio. “Ti prego, estrapola.”
Il sacerdote tacque, imbarazzato, per qualche secondo.
“Non hai l'ombra.” Sbottò infine. “Mi dispiace, io non vorrei farmi gli affari tuoi, ma devo assolutamente essere certo che tu non sia un pericolo per la nostra foresta. Devo controllare che tu non stia più nascondendo le inclinazioni del tuo cuore.”
Daren rimase in silenzio, invitandolo a spiegarsi con una significativa occhiata perplessa.
“Finora ho verificato solo che non sei malvagio.” Balbettò il chierico. “Devo... devo anche controllare...”
“Ah, sì. Certo.” Comprese il drow. “Se ti servono anche altre informazioni personali imbarazzanti, non farti scrupolo, dopotutto io non sono una persona vera.” Sbottò, in tono sarcastico e molto amareggiato.
Idhrenor aveva un animo sensibile e si rendeva conto del disagio che stava causando al loro ospite, ma aveva prima di tutto dei doveri verso il suo popolo. “Non sono animato da morbosa curiosità personale. Farò solo il necessario, lo prometto.”
Si concentrò di nuovo e modificò l'incantesimo che aveva negli occhi, in modo da poter individuare una eventuale inclinazione alla bontà, anziché alla crudeltà. Quando aprì gli occhi, stavolta, rimase imbambolato a fissare la gabbia per un lungo momento. All'inizio, preso in contropiede da quello strano spettacolo, aveva pensato che la struttura di legno fosse in fiamme; però non aveva mai visto un fuoco così statico o così chiaro. Poi comprese cosa stava vedendo.
“Oh.” Soffiò, imbambolato. “Oh. Be', wow. Ho visto poche aure così forti, solo quelle di alcuni sacerdoti. Perché...?” Deglutì, incerto su come porre la domanda. “Perché nascondi questa... cosa meravigliosa?”
Inizialmente il drow non rispose. Idhrenor spostò lo sguardo sul suo viso e notò solo allora che aveva un'espressione molto contrariata. Nonostante l'evidenza delle reali buone intenzioni dell'elfo scuro, il giovane adepto fece un passo indietro. “Scusa. Avevo promesso di non fare domande di troppo.”
“No, non importa.” Biascicò Daren. “Posso risponderti. Tu hai semplicemente una mentalità da chierico. Io conduco una vita molto diversa dalla tua, spesso devo muovermi in modo furtivo o addirittura infiltrarmi in mezzo a gente poco raccomandabile. Questa cosa, come la chiami tu, mi rende immediatamente identificabile a chiunque conosca i più basilari incantesimi di divinazione, inoltre lascia una scia che perdura per giorni, peggio che se avessi camminato nella vernice. Tutto ciò è contrario ai più basilari requisiti di sopravvivenza.”
Inoltre non voglio che la gente si faccia idee sul mio conto, pensò, ma Idhrenor era giovane ed era un chierico, non avrebbe mai capito. Buona parte del potere della casta sacerdotale derivava dal rispetto che il suo gruppo sociale aveva per il clero, per il suo ruolo, e per le aspettative che si faceva carico di mantenere. Daren invece non voleva che la gente si facesse aspettative su di lui, sulla sua etica o sulla sua disponibilità. A dire il vero non gli dispiaceva che le persone gli stessero alla larga, anche se era per paura; riusciva già a fatica a gestire l'unico amico che aveva. L'amicizia come la intendevano in Superficie, quel rapporto fatto di doveri reciproci e intollerabile invadenza, era una cosa a cui non si era ancora abituato.
Idhrenor continuò con le sue divinazioni per alcuni minuti, alla fine si accovacciò davanti alla gabbia di Daren.
“Se mi metto qui, mi picchierai come hai fatto con Thaladir?”
Il drow incrociò il suo sguardo e attese deliberatamente per alcuni lunghi secondi prima di rispondere. “In condizioni normali non lo farei; sei un chierico, non un ranger o un guerriero, quindi non mi aspetto molto da te in ogni caso. Ma visto che non conosci la differenza fra un pestaggio e una semplice testata contro un palo di legno, potrei aiutarti a mettere in ordine le idee.”
L'elfo dei boschi si spostò cautamente fuori dalla portata del drow, cogliendo l'avvertimento per ciò che era.
“Dopotutto è un bene che tu nasconda il tuo allineamento morale.” Considerò, parlando con una punta di irritazione che suonava completamente sincera. “Le persone tendono a credere che un individuo buono sia anche gentile, si farebbero delle tristi illusioni sul tuo conto.”
Daren sorrise come se avesse detto una cosa molto divertente.
“Oh. Oh. Il cucciolo tira fuori le ghiande!” Lo motteggiò. “Ma sai cosa, hai perfettamente ragione.”
“Perché non hai l'ombra?” Chiese il religioso, a bruciapelo.
“Perché questa improvvisa morbosa curiosità?” Ribatté il drow, usando le stesse parole che aveva pronunciato Idhrenor poco prima.
“Non è per questo che te lo chiedo. Ora sei una persona buona, anche se...” esitò un momento, cercando la definizione giusta “...probabilmente secondo criteri antisociali. Ma Maestro Solaias ha avuto quasi vent'anni per fare ricerche e ha scoperto cosa significa la tua condizione. Che cosa hai fatto, drow? Quale crimine terribile ti è costato questa punizione?”
Daren sostenne il suo sguardo, senza lasciar trasparire nulla. Quello che vide negli occhi del chierico non gli piacque nemmeno un po'.
“Mi stai ancora divinando!” Ringhiò. “Che diavolo stai guardando, stavolta? La magia ti dirà se le mie parole corrispondono al vero?”
“No.” Rispose con calma Idhrenor. “Esiste un incantesimo che si chiama Individuazione della colpa. Mi rivela se stai provando senso di colpa. Certamente lo sai già, ma la risposta è sì. In ogni persona questo sentimento prende una forma visiva diversa... nel tuo caso è come un laccio di oscurità stretto attorno al tuo collo. Quando ti ho chiesto quale crimine hai commesso, il tuo senso di colpa si è stretto con più insistenza.”
“Quando uscirò di qui, Idhrenor, farai molto meglio a starmi alla larga per il resto della tua vita.” Promise il drow, con un basso ringhio.
“Non ho modo di sapere perché ti senti in colpa.” Si difese il chierico. “Quella è una verità che appartiene solo a te.”
“E continuerà ad appartenere solo a me!” Ribadì Daren.
“Ma io devo sapere... prima di decretare che sei libero, che puoi vivere in questa foresta, devo sapere se il crimine che hai commesso riguarda in qualche modo un elfo di Superficie.” Ammise, allargando le braccia in segno di impotenza.

Daren rimase in silenzio a ponderare per quasi un minuto, respirando lentamente. Se avesse permesso a sé stesso di parlare a ruota libera, sapeva che avrebbe insultato e mortificato il giovane chierico. Che comunque secondo lui se lo meritava.
“Fammi capire... sai che ho commesso un crimine così orrendo da meritare una punizione divina che non è più in voga da millenni. Sai che ora ho cambiato completamente vita. E nonostante la gravità del gesto, che a mio parere dovrebbe essere sufficiente a condannarmi, o l'evidenza delle mie buone intenzioni, che potrebbero al contrario essere sufficienti ad assolvermi, l'unica cosa che ti preme chiedere è se questo mio crimine riguardava un elfo?” Tirò le fila, esponendo in modo più lucido possibile il motivo della sua indignazione. “Esattamente, che differenza fa?”
Idhrenor aprì le braccia, di nuovo. “È... è una buona domanda, in effetti.” Mormorò, imbarazzato. “Ma devi capire che noi elfi siamo molto... affezionati alla nostra razza. Siamo consapevoli di essere pochi e diamo molto valore alla vita dei nostri simili. Più che alla vita di individui di altri popoli, anche quando si tratta di razze con cui viviamo in pace. Questo, è inutile negarlo. Per cui devo chiedertelo di nuovo, e non mi importa del tuo giudizio: il tuo crimine riguardava un elfo di Superficie?”
Daren, di nuovo, sostenne il suo sguardo. Perlomeno non è un ipocrita, pensò. Riconosce i limiti della sua etica e li ammette. Ma non credo di volergli dire tutto. Se gli rivelassi che il mio crimine è stato commesso ai danni di un altro drow, non credo che potrei sopportare la sua indifferenza senza prenderlo davvero a pugni. No, non potrei tollerare la noncuranza o forse perfino la soddisfazione di un elfo davanti a un evento che mi ha sconvolto così tanto.
“Non scenderò nei dettagli con te, chierico, perché non mi fido e non ti rispetto abbastanza.” Annunciò infine, come preambolo. “Ma puoi avere la verità: non ho mai ucciso, né torturato, né mutilato o nuociuto in modo serio ad alcun elfo di Superficie, né a nessun'altra creatura buona o innocua che camminasse sotto il sole. Da quando sono salito in Superficie non ho mai fatto nulla di troppo diverso da ciò che ho fatto ieri notte a quel giovane ranger. Solo una volta ho ucciso degli umani, ma a mia discolpa erano crudeli seguaci di Talona e stavano contagiando un'intera regione con malattie magiche.” Esitò appena un momento, poi ammise semplicemente: “È vero che prima di cambiare vita ero malvagio, ma ero un cittadino comune, un soldato al servizio di una Casata nobiliare, e non ho mai lasciato il Buio Profondo. Se avessi avuto occasione di uccidere un elfo, all'epoca, lo avrei fatto. Non voglio addolcire la verità, ero un normalissimo drow. Ma per fortuna non ho mai avuto questa opportunità.”
Idhrenor accettò la sua spiegazione in modo pacato e quasi solenne. Nonostante le sue affermazioni, Daren era quasi certo che avesse lanciato anche un incantesimo per individuare le menzogne.

“Per me abbiamo finito.” Annunciò il giovane adepto, rialzandosi. “Riferirò a Tazandil che sei stato sincero, oggi così come in questi ultimi decenni. Penso che ti lascerà andare. Forse ti darà anche il permesso di calpestare il suolo della nostra foresta.”
Daren aveva pronta una risposta sarcastica come Quale onore, o Lo sai che non me ne frega niente, vero? ma decise di mordersi la lingua. Erano elfi. Fieri, isolazionisti, paranoici elfi di Superficie. Da parte loro sarebbe stata un'immensa concessione.
Quindi tacque ed annuì, fingendo un minimo di interesse per la faccenda.
“Spero solo che si decida prima che arrivi qui il tuo amico. Non ci tengo ad essere coinvolto in una lite famigliare.” Sospirò, pulendosi la tunica con le mani.
Idhrenor salutò il drow con un mezzo inchino che, dopo tutto quello che si erano detti, a Daren sembrò un po' fuori luogo, e se ne andò. Il drow non attese il permesso del chierico prima di ristabilire l'incantesimo che mascherava il suo allineamento.

           

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Capitolo 5
*** 1287 DR: Il loro benvenuto ***


1287 DR: Il loro benvenuto

Poche ore dopo qualcuno venne ad aprire la sua gabbia. Daren riconobbe Tazandil, il padre di Johel.
“Puoi uscire. Se il nostro chierico dice che sei pulito, per me va bene.”
Il drow guardò prima la porta aperta, poi il volto serio dell'elfo più anziano. “Ma se lo dice tuo figlio, non va bene.” Considerò, cercando di non usare un tono troppo critico.
“Mio figlio non è investito di poteri divini.” Fu la risposta stringata.
Daren uscì dalla gabbia. C'era qualcosa, nell'elfo dei boschi, che gli faceva passare ogni velleità di ribellione. Aveva la stessa aura di autorevolezza di una matrona drow, anche se non era altrettanto sadico. Probabilmente. Quasi sicuramente.
“Bene, e ora che sono fuori?”
Lo sguardo di Tazandil non lasciava trasparire nulla.
“La decisione non spetta a me. Non sono io il capoclan. Io sono solo responsabile per la sicurezza dell'area nord-orientale della foresta. Resterai nella mia pattuglia finché il capoclan non avrà deciso, e anche allora potrai muoverti solo nel territorio del clan Arnavel. Ma è un discorso prematuro. Per ora starai con noi ranger e basta.”
Daren scrollò le spalle. “Va bene. Meglio della noia di campeggiare da solo... suppongo. Devo fare qualcosa? Voi pattugliate la foresta, devo farlo anch'io?”
Tazandil stavolta lasciò protrarre il silenzio per alcuni lunghi secondi prima di rispondere.
“Non tutti sono entusiasti all'idea che tu possa muoverti armato in mezzo a noi. Tuttavia penso che sia giusto lasciarti una scelta: prendi le tue spade e fai la tua parte per pattugliare e difendere la foresta, oppure rinuncia al dovere ma anche al diritto, rimani qui ospite e disarmato con una ristretta libertà di movimento.”
Daren si stiracchiò, godendosi il piacere di poter aprire completamente le braccia senza toccare i pali della gabbia. Il discorso di Tazandil aveva un ché di surreale, per lui.
“Parli come se io avessi dei doveri verso questa foresta. Come se fosse casa mia.”
Il guerriero elfo scrollò le spalle, il primo gesto noncurante che Daren gli vedesse fare.
“Fintanto che mio figlio si trova qui e richiede la tua presenza, questa foresta sarà casa tua. O almeno quest'area della foresta.”
Il drow rimase senza parole. Quella di Tazandil in realtà era un'offerta straordinaria e inaspettata, ma l'elfo riusciva a farla sembrare un odioso comando.
Diamine. Daren venne colpito da una tremenda rivelazione. Suono così anche io, quando mi relaziono con la gente? È veramente atroce.
Questo tizio è un genio.

“Ehi, non c'è problema, Taz. Farò la mia parte.” Promise, alzando entrambi i pollici.
L'elfo dei boschi non tradì alcuna emozione tranne il leggero contrarsi di un sopracciglio.
“Il mio nome è Tazandil.” Rammentò al drow in tono rigido. “Se non riesci a ricordartelo, puoi chiamarmi Signore. Sono stato chiaro?”
“Come il sole, Taz.” Confermò Daren con un sorriso.
Voleva vedere come il padre di Johel avrebbe reagito a quel particolare tipo di insubordinazione.

Più tardi, verso mezzogiorno, Johel raggiunse il campo insieme alla sua piccola pattuglia di ranger. Si erano spinti verso occidente, per prendere contatto con un'altra truppa di elfi e verificare che non fossero stati rilevati pericoli o anomalie.
Johel fu molto sorpreso di trovare Daren all'accampamento degli elfi, anziché fuori dai confini della foresta. La situazione comunque non era delle più rosee.
Il suo amico era in mezzo a una radura, sdraiato a terra a pancia in giù, e un elfo dei boschi lo teneva sotto tiro con il suo arco. Johel velocizzò il passo, per andare a scoprire cosa stesse succedendo.
Arrivando più vicino, si accorse che l’elfo non aveva l’arco in tensione e questo lo rincuorò un poco, anche se conosceva l’addestramento a cui venivano sottoposti i ranger della foresta e sapeva che ci avrebbe messo un secondo a tendere la corda e scoccare. Daren invece non era esattamente steso a terra; le sue mani erano piantate al suolo e si stava sollevando e abbassando ritmicamente.
“Che diamine sta succedendo?” Domandò in tono incredulo, spostando lo sguardo dal drow al suo compagno ranger, e poi di nuovo a Daren. “Che cosa fai?”
“Duecento... flessioni... a quanto pare.” Sbuffò il guerriero, ansimando per la fatica.
“Ma… cosa? Perché? Qui?” Balbettò.
“Te lo… dico dopo… va bene?” Propose in tono seccato, trovando a malapena il fiato fra una flessione e l'altra.

Alla fine, l'elfo scuro terminò tutte le sue duecento flessioni. Si lasciò cadere a terra, rotolando a pancia in su con le braccia aperte. Rimase immobile a guardare il cielo per un lungo momento.
“Ordini di tuo padre.” Spiegò, dopo aver ripreso fiato.
Johel si era seduto al suo fianco, curioso verso quei nuovi sviluppi.
“Chiamalo Tazandil. Non ho il permesso di chiamarlo padre quando stiamo svolgendo il nostro lavoro di ranger.”
“Eh…” Daren si lasciò sfuggire un lieve sbuffo, per la fatica o forse per l'incredulità. “Io l'ho chiamato Taz.” Confessò.
“Tu hai fatto cosa?” Johel sbiancò, atterrito.
“Ho fatto duecento flessioni.” Rispose Daren, in un tono che sembrava di rettifica, ma le due cose erano chiaramente consequenziali.
“Solo duecento, mi sembra strano.” Ragionò l'elfo biondo.
“Altre duecento stasera.” Aggiunse il drow, a conferma dei suoi sospetti. “E domani tutto daccapo. Sai, l'ho chiamato Taz due volte.”
Johel gemette come un animale a cui hanno pestato la coda e si nascose il volto dietro a una mano.
“Inoltre c'è il tuo cugino della foresta di Tethir che adora tenere d'occhio i miei progressi da dietro il suo arco.”
“Non è vero.” Si difese Thaladir, che stazionava ad una decina di passi da loro, con ancora l'arco in mano. “Faccio solo quello che mi viene ordinato.”
L'elfo scuro si sollevò sui gomiti e gli rivolse un'occhiataccia da manuale. “Be', nessuno ti aveva ordinato di perdere il conto due volte!”
“Ti porgo le mie più umili e sentite scuse.” Il ranger lo disse in tono piatto, per nulla sincero. “Ho battuto la testa, di recente.”
Daren si lasciò ricadere schiena a terra, con un sorrisetto. Johel credette perfino di sentirlo ridacchiare.
“Cosa?” Domandò infine, incuriosito dal comportamento dell'altro.
Daren sollevò le sopracciglia in una muta domanda.
“Cos'è che ti rende tanto compiaciuto?” Chiarí Johel, dando alla domanda una piega sarcastica.
“Non è ovvio?” Daren si alzò a sedere e cominciò a massaggiarsi le braccia indolenzite. “Cosa avrebbe fatto Tazandil se uno dei suoi ranger l'avesse apostrofato con un nomignolo?”
L'elfo dei boschi non aveva bisogno di chiederselo.
“Avrebbe punito questa impudenza con qualche esercizio sfiancante o con inutili doppi turni di ronda.” Rispose, riconoscendo solo ora le ragioni del drow. “Esattamente come ha fatto con te.”
“Già.”
“E quale messaggio migliore per comunicare a tutti che ti ha accettato?” Sussurrò Johel, tirando le somme della logica assurda del suo amico.
“Mi piace questa cosa del trattamento egualitario. Tuo padre… scusa, Tazandil… è un vero stronzo. Ma è uno stronzo equo.”
“Non farti sentire a parlare così di lui.” Il consiglio giunse in forma di sussurro. “Potrebbe raddoppiare il tuo castigo.”
Non era stato Johel a parlare. Entrambi si voltarono, e scoprirono che altri due elfi silvani erano sopraggiunti nella radura, alle loro spalle. Daren li riconobbe come i due ranger che erano presenti alla sua cattura.
“Volevamo ringraziarti per… insomma, per non aver reagito male quando ci siamo… incontrati.” Mormorò uno dei due, passando lo sguardo da Daren a Johel. Non avevano il permesso di rivelare i dettagli al figlio del loro capo.
“Ci sono ringraziamenti che suonano un po’ come insulti, sapete?” Li apostrofò il drow. “Nel caso ve lo steste chiedendo… questo era uno di quelli.”
“Scusa.” Si affrettò a dire uno dei due, un elfo basso con i capelli neri e due occhi dorati che rivelavano una spiccata intelligenza. Daren lo ricordava, era l’elfo che aveva riso alla sua battuta e che di conseguenza era stato incaricato di prenderlo prigioniero. “Volevamo solo dirti che approviamo la decisione di Tazandil. Quella nuova, non… quella di ieri.” Si tenne sul vago. “E non parlo delle, ehm, flessioni. L’altra decisione.”
“Sì, ho capito…” Daren ripescò nella memoria il nome di quell’elfo. “Elendyl, giusto? E tu sei… Rae… ehm.” Il drow gettò la spugna e scrollò le spalle, come per scusarsi.
“Raedeth.” Gli venne in aiuto l’altro elfo.
“Raedeth. Ma certo. Grazie per le vostre parole.”
“È vero che hai chiamato Tazandil con un nomignolo?”
“Ed è vero che ti ha condannato ai lavori forzati?”
Daren sollevò entrambe le mani per fare loro segno di rallentare.
“Sì, sono stato uno stolto impudente, ma no, mi ha solo condannato a fare ottocento flessioni. E non tutte insieme.”
I due elfi lo guardarono con orripilato interesse, come se fosse una specie di eroe della follia.
“Ed è vero che prossimamente ti unirai ad un gruppo di ranger per pattugliare la foresta?” chiese ancora Raedeth.
“Così si era detto…” Daren non si volle sbilanciare. “Se troverò una pattuglia che non si senta a disagio a lavorare con me.”
“Parlando di disagio.” Johel si alzò. Forse non aveva mangiato la foglia, ma poco ci mancava. “Penso di dover parlare con mi… Tazandil.” Si corresse, ricordando che tecnicamente era ancora in veste ufficiale di ranger. Non aveva davvero voglia di unirsi a Daren nel fare flessioni.

           

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Capitolo 6
*** 1287 DR: La loro famiglia (Parte 1) ***


1287 DR: La loro famiglia (Parte 1)

Johel andò a cercare i suoi compagni di pattuglia e chiese loro se avrebbero potuto fare a meno di lui per qualche giorno. Una volta sistemati i turni, si decise ad andare a cercare suo padre. Non c’era bisogno di chiedere a qualcuno dove fosse andato: se si era preso la responsabilità di decidere che un drow potesse risiedere all’interno della foresta, sicuramente era diretto alla città nascosta di Myth Dyraalis per presentare al Consiglio le sue ragioni.
La cittadina distava molte ore di cammino dai bordi della foresta, era protetta da intrusioni esterne grazie alle pattuglie di ranger che controllavano il territorio e grazie ai pericoli stessi della selva. Era un luogo di rifugio per gli anziani, i bambini, e per le figure importanti della comunità come i consiglieri e i sacerdoti, che formavano l’ultima linea difensiva in caso di attacco. Il buon lord Fisdril, capoclan degli Arnavel, conduceva una vita seminomade alternando periodi di vita politica in città a periodi in cui si spostava da un insediamento mobile all’altro, insieme ai ranger. Johel aveva saputo che in quel periodo il capoclan era in città, quindi sicuramente Tazandil stava andando lì.
La foresta di Sarenestar non era una monarchia, le decisioni importanti venivano prese dal Consiglio. Il Consiglio era formato dai capiclan degli elfi (e anche se il clan Arnavel rappresentava la schiacciante maggioranza della popolazione elfica, anche gli altri due capiclan presenti venivano rispettati ed ascoltati), dai due sommi sacerdoti di Corellon Larethian e di Solonor Thelandira, dal capodruido della foresta, e da tre Saggi che venivano eletti fra gli anziani con cadenza decennale. Anche la piccola comunità di gnomi che viveva a Myth Dyraalis aveva i suoi rappresentanti, ossia il loro capo, il loro chierico principale, e uno gnomo chiamato “il Custode della Memoria” (o anche solo "La Memoria") che era incaricato di registrare gli eventi importanti della comunità e mantenere una memoria storica. Gli elfi non avevano bisogno di una simile figura visto che la loro vita era molto lunga e la loro memoria ancora di più.

Quando finalmente il giovane ranger giunse in prossimità della città nascosta degli elfi era ormai notte, e la luce delle stelle a Sarenestar è un bene piuttosto raro. Rallentò il passo, ma sapeva che ormai era quasi arrivato; deviò verso ovest, pensando di entrare dalla Porta dei Monti. Johel sapeva che suo padre avrebbe parlato con lord Fisdril prima di tutto: era il suo capoclan, e anche suo fratello. La residenza di lord Fisdril non era lontana dalla Porta occidentale della città, perché voleva sempre essere il primo a saperlo se fossero stati avvistati dei pericoli da quella direzione, che era meno pattugliata perché la foresta terminava dopo sole poche miglia.
La città di Myth Dyraalis era protetta da un mythal, un potente incantesimo di Alta Magia elfica, che impediva che quel sacro rifugio venisse individuato con i sensi o con mezzi magici e creava anche un campo di energia magica che proteggeva la città come una barriera semisferica, allontanando le creature senzienti. Chi si avvicinava alla città vedeva solo un’infinita distesa di rovi, abbastanza fitta da scoraggiare anche il più coriaceo avventuriero. C’erano però quattro Porte che si aprivano nella barriera, consentendo l’accesso alla città a chi sapeva dove trovarle: la Porta dei Monti a ovest, chiamata così perché in quella direzione si trovavano le Montagne del Cammino, la Porta delle Spade a nord, perché quella era la zona più pattugliata dai ranger e dai guerrieri, la Porta dell’Acqua a sud, dove la foresta si arricchiva di molti fiumi e torrenti che sfociavano in una palude vicino al mare, e infine la Porta delle Stelle, un foro circolare nella barriera al di sopra delle cime degli alberi. L’esistenza della Porta delle Stelle destava molta curiosità fra gli abitanti di Myth Dyraalis, perché nessuno ricordava il suo scopo. Qualcuno diceva che dovesse risalire al tempo in cui gli elfi alati, il mitico popolo degli avariel, attraversava ancora i cieli di Faerûn. Altri ribattevano che gli elfi alati non si erano mai visti così a sud, e che quell’apertura servisse ai leggendari elfi cavalieri di draghi. L’unica cosa certa era che quella Porta non veniva più usata da millenni.
Johel era nato a Myth Dyraalis, come quasi tutti gli elfi della foresta di Sarenestar, quindi il mythal che proteggeva la città non poteva impedirgli di trovare l’ubicazione delle Porte, né la sua magia l’avrebbe respinto: quella era casa sua.
All’interno della città protetta, la vegetazione era leggermente meno fitta e si riusciva a vedere il cielo. La luce delle stelle sarebbe stata sufficiente ad illuminare la zona, ma qualcuno aveva acceso anche delle fiaccole.
Gli elfi di guardia vicino alla porta, un maschio e una femmina, lo riconobbero e lo salutarono con un sorriso e un cenno della mano. Lui rispose al saluto e si addentrò nei sentieri della città. Era un tipico insediamento degli elfi dei boschi, quindi le abitazioni erano perlopiù abbarbicate sugli alberi e unite da ponti sospesi, ma c’era anche qualcuno che viveva a terra, soprattutto le guardie e la comunità gnomica.
“Johel!” Una guardia di passaggio lo chiamò uno con un sorriso. “Non ti si vedeva da anni. Come stai?”
Johel riconobbe un suo vecchio compagno d’armi. “Benissimo, grazie, Nelaeryn.” Rispose sorridendo a sua volta. “Mio padre è in città?”
“Dovresti chiedere alle guardie della Porta delle Spade, ma ho sentito dire che è in città.” Rispose l’elfo. “Non conosco il motivo della sua visita.” Quest’ultima affermazione suonava un po’ come una domanda, e Johel sorrise della curiosità che il suo vecchio amico faticava a celare. Il burbero Tazandil suscitava sempre quel genere di interesse quando veniva in città.
“Nemmeno io.” Mentì, scrollando le spalle.
“Ah, senti…” Nelaeryn si accodò a lui, mentre proseguiva verso la casa dello zio Fisdril. “Ma è vero che sei amico di un drow?”
Johel buttò gli occhi al cielo. Ecco, mi sono appena ricordato perché non vengo spesso in città! pensò con un sorriso rassegnato. Nelaeryn non era il primo a fargli questa domanda. Spesso altri elfi, persone che conosceva da tutta la vita, gli avevano posto lo stesso interrogativo con un tono che andava dalla semplice incredulità al totale disappunto, come se questa amicizia facesse di Johel un traditore del popolo elfico. Nel corso degli anni aveva perfezionato la sua risposta.
“Il tuo approccio è sbagliato: è lui ad essere amico di un elfo.”
Gli piaceva mettere in chiaro fin da subito che il suo amico non fosse un drow, ma una persona a sé stante. Un soggetto, non un oggetto di conversazione.
Nelaeryn sollevò le mani, in segno che non intendeva contestarlo. “Non prenderla male. Io sono fra quelli che ha sempre creduto in te.”
Johel annuì distrattamente, sperando che si levasse dai piedi.
“Ora scusami, ma ho delle scommesse da riscuotere.” Annunciò in tono del tutto naturale.
Johel ci restò così di sasso che per poco non inciampò in una radice. Si voltò verso Nelaeryn, indignato, con l’intenzione di cantargliene quattro, ma l’altro elfo si era già dato alla macchia.

La dimora di Fisdril e della sua famiglia occupava un intero albero per buona parte della sua altezza; diverse piattaforme erano state costruite sui rami dell’albero, che si protendevano verso l’esterno a distanza di qualche metro l’uno dall’altro. Johel notò una piccola civetta appollaiata sul ramo più basso; conosceva quel rapace, era la fidata amica di sua zia Merildil.
“Ciao, Pallina.” La chiamò, sporgendo un braccio perché la civetta potesse appollaiarsi sopra. Ovviamente il rapace non rispose, anzi, gli gettò uno sguardo sprezzante e spiccò il volo verso i piani alti della casa.
Pochi secondi dopo un volto di donna sbirciò da una finestra, poi qualcuno spalancò le imposte.
“Johel! Da quanto tempo! Ti prego, sali.” Lo invitò l’elfa, facendogli un cenno con il capo.
Lui si avvicinò al tronco dell’albero e cercò i supporti che l’avrebbero agevolato nella scalata. I druidi della foresta si occupavano di modificare leggermente la forma dei tronchi in modo che non fosse necessario utilizzare mezzi barbari come chiodi e spuntoni artificiali. Un umano forse avrebbe trovato quella scalata comunque difficile, ma Johel era un elfo dei boschi, era cresciuto scalando alberi.
In pochi secondi arrivò alla prima piattaforma della casa, e vide che Merildil gli era venuta incontro. “Che piacere rivederti, nipote.” Gli sorrise con calore. Johel rispose al sorriso, sentendosi in colpa per le sue visite troppo rare. I suoi zii gli volevano molto bene, lo consideravano quasi un figlio, perché avevano penato per decenni prima di riuscire ad avere una figlia a loro volta, e nel frattempo si erano affezionati molto al più giovane ranger della famiglia.
“Anche io sono felice di rivederti, zia Merildil. E Pallina, ovviamente.” Cercò di accarezzare la civetta che si era posata sulla spalla dell’elfa, ma l’uccello rispose con un minaccioso schiocco del becco.
“Lei può capirti, sai? Non chiamarla Pallina.” Lo rimproverò lei. Merildil era una druida, e la sua amica civetta aveva un’intelligenza fuori dal comune.
L’elfa lo invitò ad entrare in casa e gli offrì un calice di vino leggero, perché potesse ristorarsi dopo il viaggio.
“Sei sola in casa? A parte… Aryl?” domandò, ricordando il vero nome del rapace.
“C’è tua cugina Freya, ma sta dormendo. Ultimamente è inquieta, e si stanca facilmente. Invece Fisdril è uscito. Tuo padre... è venuto qui oggi pomeriggio, ma di sicuro lo sai.” Johel assentì, facendole cenno di continuare. “So che hanno richiesto che il Consiglio si riunisse, ma non ne conosco il motivo.”
“E non sono ancora tornati?” Johel sospettava di sapere quale fosse l’argomento di discussione, ma era strano che la questione richiedesse tante ore.
“Hanno dovuto aspettare che ognuno terminasse le proprie incombenze, quindi hanno iniziato tardi. Comunque probabilmente avevano più di un argomento di cui parlare, sai come sono queste riunioni… ciascuno incamera problemi o proposte di cambiamento, in attesa che qualcun altro indica una riunione per qualcosa di più importante.” Lo disse con un sorrisetto e una scrollata di spalle.
“Politica!” Johel scosse la testa. “Sono felice di non saperne niente.”
Zia Merildil lo guardò con una punta di biasimo. “Potresti dovertene interessare, un giorno. Potresti diventare capoclan.”
“Fisdril è il capoclan, e ha una figlia.” Le ricordò lui, con l’aria soddisfatta di qualcuno che ha appena schivato una freccia.
“Freya… potrebbe non essere adatta al comando. O alle responsabilità. Come ti dicevo, è uno spirito inquieto.”
Questa volta Johel iniziò a preoccuparsi. “Cosa intendi, mia cugina sta bene? È inquieta nel senso di adolescente, o…”
“Ha iniziato a manifestare poteri arcani.” Confessò la druida. A Johel non sfuggì il fatto che stesse giocherellando con una ciocca di capelli fra le dita, in modo nervoso. “Sai com’è, entusiasta verso tutto, scostante… non è tipo da mettere la testa sui libri, e comunque ben pochi elfi dei boschi lo sono. I suoi poteri sembrano innati, perfino selvaggi. Come la magia degli stregoni.”
“Oh, la piccola Freya.” Johel scoppiò a ridere. “Non mi sembra la fine del mondo, zia.”
“Ed è anche adolescente!” Rincarò lei. “Soggetta a sbalzi umorali, eccessiva in ogni sua passione, nella gioia come nella tristezza. Una volta per uno scatto di rabbia ha quasi fatto prendere fuoco alla sua stanza! Io spero di riuscire a proteggere sia lei che la foresta… da lei. Ma temo che per quando avrà messo la testa a posto, la sua reputazione sarà compromessa.”
“Suvvia, mia cugina ha un buon cuore, qualunque errore possa compiere io so che non sta agendo in malafede.”
Merildil volse lo sguardo altrove, accarezzando distrattamente la sua civetta.
“A volte questo non è sufficiente. La politica, sai. E a questo proposito, anche la tua reputazione non è più solida come era un tempo.” Azzardò, con il tono di chi sta camminando sul ghiaccio sottile.
Johel non ne fu sorpreso. Si aspettava un discorso del genere, specialmente dopo le domande e le recriminazioni che molti altri elfi gli avevano mosso nel corso degli ultimi anni. Merildil era la moglie del capoclan, una donna intelligente e saggia che comprendeva le sottigliezze del vivere comune e della politica, nonostante fosse una druida. Ma i druidi, fra gli elfi, hanno un ruolo sociale non secondario.
“Per via di Daren.” Affermò tranquillamente.
“Per via del drow.” Confermò lei. “Daren? È questo il suo nome?”
“Sì zia, è questo il suo nome.” Gli sembrava strano di non averglielo mai detto, probabilmente lei non si era curata di memorizzarlo. “Non è un’amicizia che abbia fatto bene alla mia immagine pubblica, lui per primo non ha mai fatto nulla per cercare l’approvazione della nostra gente, e a dirla tutta non è nemmeno un mostro di simpatia. Ma è un amico fedele e leale, non ci si annoia mai in sua compagnia, e grazie a lui sto scoprendo moltissime cose sul mondo e su altri popoli. Stiamo imparando molto l’uno dall’altro e ritengo che nonostante il suo carattere sia una persona meritevole.”
“E non credi possibile che ti stia ingannando?” Indagò con cautela.
Johel scrollò le spalle.
“Lui insiste sul fatto che questo sospetto sarebbe legittimo. Che i drow possono pianificare inganni anche per decenni o per secoli. Ma io mi fido di lui. Se volesse ingannarmi sarebbe un po’ più amichevole, con me e con voi. E mi sta insegnando come combattere contro altri drow, siccome conosce il loro stile. Dice che non si sentirà a suo agio finché non saprà che ho le competenze necessarie ad ucciderlo.”
Merildil sollevò le sopracciglia, colpita. “Nel senso che desidera la morte?”
“Nel senso che non vuole vedere una disparità di potere fra noi.” La corresse lui. “Vuole sapere che sono indipendente.”
“E lo sei?”
Johel ci pensò un momento, poi decise per una risposta seria.
“Talvolta viaggiamo separati, se volessi prendere accordi con qualcuno per tendergli una trappola e ucciderlo potrei farlo. Non lo farei, ma comunque sono consapevole che potrei.”
Merildil annuì. Quella risposta le bastava.
“Io non dubito di te, Johel. Ho sempre scommesso che saresti tornato vivo.”
“Zia!” Sbottò, indignato. “Anche tu partecipi a queste bieche scommesse?”
Lei fece un cenno con la mano, teso a minimizzare la cosa. “Almeno io ho scommesso su di te. Freya nemmeno quello.”
Cosa?” La domanda gli uscì in uno squittio troppo acuto per i suoi gusti. Dannata marmocchia. Pensò, mentre sua zia ridacchiava. Ora vado in camera sua, la avvolgo nelle coperte mentre dorme e la lego come un cannolo calishita.

In quel momento, da sotto sentirono un rumore leggero di passi. Fisdril e Tazandil stavano tornando, e non volevano nascondere la loro presenza. Merildil andò incontro al marito, mentre Johel finì il suo calice di vino tutto d’un fiato. In vino veritas, e lui ora avrebbe avuto bisogno di un piccolo aiuto per parlare con suo padre.

           

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Capitolo 7
*** 1287 DR: La loro famiglia (Parte 2) ***


1287 DR: La loro famiglia (Parte 2)


“Johlariel, che bello vederti, ragazzo” lo salutò Fisdril, come gesto di benvenuto.
Johel rispose con altrettanto calore al saluto di suo zio. Era molto che non vedeva quell’elfo, per cui provava molto affetto e anche ammirazione.
“Johlariel.” Tazandil lo salutò riconoscendo la sua presenza, come al solito. Fissò il figlio come se non si capacitasse della sua presenza lì. “Cosa fai qui? Non avevi dei doveri a cui attendere?”
“Non preoccuparti, padre, ho chiesto ad alcuni compagni di sostituirmi e coprire i miei turni. Volevo parlarti.”
“Sarei tornato domani.”
“Volevo parlarti qui. A Myth Dyraalis. Dove posso parlare a mio padre, non al mio superiore.”
Tazandil rifletté un momento, poi annuì, comprendendo la differenza di cui Johel parlava. “Vai a casa allora. Devo finire un discorso con il nostro capoclan.”
Dal tono formale che aveva usato, il giovane ranger comprese che doveva trattarsi di un discorso che trattava gli interessi del clan, forse dell’intera foresta, non della famiglia.
“Va bene, allora a dopo. Zio Fisdril, zia Merildil, è stato un piacere rivedervi.”
Johel trovò gli appigli nel tronco con la sicurezza dell’esperienza, e si calò verso terra in poche abili mosse.

Dal momento che passava gran parte del suo tempo lontano dalla foresta, non si era mai curato di cercarsi un posto dove vivere, e quando tornava a Myth Dyraalis di solito era ospite dei suoi genitori. Si recò alla casa di sua madre, molto più vicina al centro della cittadina.
“Mamma? È permesso?” Domandò dal basso, prima di arrampicarsi sul tronco.
Sua madre sporse la testa da sopra una piattaforma prima ancora che lui avesse finito di parlare.
“Johel! Sapevo che saresti arrivato, anzi, sei giusto in tempo per il tè.” La bella dama dai capelli rossi, moglie di Tazandil e veggente della cittadina, gli sorrise con entusiasmo e gli fece un cenno con la mano. “Sali, caro, ho preparato i tuoi biscotti preferiti.”
Johel sorrise scuotendo la testa e si affrettò ad arrampicarsi sull'albero che ospitava la casa dei suoi genitori. Per la verità era soprattutto la casa di sua madre, Tazandil era spesso assente.
“Lo apprezzo molto, mamma, però non posso permettermi di ingrassare. Mio padre non approverebbe.” Lo disse in tono scherzoso, ma in realtà parte delle sue remore erano reali.
L’elfa lo fece accomodare dentro una delle stanze della casa sull’albero. “Tuo padre. Non è lui il motivo per cui sei qui?”
Johel arrossì leggermente, per l’imbarazzo.
“Non pensare che non mi faccia piacere vederti, mamma… ma sì, sono qui per parlargli.”
Lei si avvicinò ad un tavolino apparecchiato e prese in mano delicatamente una teiera di terracotta. “Va bene così, caro. Bevi il tuo infuso, Tazandil non sarà a casa prima di mezz’ora.” Versò un po’ di liquido bollente in una tazza e la porse a suo figlio.
Johel aveva smesso da anni di chiedersi come facesse sua madre a sapere queste cose. Prese la sua tazza e si sedette su una delle sedie.

Sorbirono il tè in silenzio, godendo della reciproca compagnia. Era una cosa che non succedeva più molto spesso.
“Sai come ci siamo conosciuti, io e tuo padre?” Gli domandò lei di punto in bianco, dopo alcuni minuti.
Johel puntò lo sguardo su di lei, manifestando la sua curiosità con un'occhiata e un segno di diniego.
“Tuo padre faceva parte di una delegazione, una missione diplomatica per riallacciare i rapporti fra la foresta di Sarenestar e la Wealdath, la mia terra natia. Il mio clan, come sai, si trova sulla penisola a occidente. Molto lontano da qui.” Johel capì che sua madre alludeva alla striscia di terra che si protendeva nel Mare delle Spade, la penisola del Collo del Drago. “A quel tempo entrambi i nostri clan erano in rapporti amichevoli con i clan della Wealdath orientale, ma il mio clan non aveva nessun contatto diretto con quello di Sarenestar, e viceversa. Era stato deciso di suggellare la nostra ritrovata amicizia con un matrimonio.”
Johel trattenne bruscamente il respiro e la sua tazza vacillò nelle sue mani.
“Un matrimonio combinato? Mamma, hai dovuto sposare papà?” Il giovane elfo sentì che le sue certezze si stavano sgretolando. Aveva sempre pensato che i suoi genitori si amassero, e perché avrebbe dovuto pensare altrimenti? I matrimoni combinati erano una cosa all'antica, un'usanza che apparteneva a un'altra epoca, almeno per gli elfi dei boschi. Probabilmente solo gli elfi del sole delle casate nobili mantenevano ancora questa tradizione.
“Non pensare che la cosa avesse un carattere di obbligatorietà, era stato solo caldamente incoraggiato… il mio matrimonio con tuo zio Fisdril.” Raccontò lei, con il tono più tranquillo del mondo.
Johel accolse la notizia con un silenzio sbalordito, e sua madre lo prese come un'esortazione a continuare il racconto.
“Tuo zio, all'epoca, era l'erede del capoclan. Ed era l'elfo più bello e affascinante che avessi mai visto. Quando cominciò il corteggiamento formale, però… qualcosa non andava. Il suo cuore era altrove, potevo sentirlo, e dentro di sé covava una immensa tristezza. Lui era troppo gentile e buono per farmelo notare, ma io ho un sesto senso per queste cose, e mi sono rifiutata di condurre un'intera vita accanto a qualcuno che avrei reso infelice… e che non mi avrebbe mai amata.”
“E quindi hai ripiegato su mio padre?” Disse Johel, accorgendosi troppo tardi che c'era una nota di biasimo nella sua voce.
“Non è stato un ripiego.” Negò l’elfa, con convinzione. “Fino a quel momento non ero stata presentata a nessun altro della loro delegazione, a parte Fisdril e suo padre. Quando conobbi Tazandil… scattò qualcosa. Lui era un giovane impacciato e di poche parole.”
“Posso capire che fosse di poche parole…” Johel si figurò nella mente come potesse essere il suo austero padre da giovane. “Ma impacciato?”
Sua madre sorrise, un sorrisetto furbo, come se conservasse un segreto.
“Impacciato con i sentimenti. Pensi che ora non lo sia?”
A questo il ranger non sapeva rispondere, ma rivisse con il pensiero la sua infanzia e adolescenza. Per anni era stato convinto di essere un peso ed una delusione per suo padre, perché non gli dava mai tante attenzioni come sua madre. Poi, quando era un ragazzo di circa trent'anni, una strana malattia magica aveva funestato la foresta, un parassita che viveva nel sangue di animali ed elfi, e nella linfa di alcune piante. Bastava un graffio per contrarre quel male, e gli incantesimi dei chierici erano solo un palliativo: si guariva col tempo, oppure si moriva. Johel si era ammalato ed era rimasto a letto delirante per molti giorni. Ricordava poco di quel periodo, ma era sicuro come il sole che suo padre fosse rimasto sempre al suo fianco.
Lo stesso padre che all'epoca non mi chiamava nemmeno per nome, finché non avessi sconfitto un nemico degno. In effetti, ha cominciato dopo che mi sono ripreso da quella piaga sconosciuta, che ne aveva uccisi molti altri. Ha detto che avevo la tempra e lo spirito di un guerriero.
È stato allora che ho capito che quella era la massima dimostrazione di affetto di cui fosse capace. Poteva stare al mio fianco giorno e notte per una settimana, fintanto che ero incosciente, ma non mi avrebbe mai detto che mi voleva bene.
“Sì, mamma, capisco cosa vuoi dire.” Ammise dopo un po’.
“Conoscendo tuo padre, ho capito che ero l'unica sposa che avrebbe avuto qualche speranza di comprenderlo ed amarlo. E soprattutto ho capito che se ci fossi riuscita, mi avrebbe amata più di qualunque altro marito potessi scegliere.” Johel si sporse sopra al tavolino e prese una mano di sua madre nella sua. “Questa era la vita che volevo, Johel. Ho visto felicità nel nostro futuro. Ho visto un figlio entro un decennio dalle nozze, ed un grande amore se ne fossi stata capace.”
A questa rivelazione, l'elfo sentì una vampata di commozione e di amore per quella donna.
“Non hai scelto solo mio padre. Hai scelto anche me. Rispetto agli altri figli che avresti potuto avere da altri elfi…”
“Non potevo vedere come saresti diventato, ma ho scelto un futuro con te. Ero convinta che la benedizione di un figlio fosse legata alla scelta giusta, la coronazione del vero amore.”
Johel sorrise debolmente. Non condivideva l'idea romantica di sua madre, molti bambini nascono anche laddove non c'è amore, ma non disse nulla.
“Alla fine hai avuto ragione? Su mio padre?”
Lei rispose solo con un sorriso. Guardandola negli occhi, Johel vide che era davvero soddisfatta della sua vita e felice in quel matrimonio.
In effetti non aveva idea di come fosse suo padre quando era da solo con lei, forse diventava una persona amabile e tenera.
Johel scosse le spalle, sopprimendo un brivido. No, questo era improbabile, ed era anche abbastanza inquietante.

Suo padre scelse proprio quel momento per arrivare a casa. Johel lo capì dal fatto che sua madre avesse iniziato a sparecchiare il tavolino.
Pochi secondi dopo in effetti Tazandil bussò contro il tronco per annunciare il suo arrivo e cominciò a scalare l'albero.


Altrove, qualche giorno prima

La luce di una candela rischiarava la stanza scavata nella roccia. L'elfo era grato per quella minima fonte di luce, anche se non aveva il permesso di alzare lo sguardo dal pavimento. Non se ne faceva nulla di quella vista, né della vista in generale, ma trovarsi nel buio completo era comunque più terrificante.
La luce era uno dei motivi per cui ringraziava la sorte quando il mago lo pretendeva per sé.
L'altro motivo era che il mago lo torturava molto meno degli altri.
Alcune volte si limitava a divertirsi un po’, e poi gli permetteva di dormire nel suo letto per alcune ore, mentre lui lavorava o studiava.
Quel giorno gli aveva ordinato di restare inginocchiato a terra. Il pavimento era solo roccia scavata ed era freddo, duro e freddo sotto le ginocchia di Filvendor. I suoi vestiti leggeri, lisi per il tempo e per l'uso, non erano una valida protezione contro quel gelo che saliva dalle viscere della terra.
Filvendor, disse a se stesso, caparbiamente. Il mio nome è Filvendor. Mia moglie, Visne. Mio figlio, Mavael. Il mio clan, Gysseghymn. Il mio nome è Filvendor.
Si ripeteva queste parole nella mente, concentrandosi solo su di esse, come se fossero uno scudo fra sé e la sua realtà. Quella vita era persa per sempre per lui, ma si rifiutava di dimenticare. Non poteva tradire sé stesso, anche se una parte di lui avrebbe voluto. Sarebbe stato così semplice lasciare che la sua mente si spezzasse e che lui diventasse, beatamente… nessuno. Soltanto lo schiavo senza nome. Pensare al passato, ricordare, era così doloroso. Non c'era speranza di ritorno. Ma quella era la sua identità, Filvendor era fiero di essere un elfo, non avrebbe permesso a nessuno di portargli via anche questo.
Non sapeva da quanto tempo fosse inginocchiato lì. Non sapeva nemmeno da quanto tempo fosse prigioniero. I giorni si confondevano nell'oscurità, i suoi pensieri si confondevano nel dolore, e a lui sembrava passato un decennio.
Filvendor. Mi chiamo Filvendor. Mia moglie… mia moglie… Visne. Mio figlio, Mavael.
Gli stivaletti del mago entrarono nel suo campo visivo, ma l'elfo non vi fece caso. Non aveva nemmeno sentito i suoi passi.
Il mio clan…
Il mago lo scosse toccandolo sulla spalla con un piede e dandogli una leggera spinta. Ora l'elfo fu costretto a prendere atto della sua presenza.
“Elfo.” Lo chiamò il mago, usando la lingua comune. La parola gli era uscita di bocca come un insulto, ma a Filvendor piaceva che qualcuno lo chiamasse elfo. Per gli altri era solo schiavo o immondizia.
Il mago era sempre il più gentile fra loro, ma Filvendor non era così stupido da aspettarsi qualcosa da lui. Non più.
Non alzò lo sguardo. Il mago lo aveva chiamato, ma non gli aveva dato il permesso di guardarlo. Rispose nell'unico modo possibile.
Veldruk”. Mormorò, avvicinando di più la fronte al pavimento. Era la prima parola che aveva imparato. Padrone.
“Non hai più intenzione di chiedermi di aiutarti a fuggire?” Lo motteggiò, poggiandogli un piede sulla testa. La pressione aumentò gradualmente, finché Filvendor non si ritrovò con la fronte schiacciata contro la roccia. Il suo corpo indebolito dalle torture e dalla fame ebbe un singolo sussulto, un singhiozzo, ma l'elfo dei boschi si rifiutò di piangere.
“No, veldruk.”
Il drow allontanò il piede dalla sua testa, e dal suo tono Filvendor capì che stava sorridendo.
“Bene. Penso che questo schiavo abbia imparato la lezione. Puoi andare a dormire.” Gli disse, indicando il letto in fondo alla stanza con un ampio gesto della mano. “Non fare rumore e non disturbarmi mentre lavoro.”
Filvendor alzò timidamente il capo e si girò a guardare il letto. Nessun altro dei suoi padroni gli concedeva di dormire su un materasso vero, al riparo dal freddo della roccia. Erano settimane che non dormiva davvero bene.
Circa due mesi prima aveva raccolto il coraggio e aveva supplicato il mago di lasciarlo andare. Era l'unico, l'unico che forse avrebbe vagamente preso in considerazione l'idea. Il mago aveva finto di pensarci, poi qualche giorno dopo gli aveva detto che l'avrebbe aiutato. Aveva organizzato la sua fuga nei minimi dettagli, era un piano così pericoloso e imperfetto che Filvendor ci aveva creduto. Per due giorni lui ed il suo improbabile alleato avevano proceduto nei cunicoli, quasi alla cieca, seminando inesistenti inseguitori.
I drow lo avevano ripreso a pochi metri dalla Superficie. Lo avevano catturato perché ovviamente se lo aspettavano e l'intera fuga era stata una messinscena, un nuovo modo per divertirsi alle sue spalle.
Filvendor ricordava con estrema chiarezza le risate del mago. Dopo che gli altri l'avevano legato e picchiato, si era fatto avanti per schiaffeggiarlo e chiamarlo folle. Aveva preteso una sorta di ricompensa per quei due giorni passati a fargli da balia, ad assecondare i suoi sciocchi vaneggiamenti, e poi l'aveva lasciato agli altri. Per settimane, senza mai reclamarlo per sé.
I pensieri di Filvendor si focalizzarono di nuovo sul presente. Il permesso di dormire in un letto vero. Se avesse avuto un po’ più di orgoglio, avrebbe rifiutato. Avrebbe disobbedito. Avrebbe dormito comunque per terra. Odiava questo drow per la sua gentilezza, odiava che gli avesse dato false speranze. Ma il suo orgoglio se n'era andato da tempo, schiacciato dall'istinto di sopravvivenza, e Filvendor desiderava una tregua dal freddo più di qualunque altra cosa.
Andò verso il letto, si tolse i vestiti e li mise da parte con cura, erano gli unici che aveva.
C'era una bacinella di acqua fredda vicino al letto, ed una fiaschetta con un liquido azzurro.
L'elfo conosceva bene quel rituale, il mago voleva che lui fosse pulito e che non avesse ferite aperte quando entrava nel suo letto. Bevve la pozione, una blanda miscela curativa, e si lavò con l'acqua fredda. Quando ebbe finito si asciugò con un telo e si nascose sotto le coperte, dando le spalle al mago che studiava sui suoi libri. Avrebbe dormito qualche ora. Poi… la gentilezza del mago non era mai gratuita.

Jevan seguì con la coda dell'occhio i movimenti dell'elfo, per assicurarsi che non tentasse nulla di strano.
Maledetto darthiiri. Imprecò fra sé.
Il mago era estremamente irritato con l'elfo per quel tentativo di fuga, non per il tentativo in sé (qualunque prigioniero aveva il diritto di provarci, e di fallire), ma per aver pensato che lui potesse aiutarlo.
Quando mai ti ho dato l'impressione che avrei tradito i miei compagni per te, stupida feccia?
La richiesta dell'elfo lo aveva messo in difficoltà con i suoi compagni. Il loro prete, Zeerith, l'aveva saputo subito. Per qualche motivo Zeerith sapeva subito tutto quello che succedeva nel loro gruppetto. Evidentemente godeva del massimo favore di Vhaeraun, il loro Dio.
Jevan aveva dovuto rispondere a domande scomode e aveva proposto di organizzare quella finta fuga, per divertirsi alle spalle dell'elfo e dimostrare a tutti i suoi compagni dov'era riposta la sua lealtà. Sapeva che gli altri drow avevano avuto dubbi sul suo conto fino al momento in cui aveva spinto l'elfo nella loro trappola.
In seguito l'aveva lasciato a loro per molti giorni, per rimarcare il fatto che non glie ne importasse nulla.
E in effetti non glie ne importava nulla. Filvendor non era niente per lui. Non avrebbe mosso un mignolo in suo favore, semplicemente Jevan non apprezzava la tortura. Gli sembrava una cosa stupida essere fuggito dal soffocante culto di Lolth, dal destino di miseria e dolore che toccava a tutti i maschi, solo per riproporre quella miseria e quel dolore sulla pelle di qualcun altro. Era una cosa illogica che non spezzava il circolo vizioso in cui erano nati, e Jevan era troppo intelligente per non vederlo.
Non mi piace che ci comportiamo esattamente come le sacerdotesse di Lolth. Pensò fra sé e sé. Nella società drow i maschi subiscono le angherie delle femmine e poi si sfogano su chi ha meno potere di loro solo per trovare un momentaneo, illusorio conforto. Ma qui non abbiamo nessuno che ci schiaccia, non c'è motivo di comportarsi così. Me ne sono andato perché quello squilibrio di potere non mi sembrava giusto, perché ci trasformava tutti in un branco di idioti, non perché ahimè avrei voluto nascere femmina e non è stato così.
Ogni tanto Jevan si chiedeva se avrebbe preso coscienza di quello squilibrio di potere anche se fosse nato femmina, ma non aveva risposta a questo.
Ad ogni modo faccio parte di un culto minore, una comunità minacciata da chiunque, non esiste che io entri in contrasto con i miei stessi compagni. Non per un maledetto darthiiri.
Avrebbe dovuto capirlo.
Non approvo le torture ma non andrò certo a proibirle ai miei compagni. Quel poco che facevo per lui ora non lo posso più fare.
Jevan aprì un bauletto accanto alla sua scrivania, con una certa reticenza.
Conteneva una frusta. Zeerith era stato piuttosto chiaro in merito. Jevan aveva commesso un errore permettendo a quell'elfo di sperare, e distruggere i suoi sogni non era stato abbastanza. Se volevano che prima o poi capitolasse, che parlasse dei segreti della sua foresta, non doveva avere nessuna oasi di pace. Nessun angolo dove proteggere la sua sanità mentale.

           

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Capitolo 8
*** 1287 DR: La loro famiglia (Parte 3) ***


1287 DR: La loro famiglia (Parte 3)


Johel considerò per un momento il mezzo biscotto che aveva ancora in mano e poi prese una decisione improvvisa e sovversiva: se lo cacciò tutto in bocca, masticando velocemente. Quando suo padre entrò nella stanza, ogni prova del misfatto era sparita.
“Non voglio che tu pensi che ti sto evitando.” Cominciò Tazandil, varcando la soglia. Dritto al punto, come sempre. “Quindi, sei qui per parlare. Parliamo.”
Johel annuì seccamente. Per tutto il viaggio aveva pensato a cosa dire e sapeva che suo padre non apprezzava le esitazioni.
“Vi lascio soli.” Annunciò sua madre, e nell’uscire sfiorò la mano di Tazandil con la sua. Per un momento, a Johel sembrò che suo padre ricambiasse il gesto, ma forse era solo un’impressione.
“Padre, sbaglio a supporre che la tua visita a Myth Dyraalis sia legata alla tua decisione di accettare Daren nella foresta?”
“Non sta a me accettarlo nella foresta.” Lo corresse Tazandil. “Io posso esprimermi solo per i territori che sono affidati alla mia supervisione. Ma hai ragione, sono venuto qui per spiegare la mia decisione e proporre che questo permesso venga esteso all’intera Sarenestar.”
Johel non sapeva che pensare di questo, quindi espresse ad alta voce i suoi dubbi. “Sono sorpreso, padre. Non hai mai speso una parola in suo favore.”
“Tu invece ne hai spese, e molte.” Borbottò l’elfo più anziano, in tono di rimprovero. “Ma ieri si è presentata l’occasione di metterlo alla prova e si è comportato bene. Non voglio dire in modo esemplare, è stato ben poco amichevole, ma nei fatti si è comportato bene.”
“Quindi ora mi credi perché l’hai visto con i tuoi occhi? Che ne è delle tue obiezioni sul fatto che i drow sono maestri nell’inganno?”
“Non si può ingannare un sacerdote.” Fu l’aspra risposta.
Johel impallidì, sentendo il sangue che defluiva verso i piedi.
“Lo hai fatto divinare?”
“Era un nostro diritto. Questa è casa nostra.”
“Oh. Oh. Non l’avrà presa bene…” Mormorò il giovane ranger, nascondendo il viso in una mano.
“Non è affar mio come prende certe cose. Era un nostro diritto, i drow sono nemici del nostro popolo. Quello che mi sorprende, Johlariel, è che tu avessi ragione sul suo conto.”
“Perché l’unico modo per capire le persone è sottoporle a indagini magiche?” Più che una domanda era un’affermazione, carica di sarcasmo. “Hai sempre pensato che Daren volesse ingannarmi, ma sono stato io a insistere perché diventassimo amici, non lui. Hai visto come si comporta: non è mai stato gentile o accattivante. Gli riesce più facile collezionare nemici, che amici.”
“In un certo senso è un bene, rende più improbabile che sia un falso amico, ma anche questo avrebbe potuto essere un complicato inganno.”
Johel sospirò, sapendo che quello che stava per dire non sarebbe piaciuto a Tazandil. “Padre, i drow crescono in una cultura molto diversa dalla nostra. È probabile che gestiscano le emozioni in modo completamente diverso, per questo giudico improbabile un doppio inganno come lo stai immaginando tu. Un drow non dovrebbe sapere come noi elfi esprimiamo le nostre emozioni e come manipolarci in tal senso. E poi, so riconoscere una persona che pone deliberatamente una barricata davanti ai suoi sentimenti. So riconoscere un gesto premuroso anche dietro una facciata di indifferenza. Ho dovuto imparare… crescendo con un padre che si comporta nello stesso modo.”
Questa affermazione azzardata fu accolta da un prevedibile, gelido silenzio. “Quindi secondo la tua opinione tuo padre si comporta come un drow.”
Johel riconobbe il tentativo di deviare il discorso con una falsa equivalenza per farlo sentire in colpa, e si rifiutò di fare un passo indietro.
“Per quanto ne so, i drow cancellano completamente i loro sentimenti positivi. Io sto parlando solo di una difficoltà ad esprimerli. Padre… non sei una persona che si esprime molto. Ho dovuto imparare a leggerti fra le righe, e sì, questo mi è stato utile quando Daren ha iniziato a fare cose che non mi spiegavo. Quando agli inizi viaggiavamo insieme perché gli serviva una guida, ma non si fidava abbastanza di me da lasciarmi maneggiare un’arma, dopo un po’ mi sono reso conto che non solo non mi voleva fare del male... ma in caso di necessità mi aveva anche protetto. All’inizio pensavo fosse solo perché gli servivo, ma quella motivazione poteva reggere solo fino ad un certo punto. Con il tempo ho capito come ragiona. In molte cose siete diversi, lui non è una persona disciplinata e non sempre usa il suo buonsenso, ma nei fatti è un tipo pragmatico che guarda al bene superiore. Come te, quando arrivi a farti odiare dalle tue reclute perché pensi che insegnare loro a sopravvivere sia più importante di essere amato.”
“Non ho mai pensato che questo avrebbe potuto disturbarti, in quanto mio figlio.” Borbottò Tazandil, in tono difensivo. Forse non erano delle scuse, ma Johel sapeva che una presa di coscienza della situazione era il massimo che avrebbe avuto da suo padre. “Io ti ho trattato come tutti gli altri, perché dovevo. Non sarebbe stato equo altrimenti, e non ti avrei fatto un favore se fossi stato molle nell’addestrarti.”
“Lo so. L’ho capito molto tempo fa.” Riconobbe Johel. “Ma tu sei mio padre, quindi io dovevo amarti per forza. O almeno tentare. Per questo ho imparato a capirti e a riconoscere i segni del fatto che tu ci tenevi; a me, al nostro clan, alla nostra foresta. E sapevo a che tipo di addestramento sarei andato incontro, quando ho scelto di diventare un ranger.”
“Lo hai scelto?” Per la prima volta, Johel vide qualcosa di simile al dispiacere negli occhi di suo padre. “Non lo hai fatto solo nel tentativo di compiacermi?”
Johel rifletté un momento su come rispondere.
“Ho sentito che mia cugina Freya sta attraversando l’adolescenza.” Commentò, prendendo il discorso alla lontana.
Tazandil corrugò la fronte, senza capire. “Sì, e allora?”
“E allora, è un’età di ribellione. Un’età in cui si fanno cose… a volte folli… per dimostrare che si è adulti, che si è capaci di prendere le proprie decisioni. Tu sei convinto che io non abbia mai attraversato una simile fase.” Un’affermazione, non una domanda.
“Sei sempre stato un ragazzo assennato.” Confermò Tazandil. “Forse ho sbagliato. Forse sono stato troppo repressivo con te, ti ho caricato delle mie aspettative, invece avrei dovuto lasciarti tentare e fare sciocchezze.”
“Non crucciarti, padre, l’ho fatto. Ho avuto il mio moto di ribellione. Ricordo perfettamente che un giorno mi stavi dicendo quanto fossi inetto e inadeguato e che non sarei mai diventato un bravo ranger con quell’atteggiamento. Io non avevo mai detto di voler fare il ranger, ma tu l’avevi dato per scontato… e avevi ragione. Ero cresciuto nel mito dei grandi ranger della nostra foresta, per me era come la figura dell’eroe, ma quel rimprovero mi ha mortificato. Ma anziché farmi sentire debole, come al solito, mi ha fatto arrabbiare. Era l’adolescenza, probabilmente. In quel momento ho realizzato con grande lucidità cosa volessi fare nella vita. Volevo diventare un grande ranger. Ma non perché lo volevi tu. Questo è stato un immenso gesto di ribellione da parte mia… scegliere il mio futuro perché lo volevo io.”
Tazandil rimase senza parole davanti a questa confessione.
“È… una decisione molto matura per un adolescente. Sono fiero di te, figlio mio.”
Johel rispose con un sorriso ironico.
“Nel mio fervore adolescenziale, questo non doveva avere alcuna importanza. Ma ora che sono adulto, ora che so che non dipendo da questo, mi fa comunque piacere sentirlo, padre.” Esitò un momento, poi aggiunse: “Io sono fiero di te per aver saputo vedere oltre i tuoi pregiudizi sul mio amico.”
“La mia giusta prudenza, vuoi dire.”
“È la stessa cosa che dice lui.” Replicò Johel, ripensando alle parole di Daren di qualche giorno prima.
L’espressione di suo padre rivelò un’ombra di fastidio, poi tornò impassibile come sempre.
“Tuo zio Fisdril ha accettato di estendere il permesso a muoversi liberamente in tutto il territorio del clan Arnavel. Gli altri due clan non si sono espressi, quindi rimane valida la regola che applichiamo a qualsiasi estraneo: può transitare, se accompagnato da un elfo di Sarenestar. Le sue azioni future potrebbero modificare il modo in cui la foresta lo accoglierà.”
Johel annuì, accettando quelle decisioni. Era meglio di quanto avesse sperato.
“Certamente. Grazie per quello che hai fatto, padre.”
Tazandil si voltò per andarsene, probabilmente per tornare da sua moglie. Poi però ci ripensò e si trattenne per dare a suo figlio un ultimo avvertimento.
“Intendo sia in meglio che in peggio, Johlariel.”
Questo era implicito. Pensò il giovane fra sé e sé. Non sono un folle che vive di pie illusioni, padre.

Tazandil si arrampicò fino all'ultimo ramo occupato da una piccola, accogliente costruzione in legno. Era la camera da letto che condivideva con la moglie, almeno quando era a casa.
Quando entrò, la scoprì seduta sul letto, impegnata in un’occupazione che lui non aveva mai compreso fino in fondo, e che un po’ lo inquietava: stava leggendo le sue carte divinatorie.
Non la chiamò, non voleva rompere la sua concentrazione (poteva essere pericoloso), ma si avvicinò e con tutta calma si sedette al suo fianco.
Aveva dispiegato un telo che usava apposta per la divinazione, per fare in modo che le preziose carte non toccassero oggetti di uso comune. Le belle lame, dipinte con figure aggraziate e splendide, erano disposte in uno schema più o meno circolare. C'erano tre carte in centro, circondate da un largo cerchio di altre diciotto carte. Intorno ad esso c'era una specie di altro cerchio più esterno, ma interrotto all'estremità superiore e a quella inferiore.
Tazandil rimase accanto a sua moglie mentre lei guardava quelle figure. Alla fine lei scosse la testa e si concesse un sospiro che sembrava di frustrazione.
“Accidenti.” Mormorò, massaggiandosi il viso.
Quando Tazandil poggiò delicatamente le mani sulle sue spalle, lei sobbalzò.
“Tazandil! Non mi ero accorta… quando sei arrivato?”
“Appena qualche minuto fa. Non volevo disturbarti, Hinistel. Sembravi in una specie di trance.”
“Ero solo profondamente concentrata. Ma ho fatto tutto per niente, temo. Questa lettura non ha alcun senso.”
“Che cosa cercavi di vedere? Non ti ho mai vista disporre le carte in questo schema.” Lasciò correre lo sguardo sulle figure, notando subito qualcosa di strano. “È normale che alcuni simboli compaiano diverse volte, uguali?”
“Sì, quello può succedere.” L'elfa dissipò i dubbi del marito, agitando distrattamente una mano. “Le carte sono bianche, all'inizio. I disegni si formano quando le dispongo nel giusto ordine. Se è necessario, a volte più carte assumono lo stesso aspetto. Quello che è strano è il loro significato. Stavo cercando di capire qualcosa in più sul drow amico di nostro figlio.”
“Non ti fidi del responso dei chierici?”
La dama si strinse nelle spalle, come per scusarsi. “Non è questo, ma non sempre le conseguenze di una scelta sono legate alle intenzioni delle persone. Quel drow può anche essere benintenzionato, ma se avesse dei nemici potenti e trascinasse la loro ira sulla nostra foresta?”
“È questo che temi?”
“Questa è solo un'ipotesi. Una delle tante. È vero che in questi anni non è successo nulla di male a Johel, ma… ora si tratta di tutti noi. Anche di persone che non possono difendersi.”
“Se questa preoccupazione non ti dà pace, hai fatto bene a chiedere alle carte.” Riconobbe Tazandil. Era un elfo saggio, a modo suo, e non ci teneva a vivere accanto a una moglie in preda all'ansia.
“Sì, ma l'unica cosa che ho capito è che non dovrei divinare quando sono stanca.” Sbuffò lei, guardando storto le carte. “Insomma, niente di tutto questo ha un senso. Guarda le tre carte centrali, dovrebbero definire a grandi linee la persona che è oggetto della lettura. Il Ladro, la Luna e il Sole. Se dovessi spiegarti perché non ha senso, non saprei da che parte cominciare.”
Tazandil cominciò a massaggiare con calma le spalle della moglie. “Quel ladro non mi sembra una carta positiva.” Tentò, partendo dall'unica delle tre carte che rappresentasse una figura umanoide.
“È una carta ambigua.” L'elfa non si sbilanciò. “Spesso è una carta negativa, ma dipende dal contesto. Simboleggia una persona che traffica nell'ombra, una persona fra la luce e le tenebre, un ingannatore, una spia, o un ladro vero e proprio. Le carte che ha intorno, però… la Luna e il Sole, sono sempre carte positive. Immagino che si possa essere anche un imbroglione a fin di bene.”
“E perché sarebbe insensato? Ha molto senso per me, visto che è un drow.”
“Il Sole e la Luna non compaiono mai insieme.” Spiegò lei. “Rappresentano due diverse scelte di vita, entrambe volte al bene, ma è difficilissimo che qualcuno le segua entrambe. Sarebbe come servire due padroni. O due ideali, che coincidono solo fino ad un certo punto. Prima o poi si deve fare una scelta.”
“Hai visto anche questa scelta, nelle carte?”
Lei indicò le lame disposte a cerchio intorno alle prime tre. “Ho visto tante cose, ma poco sensate. Le carte a sinistra rappresentano le azioni che la persona subisce nel corso della sua vita. Quelle a destra, rappresentano le azioni che compie volontariamente. Passivo e attivo, ricettivo e proiettivo, capisci?”
Tazandil scrollò le spalle e abbracciò la moglie da dietro, lasciando che lei si appoggiasse a lui. “Hinistel, sei tu la veggente. La tua spiegazione è comprensibile, ma ne parli con qualcuno che non capisce queste faccende esoteriche.”
“Bè, comunque sia, qui le carte stanno dicendo… insomma, nessuno nasce tre volte e muore cinque volte.” Sbottò, in preda alla frustrazione. “Se non sapessi che è impossibile, direi che si è premunito contro questo tipo di divinazione.”
“Mi sembra che non ci siamo con la matematica.” Il ranger le diede ragione, per quel che riusciva a capire. “Non è che le carte ti stanno mostrando vite passate o future? Alcune persone credono nella reincarnazione.”
“No, questo schema parla esplicitamente del corso di una singola vita. E poi, guarda quante volte compare la Luna in questa lettura. Compare al centro, è coinvolta in una delle sue morti, ed è anche la causa dell'unico amore della sua vita. Penso che rappresenti la sua Dea. Le persone molto religiose di solito non si reincarnano.”
“Ma compare sempre sul lato sinistro. Il sole compare sul lato destro.”
“No, guarda, qui… la Luna compare una volta anche a destra. Sai, sul lato sinistro, le carte esterne, quelle del secondo cerchio, indicano le cause degli eventi che capitano al soggetto. Sul lato destro, le carte esterne indicano le conseguenze delle azioni volontarie. Sul lato destro c'è un fante, con una spada in mano. Un fante è un guerriero che si sposta per il mondo, ma non è una figura importante come un cavaliere, è un semplice esecutore, un servitore. Accanto al fante c'è il Sole, significa che viaggerà nel mondo portando conseguenze positive. Ma sul lato destro c'è anche un ladro capovolto; siccome il ladro è lui, ed una carta capovolta indica la morte, ed è sul lato delle azioni consapevoli… si tratta di un suicidio, e non indiretto, un vero suicidio compiuto di proposito. E la conseguenza di questo suicidio è di nuovo la Luna. È un servo del Sole, ma la sua vita è dedicata alla Luna.”
“E nasce tre volte e muore cinque volte.” Le ricordò Tazandil, abbastanza perplesso. “Sai almeno che cosa lo uccide?”
“Sì, sempre che la divinazione sia esatta.” L'elfa si lanciò nella sua interpretazione. “Una volta è suicidio, per la Luna, non so come mai ma dovrà trattarsi di una cosa importante. Ma quel suicidio è connesso a una delle nascite, quindi forse tornerà in vita. Le altre volte, subisce la morte a causa di… la Guerra, l'Inganno, la Caccia e l'Orgoglio. Non necessariamente in quest'ordine.”
“La Guerra? Sai se avverrà qui?”
Hinistel girò un'altra carta e la posò sopra a quella della Guerra. Sul prezioso foglio bianco si tratteggiò un disegno, come per opera di un pennello invisibile. Era un disegno molto verde. Tazandil trattenne il fiato quando riconobbe la veduta di una foresta.
“No.” Negò sua moglie, con suo immenso sollievo. “Accadrà in una foresta, ma se fosse stato qui sarebbe apparsa la Casa.”
Il ranger lasciò andare il sospiro che aveva trattenuto.
“Le due carte ai poli? Questa in alto con una maschera, e quella in basso con quel fantasma inquietante? Perché non hanno alcuna carta più esterna?”
“Rappresentano solo il modo in cui una persona reagisce alle cose che le succedono. In modo conscio, come indicato dalla carta in alto, e in modo inconscio, secondo quanto detto dalla carta in basso. Qui la maschera indica che lui finge di reagire sulla spinta del ragionamento logico, o forse ci crede perfino, ma in realtà non è così. Il fantasma indica problemi irrisolti, attaccamento morboso a qualcosa, e le catene che ha ai polsi e alle caviglie simboleggiano qualcosa che lo trattiene dal crescere: può essere anche un ricatto, o senso del dovere, o anche senso di colpa. Non è una buona carta, tantomeno in quella posizione. Ma non indica una persona necessariamente malvagia o pericolosa.”
“Una persona che non ha il pieno controllo delle sue emozioni, ma pensa di averlo, è pericolosa.” Obiettò Tazandil. “Non è affatto pragmatico come crede Johlariel.”
“Amore, tu sei pragmatico e hai comunque delle profondità che non vuoi affrontare. Tutti abbiamo qualcosa che nascondiamo anche a noi stessi.”
“Sciocchezze. L'unica cosa profonda che ho è la mia faretra.” Poi si forzò a chiedere quella cosa che voleva e non voleva sapere. “Hai visto anche Johlariel in mezzo a tutto questo?”
“Credo di sì. Ho visto una carta che rappresenta un forte legame di amicizia o di parentela, e una delle figure sulla carta assomigliava molto a nostro figlio. Ma era sul lato sinistro, e la sua causa scatenante era la Ruota della Fortuna. In pratica non diceva nulla di utile. Solo cose che sappiamo già.”
“Cioè la loro amicizia è dovuta al caso?”
“Pochissimi incontri non sono dovuti al caso, o alla fortuna, mio caro.” Sentenziò lei, cominciando a raccogliere le carte. “Pensare altrimenti è solo un vezzo della nostra vanità.”
“Se tutto è dovuto al caso, cosa ti mostrano le carte? Come possono funzionare?”
Lei finì di raccogliere tutte le lame e gli sorrise, apprezzando quell'obiezione intelligente. “Tutto ciò che accade ha cause e conseguenze. Il generico corso della vita è deciso dalle nostre azioni e da quelle di chi vive intorno a noi. Il caso può farci deviare, anche molto, dal corso delle nostre vite. Pensa a questo: un giovane elfo nasce in una famiglia di rinomati ranger, decide di diventarlo a sua volta, prevedibile, non credi? E potendo contare sul miglior addestramento, diventerà molto bravo nel suo lavoro. Ma quel giovane elfo può rimanere coinvolto in una grande battaglia, immagina, frecce che volano da tutte le parti… è il caso, o la fortuna, a stabilire se sarà colpito. Il giovane può morire, e questo metterà fine alla sua storia che sembrava già scritta. Oppure può vivere. Le Carte mi dicono cosa succederà, secondo i moti delle cause e conseguenze, se il caso non ci metterà lo zampino.”
La spiegazione fu accolta da un lungo silenzio.
“Questo per me è un discorso terribile.” Ammise infine Tazandil.
“Lo so. Perdonami, amore, ma tu me l'hai chiesto.”


Altrove, qualche ora prima.

“Daren, ehi. Hai finito le tue flessioni?”
“Per oggi”. Spiegò sbrigativamente, ancora con il respiro pesante. “Ciao, Raerlan.”
Raerlan gli sorrise come se fosse davvero felice di vederlo e si sedette al suo fianco. Daren non era certo di capire l’entusiastica amicizia di Raerlan, ma forse dipendeva dal fatto che fosse anche lui un ospite a Sarenestar. Era un alicorn, una creatura nata dall'amore proibito fra un elfo ed un unicorno, e la sua eredità traspariva dal tozzo accenno di corno che aveva sulla fronte. A volte lo nascondeva indossando uno strano cappello. Gli elfi di Sarenestar lo avevano accettato ed accolto, ma erano ancora molti quelli che lo guardavano con distacco. Gli alicorn di solito non erano bene accetti fra gli elfi. La sua stessa presenza lì testimoniava che gli elfi di Sarenestar dopotutto guardavano più al valore personale che alla razza. Daren non sapeva come avesse fatto Raerlan a meritarsi di vivere lì, ma non era un ficcanaso e non glielo avrebbe chiesto esplicitamente.
“Lo hai fatto apposta.” Disse invece. Non era una domanda.
“Che cosa?”
“Quel bambino. Ha detto che era un tuo amico. Lo hai mandato per tendermi una trappola!”
“Una trappola? È così che chiami il fatto che ora sei qui?”
“Sì, visto che mi hai manipolato.”
L’alicorn semplicemente si strinse nelle spalle. “Se non vuoi essere manipolato, prova a cominciare a fregartene del benessere altrui.”
Daren sbottò in una breve risata, riconoscendo l’ironia di quel commento.
“Grazie. Mi serviva proprio che un elfo chiaro mi insegnasse a fregarmene degli altri. Non sono mai stato capace.” Rispose con finta sincerità, stando al gioco.
Il sorriso di Raerlan però si spense lentamente, come se ci fosse qualche pensiero che oscurava il suo solito buonumore.
“Adesso ti arrabbierai ancora di più. Non ti ho trascinato nella foresta con l’inganno solo per godere della tua compagnia, o per darti l’occasione di dimostrare le tue buone intenzioni.”
“Non ti ho mai chiesto questa opportunità comunque. Quindi dimmi, creatura fastidiosa, per quale motivo mi trovo qui?”
Raerlan esitò ancora un momento. Era a disagio, o forse voleva lasciarlo credere.
“Vieni al mio accampamento. Ho cucinato qualcosa, sarai affamato. Lì potremo parlare in pace e godendo di una certa riservatezza.”
Questa proposta senza dubbio solleticò la curiosità del drow, oltre a ricordargli che effettivamente non mangiava nulla da quella mattina. Che cosa poteva volere da lui Raerlan? Era soltanto uno dei ranger, non aveva alcun potere decisionale, eppure aveva dei segreti che nascondeva ai suoi compagni?

Per quella sera Daren rimase ospite nell’accampamento di Raerlan, e in questo modo scoprì due cose: la prima, che il piccolo Mavael effettivamente viveva con lui. La seconda, che Raerlan era un cuoco incredibilmente poco dotato.
“Che cosa c’era, esattamente, in questo stufato?” Domandò il drow, rimestando il contenuto della sua ciotola con il cucchiaio, con aria dubbiosa.
“Perché? Non è buono? Mi dispiace, non sono molto bravo…”
“No, è che… non si riconoscono gli ingredienti e non sa quasi di nulla. Be', non è che non ci sia di peggio… ma come fai ad occuparti di questo ragazzino se nemmeno sai cucinare?”
Raerlan sorrise a mo’ di scuse, e Mavael ammise tranquillamente che lui non la mangiava mica, la roba cucinata da Raerlan.
C’era qualcosa di strano in tutta la faccenda, Daren avrebbe dovuto chiedersi come mai un ragazzino vivesse con i ranger anziché al sicuro a Myth Dyraalis, ma non lo fece. In qualche modo, la sua mente non riusciva a formulare quel pensiero, e lui non se ne accorgeva nemmeno.
“Allora, adesso ti degni di dirmi perché sono qui?” Domandò, dopo aver finito di mangiare la strana poltiglia. Dopotutto la fame è il miglior condimento.
“È colpa mia.” S’intromise Mavael, parlando tutto d’un fiato. “Sono io che ho bisogno del tuo aiuto.”
Daren lo fissò sbalordito per un momento. Di cosa poteva avere bisogno, un bambino? Doveva forse spostarsi in un’altra zona della foresta e aveva bisogno di protezione? E in quel caso, non sarebbe bastato Raerlan?
Poi l’intelligente drow ricordò una cosa che Mavael aveva detto il giorno prima: Mia mamma è morta. Mio padre è in missione.
“Ha qualcosa a che fare con la missione di tuo padre?”
“Come fai a saperlo?” Chiese Mavael, a bocca aperta per lo stupore.
“Non lo so, ma sono un guerriero, è l’unica mia utilità. Perché mai un bambino dovrebbe aver bisogno di un guerriero?”
“Mio papà è scomparso. Circa un anno fa. Stava indagando su… una possibile infiltrazione drow.”
Poche parole, ma cambiarono completamente la prospettiva di Daren sulla vicenda. S’irrigidì, come un gatto davanti al pericolo.
“Mi dispiace. Se hai paura lo capisco. Tu non mi devi nulla.” Mormorò Mavael.
“Non ho paura.” Negò Daren, per allontanare i suoi dubbi. “Ma è una cosa molto pericolosa, per tuo padre e forse per tutti. Vuoi dire che ci sono dei drow nella foresta di Sarenestar? Oltre a me, intendo?”
Il bambino annuì, con aria greve. “Sono sotto la foresta. Mio padre mi ha detto dove avrebbe cercato. Ma è scomparso, gli altri ranger del clan lo hanno cercato ma senza successo, e l’hanno dato per morto.”
“Loro sapevano dei sospetti di tuo padre sulla presenza di drow?”
Mavael scosse la testa. “Lui non glielo ha detto e nemmeno io, là sotto potrebbe essere un labirinto, potrebbero morire tutti. Per gli elfi è molto difficile combattere i drow nei loro cunicoli.”
“Non devi giustificarti, hai ragione, le perdite sarebbero eccessive.” Avrebbe dovuto chiedersi come facesse un bambino piccolo ad essere così consapevole, ma non riuscì a fare nemmeno questo. Le parole di Mavael gli sembravano troppo sincere e coerenti per fargli nascere dei dubbi. “Io sono un drow, conosco il modo di agire dei miei simili e so muovermi nei cunicoli. Se qualcuno ha una possibilità di farcela, sono io. Ma non pensi che Tazandil e gli altri elfi dovrebbero almeno saperlo?”
Mavael s’irrigidì, il suo volto venne attraversato da un’espressione di allarme. “Ho paura di come ragiona il vecchio ranger. Lui è uno che vuole la guerra. Se i drow sapranno di essere stati scoperti, uccideranno il mio papà.”
“Come… come sai…” Daren non sapeva come porre la domanda, non c’era un modo delicato per farlo. “Come sai che tuo padre è ancora vivo?”
“Si chiama Filvendor. E io so che è ancora vivo. Lo sento. Lo so e basta.”
Daren sospirò, pensando che quella sicurezza derivasse solo dall’affetto di un figlio per il padre. Non era sicuramente una certezza. Ma anche se il povero Filvendor fosse stato già ucciso, Daren era comunque preoccupato per quella possibile infiltrazione drow nella foresta del suo migliore amico. Doveva indagare, vedere se fossero davvero lì, e in quel caso, chi fossero e perché proprio sotto Sarenestar. A meno che non fossero altri seguaci di Eilistraee, come lui, i drow rappresentavano un pericolo per gli elfi; e se fossero stati seguaci di Eilistraee, il ranger non sarebbe scomparso.
“Andrò a cercare tuo padre, Mavael. Devo solo recuperare le mie armi.”
“Posso farlo io.” Gli venne incontro Raerlan, volenteroso.
“Domattina possiamo partire e ti indicherò dove è scomparso papà.” Propose Mavael. “Quel luogo si trova a circa un giorno di cammino da qui, nel territorio del clan Gysseghymn.”
“Un giorno? Come giustificherò il fatto di recarmi nel territorio di un altro clan? Non ho il permesso. Sarà forse il caso di partire di notte e arrivare lì di nascosto? Raerlan, cosa ne dici?”
“Dico che apprezzo il tuo modo di fare così furtivo.” Disse l’alicorn, con fare riflessivo. “Ma la tua assenza qui sarebbe subito notata. Potremmo andare via, io e te, ufficialmente in pattuglia. Nessuno obietterà, se viaggerai con me. Però forse, nel territorio del clan Gysseghymn, sarà meglio non farsi notare.”
“Per questo penso che sarebbe comunque meglio partire ora. Sarenestar mi sembra una foresta molto fitta e gli elfi di Superficie non ci vedono perfettamente, al buio.”
“Va bene. Questa è di certo un’argomentazione valida.”
“Ce la fai a muoverti furtivamente, Raerlan?”
L’alicorn distolse lo sguardo dal drow, a disagio. “Eh… ammetto che non è il mio forte. Ma potremmo separarci ad un certo punto, e non è strano che io pattugli la foresta.”
“E tu, Mavael? Ce la fai a stare sveglio tutta la notte? Posso portarti in braccio o in spalla, ma tu devi indicarmi dove andare.”
Il bambino annuì senza alcuna esitazione. “Non ho per niente sonno.”
“Va bene, allora è deciso.” Raerlan batté le mani, convinto. “Andiamo a recuperare le tue armi, Daren. E andiamo via, prima che Johel ritorni.”
Il pensiero dell’amico elfo e di come avrebbe reagito aveva il potere di mettere le ali ai piedi ad entrambi.


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Nota: Se vi interessa il sistema divinatorio usato da Hinistel, lo potete trovare qui.

           

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Capitolo 9
*** 1287 DR: La loro rete di vie sotterranee ***


1287 DR: La loro rete di vie sotterranee


Raerlan faceva strada, indicando a Daren sentieri che solo un elfo abituato a camminare nelle foreste avrebbe saputo individuare. Il drow lo seguiva in perfetto silenzio, portando sulle spalle il ragazzino. Mavael era abbastanza leggero da non rallentare il passo del guerriero, ed era anche molto silenzioso. Daren non poteva che essere grato per questo, contrastava con la sua esperienza in fatto di bambini.
Camminarono per un paio d’ore prima che Raerlan rallentasse per sussurrare all’amico: “Quell’albero secco segna il confine con il territorio del clan Gysseghymn, ora sarebbe meglio separarci. Mavael ti dirà dove andare, io farò un giro più largo, spero di attirare su di me l’attenzione dei ranger ricognitori che potrebbero passare di qui. Se dovessero trovarti, temo che Mavael non potrà aiutarti.”
“Figuriamoci se ho mai pensato di poter contare sull’aiuto di un bambino.” Sussurrò il drow, come se fosse una cosa ovvia.

Raerlan sparì nella notte, addentrandosi nel folto sottobosco. Daren rimase da solo con il suo piccolo passeggero, e in quel momento realizzò lucidamente quanto stesse rischiando, infiltrandosi nel territorio degli elfi di un altro clan senza permesso. L’offerta di Tazandil, giunta dopo decenni di totale chiusura, poteva essere la sua unica occasione di farsi accettare dalla gente di Johel; se l’avessero sorpreso ora, avrebbe mandato all’aria tutto… ma per una buona ragione, ricordò a sé stesso. Davvero una buona ragione.
Il drow ebbe cura di sistemarsi bene il cappuccio sulla testa, in modo che i suoi capelli bianchi non attirassero l'attenzione catturando la poca luce che c'era, poi ripartirono nella notte. Mavael lo guidò con gesti e indicazioni discrete, e i due procedettero lentamente, con cautela, fino all’alba.
“Quando manca ancora?” Domandò il drow sottovoce, notando che quel poco di cielo che si riusciva a vedere fra le fronde si stava ormai schiarendo.
“Poco.” Soffiò il bambino. “E anche se sorge il sole, quaggiù non diventa più chiaro, almeno fino a metà mattina.”
Daren era certamente lieto di sentirlo, ma non abbandonò la prudenza.
Ad un certo punto si rese conto che la foresta si stava facendo più scura, nonostante dovesse essere ormai mattino.
“Siamo quasi arrivati.” Mormorò il ragazzino. “Arriviamo in un punto dove ci si può nascondere bene, e aspettiamo Raerlan.”
“Sarà in grado di trovarci?” Sussurrò il guerriero, posando finalmente a terra il suo giovane carico. Mavael era una piuma, pesava così poco che Daren non percepì nemmeno un sostanziale cambiamento.
“Oh, sì. Lui può sempre trovarmi, se vuole.” Fu l'enigmatica risposta del piccolo.

Trovarono una vasta macchia di alti cespugli e ci si nascosero dentro. Il drow era un po’ infastidito all'idea che potessero esserci dei ragni in mezzo a quell'intrico di rami, l'ultima cosa che voleva in quel momento era che quelle creaturine strisciassero nei suoi capelli e sui suoi vestiti, ma per fortuna sembrava che nessun aracnide né insetto fosse interessato avvicinarsi a loro. In effetti nemmeno gli animali notturni li avevano disturbati o avevano incrociato la loro strada. Il drow se ne rese conto in un angolo della sua mente ma il pensiero venne immediatamente messo da parte. Ora aveva preoccupazioni più pressanti.
Attesero nel buio per quasi un'ora, prima che il silenzio relativo del primo mattino venisse disturbato da un suono simile a un grufolìo. Un grosso cane, il più enorme bestione di quel tipo che Daren avesse mai visto, aveva trovato la loro traccia e li aveva scovati nel loro nascondiglio. Il cane evidentemente aveva cercato di infrattarsi fra i cespugli, ma la sua grossa mole gli era d'intralcio e si era incastrato. Alzò la testa, li guardò con aria di innocente sorpresa e cominciò ad uggiolare piano. Alle sue spalle, le fronde si muovevano facendo rumore, sbatacchiate dalla grossa coda che si agitava per la felicità.
Il drow era preoccupato che potesse essere l'animale compagno di un ranger, ma era anche sollevato dal suo atteggiamento amichevole. Se solo fosse riuscito a calmarlo, così che non abbaiasse...
Mavael aveva altre idee.
“Yerkna!” Il bambino si alzò in piedi di scatto e andò a gettare le braccia intorno al collo del cane, affondando le dita nel folto pelo soffice e bianco come la neve. La grossa bestia cominciò a leccargli la faccia con entusiasmo.
Dev’essere il fidato animale di un ranger del suo clan. Dedusse il drow. Questo non è un bene, per me.
Un basso fischio da qualche parte fuori dai cespugli fece rizzare le orecchie al cane, che con qualche difficoltà si disincastrò dal groviglio di rami camminando all’indietro. Pochi secondi dopo, Raerlan apparve fra le fronde, procedendo a gattoni. “Ehilà. Bel posto. Non molto comodo, ma privato.”
Riconoscendo il suo bislacco amico, Daren si rilassò notevolmente. “Non sapevo che avessi una bestia del genere.” Sussurrò, cercando con lo sguardo un segno della pelliccia bianca del cane, ma il sottobosco era troppo fitto per vedere qualcosa.
“Yerkna tende a non saper essere discreta, quindi la porto raramente con me.” Ammise il ranger con un sorriso di scuse. “Spero non ti abbia allarmato.”
Certo. Non ho paura dei draghi, ma sono terrorizzato dai cani. Pensò l’elfo scuro con una smorfia sarcastica, ma decise di lasciar correre. Meno parlavano, meno possibilità avevano di essere scoperti.
“Dimmi solo dov’è l’ingresso di questo… posto… di questo sotterraneo dove devo andare. Se lo conosci.”
Raerlan scambiò uno sguardo fugace con Mavael, assentì, poi fece cenno a Daren di seguirlo. Verso il cuore dell’intrico di cespugli. Il drow si lasciò sfuggire un gemito, ma non protestò.

“Non so se ci siano altri ingressi, ma conosco questo.” Disse il ranger qualche tempo dopo, indicando una stretta fenditura in un mucchio di rocce che componevano il fianco di un terrapieno.
Il drow studiò quell’angusto passaggio con aria critica: un elfo ci sarebbe passato, sì, ma non senza fatica. Per fortuna era un guerriero che prediligeva l’agilità e la sveltezza più che l’uso di armature pesanti, altrimenti non sarebbe mai passato. Stese un braccio all’interno della fenditura per tastare l’interno, poi mosse un passo dentro, girandosi in modo da entrare camminando lateralmente; sarebbe stato inutile incastrarsi in quel cunicolo se nel giro di pochi metri si fosse ristretto così tanto da rendere impossibile avanzare o perfino retrocedere. Per fortuna, sembrava che dopo pochi passi la galleria si allargasse, scendendo di colpo con una pendenza fastidiosa. Anche il terreno sembrava farsi sdrucciolevole, dove le radici delle piante lasciavano spazio alla terra e alla nuda roccia.
Daren si ritrasse, per scambiare qualche parola con Raerlan. Una parte di lui sapeva che potevano essere le sue ultime parole verso una persona amica.
“Se dovessi… se dovessi fallire.” Cominciò, in tono titubante. “Dì a Johel…” Ci pensò, ma non gli venne in mente nulla. Non era mai stato bravo con le persone. “Dì a Johel qualsiasi cosa possa farlo stare meglio.”
“Non fallirai.” Rispose l’alicorn, come se fosse un dato di fatto.
Il drow si addentrò nella stretta caverna, desiderando di condividere un po’ della granitica sicurezza di Raerlan e Mavael.

I corridoi sotterranei non erano come se li era aspettati. Non erano giusti per ospitare una comunità drow, e men che meno una città, seppur piccola. Prima di tutto, erano stretti. Un dramma, per chi vuole far passare un esercito. Ottimi per la difesa, senza dubbio, ma non per sferrare attacchi, nemmeno sortite, a meno che non fossero sortite pensate per attirare gli elfi sottoterra. Ma gli elfi non sono così stupidi, si disse, mettendo da parte quell’ipotesi. Perché stabilirsi in un luogo pieno di cunicoli che si interrompono, si restringono, e in definitiva ti costringono a fare un’unica strada dopo esserti perso decine di volte? Finora non ho visto nemmeno una caverna adatta ad ospitare un elevato numero di persone.
Nonostante la tensione, Daren stava cominciando a sentirsi frustrato e quasi annoiato. Viaggiava alla cieca da ore, cominciava a sentire caldo, e sebbene non fosse mai stato claustrofobico (era un drow, dopotutto) non era abituato a gallerie così strette. Sembrava che dietro ogni svolta ci fosse il rischio di vedere il cunicolo restringersi fino a diventare impraticabile, a volte aveva dovuto addirittura procedere carponi. Le lucine danzanti che era costretto a tenere intorno a sé nei luoghi perfettamente oscuri erano più un fastidio che un aiuto, perché Daren non sapeva se oltre la prossima svolta avrebbe trovato un nemico acquattato nell’ombra, nel perfetto silenzio di un drow che tende un’imboscata; in quel caso, la luce avrebbe di certo rivelato la sua presenza, favorendo l'imboscata.

Per fortuna non incontrò nessuno. Trascorse in quel modo un altro paio d’ore, scendendo sempre più in profondità, prima di arrivare in un luogo che gli fece tirare un sospiro di sollievo e allo stesso tempo gli scatenò un brivido di orrore: una caverna molto più ampia.
Non era grande quanto le grotte in cui solitamente venivano fondate le città drow. La sua città natale, Menzoberranzan, sorgeva in una caverna che era ampia chilometri. Perfino la città di Skullport, il porto clandestino e multirazziale sotto Waterdeep, era stata costruita in una grotta ben più larga ed alta di questa. No, quello che aveva davanti era solo un grosso slargo, la confluenza di diversi cunicoli sotterranei, ma un posto del genere portava con sé promesse ancora più inquietanti: dove conducevano tutti quei cunicoli? Ad altre città nel sottosuolo? Oppure risalivano verso la Superficie, andando a perdersi come capillari sotto tutta la foresta?
La stretta galleria da cui Daren era arrivato si trovava in alto rispetto al suolo della caverna, quasi vicino al soffitto, e le pareti per arrivare lassù erano lisce e inclinate nel verso sbagliato: sarebbe stato impossibile risalire verso il cunicolo senza levitare. Daren era ancora in grado di farlo, ma gli richiedeva una grande concentrazione e per sua natura non avrebbe potuto farlo più di una volta al giorno; invece grazie ad un tatuaggio magico che anni prima una sacerdotessa aveva inciso sulla sua pelle nera, era in grado di levitare fino a tre volte in una stessa giornata. L'incognita però era il peso; sarebbe riuscito a sollevare nell'aria un altro elfo? Non ci aveva mai provato, ma non era molto fiducioso di riuscirci.
Il drow si sdraiò a terra, per minimizzare le possibilità di essere visto, e spinse le lucine fluttuanti tanto lontano dietro di sé quanto sentiva di poter rischiare. Se le avesse allontanate troppo, l’oscurità l’avrebbe reclamato a causa della sua maledizione, la mancanza dell’ombra, e Daren non aveva proprio voglia di affrontarne le conseguenze in quel momento.
Dalla sua posizione relativamente nascosta, si prese un po’ di tempo per studiare la caverna. C’erano tre corridoi principali che confluivano lì, due alla sua destra e uno alla sua sinistra, e poi c’erano altre aperture più piccole che si aprivano a diverse altezze e che avrebbero potuto essere qualsiasi cosa: grotte secondarie, cunicoli senza uscita, gallerie come quella che aveva appena percorso… impossibile dirlo senza esplorarle.
Poteva essere un lavoro lungo, eppure era necessario. Dopo aver trovato l’elfo avrebbe dovuto anche portarlo fuori, possibilmente di nascosto; non sapeva quanti drow ci fossero, né se sarebbe stato possibile, anche remotamente possibile, sconfiggerli tutti.
D’altra parte, come esplorare quelle caverne senza incorrere in qualche sorvegliante? Daren conosceva bene i suoi simili e le loro astuzie. Sapeva di essere capace di nascondersi alla vista di un umano o perfino di un elfo, ma un altro drow avrebbe potuto starsene nascosto nell’ombra ad osservarlo senza che lui se ne rendesse conto, specialmente in un luogo che i suoi nemici sicuramente conoscevano molto meglio di lui.
Con un sospiro rassegnato, Daren si decise a fare una cosa che odiava e che gli causava molto disagio, ma che talvolta era necessaria.

Con la mano destra si sfiorò un punto appena sotto le clavicole, non molto lontano dal cuore. Ovviamente attraverso i vestiti e l'armatura leggera non poteva sentire al tatto le minuscole imperfezioni della pelle che il tatuaggio aveva creato, ma sapeva che il simbolo magico era sempre lì, a malapena visibile, un marchio di nero inchiostro sulla sua pelle quasi altrettanto nera.
Bastò un pensiero: spense la magia che teneva vive le lucine danzanti, e le luci si spensero con essa.
In un istante fu il buio. Il naturale, familiare, quasi confortante buio del sottosuolo, come quello in cui aveva passato buona parte della sua vita.
Ma fu solo per un attimo, perché subito quell’oscurità ordinaria venne sostituita da un’altra oscurità, che gli si sovrappose come un’onda di nebbia nera. Il drow aveva ancora davanti una caverna oscura, e certo non era possibile che fosse diventata più oscura, eppure lo sembrava. L’aria nera che aveva intorno sembrava l’origine del concetto stesso di buio, il buio di cui le creature di superficie hanno istintivamente paura, intessuto di incubi e promesse di morte. L’aria si era fatta improvvisamente più fredda, e anche la roccia sotto le sue mani sembrava volergli risucchiare il calore corporeo e la vita stessa.

Daren sapeva di trovarsi sul Piano delle Ombre, perché non era la prima volta che gli succedeva. La maledizione dei Senza-ombra dopotutto non era solo uno stigma sociale; quando un Senza-ombra cercava di nascondere la sua condizione a potenziali osservatori, rifugiandosi nella perfetta oscurità, il Piano delle Ombre lo reclamava dopo pochi secondi.
Il drow non aveva mai capito se quella meccanica fosse intenzionalmente punitiva oppure solo una conseguenza inevitabile. Ricordava benissimo il giorno in cui la sua ombra si era accorciata, come se si accartocciasse sotto i suoi piedi, ed era strisciata all’interno del suo corpo. Da allora, quando camminava nella luce, era come se la sua ombra non esistesse affatto, ma quando si trovava sul Piano delle Ombre la sentiva agitarsi, fredda e viscida come un’anguilla, come se smaniasse per ricongiungersi alla sostanza di quell’inquietante luogo di oscurità. Si era fatto l’idea che fosse la sua stessa ombra a trascinarlo su quel Piano ogni volta che si trovava nel buio completo, come se ne fosse attratta e il buio stesso potesse fungere da portale.
Per un normale viaggiatore, quel luogo era terrificante e alieno ma non intrinsecamente pericoloso, fatta eccezione per i mostri e i non morti che erravano a loro piacere in quelle lande. No, il Piano in sé era solo una copia oscura, imprecisa, illusoria e fredda del Piano Materiale, ma l’aria non era velenosa o maledetta, e nemmeno così gelida da poter davvero nuocere. Il cibo e l’acqua che si trovavano su quel Piano erano disgustosi e viscidi, ma non tossici. Una lunga permanenza laggiù poteva intorpidire gli arti e la mente, causando sconforto e depressione, ma solo alcune particolari zone eccezionalmente oscure e contaminate emanavano vera e propria energia negativa.
Per un Senza-ombra le cose erano un po’ diverse, come Daren aveva scoperto fin dal suo primo spiacevole viaggio. Era come essere privi della pelle e di qualsiasi protezione anche minima. L’aria era più fredda, l’oscurità era opprimente, la tensione era viscerale paura (non per lui, ma per chiunque altro lo sarebbe stata), e l’energia negativa - che solitamente aleggiava in concentrazione così blanda da non poter nuocere, controbilanciata dall’energia positiva - veniva invece attirata verso il suo corpo come da una calamita. Il drow era sempre convinto che fosse la sua stessa ombra imprigionata ad attirare il freddo e le energie di morte del Piano delle Ombre, e ogni volta faceva in modo che il suo corpo ne restasse imbevuto fino a quando, in un qualche strano modo che lui non capiva, doveva sentirsi sazia. Purtroppo per lui questo significava che prima che il Piano delle Ombre lo risputasse fuori, ogni volta sperimentava malessere, debolezza e intorpidimento, come se la sua energia vitale gli venisse rubata. Neanche a dirlo, Daren cercava di evitare quanto più possibile di cadere nella trappola delle ombre, per questo si accertava sempre di avere con sé una fonte di luce.
Tutto questo potrebbe non servire a niente. Ricordò a sé stesso, mentre muoveva un passo apparentemente nell’aria. In virtù della particolarità del Piano delle Ombre, il suo piede si posò senza danno sul fondo della grotta, come se avesse sceso uno scalino alto una spanna. Questo è un luogo ingannevole, le gallerie potrebbero non essere come ora le vedo. Però…
Però, quale scelta aveva?

Di solito non si curava di lottare contro gli effetti nefasti del Piano delle Ombre. Perché scomodarsi? Prima avesse scontato la sua pena, prima sarebbe stato libero da quelle terre maledette. Il Piano delle Ombre poi non era mai completamente silenzioso; o meglio, lo era ai suoi orecchi, ma nella testa percepiva come dei sussurri al limitare della sua mente cosciente, mormorii di dolore e rimpianto che lo spingevano verso pensieri deprimenti e pessimisti. Sì, di solito faceva di tutto per abbassare le sue difese e lasciare che le cose seguissero il loro corso, ma stavolta no. Doveva cercare di restare nel Piano delle Ombre il più a lungo possibile, per memorizzare la planimetria di quelle gallerie. Si fece forza, contrapponendo la sua pura determinazione ai continui attacchi mentali e fisici delle ombre. Una volta preso il ritmo, non era così difficile, anche se ogni passo era sempre più disagevole. Concentrarsi sul panorama gli rendeva le cose un po’ più facili. Le ombre amano cambiare, e nonostante Daren avesse camminato avanti e indietro molte volte in quelle gallerie, le svolte e le imboccature dei cunicoli sembravano mutare continuamente posizione.
Dopo alcune ore, comprese che non avrebbe ottenuto più di questo, ma ormai pesava di essersi fatto un’idea generale del luogo. Il panorama del Piano delle Ombre è instabile, ma instabile come l’ombra di un oggetto che oscilla alla luce di una candela; è sempre la stessa ombra, sempre dello stesso oggetto, e una mente attenta può capirne i tratti generali se non spreca energie a focalizzarsi inutilmente sui dettagli.
Prego che questi dettagli non mi servano poi così tanto, scherzò Daren fra sé e sé, perché essendo un drow capiva benissimo l’importanza di saper distinguere una galleria da un’altra grazie a minime differenze. Quantomeno ora so quanto è vasto questo intrico di cunicoli e forse… forse… ho individuato una o due vie per la Superficie.

Ormai era stanco, nel fisico e nello spirito, e proseguire oltre sarebbe stato inutile. Rinunciò alla sua lotta, arrendendosi al morso dell’energia negativa che aveva già abbondantemente iniziato a logorarlo nonostante avesse opposto resistenza. Qualche tempo dopo - secondi? minuti? non avrebbe saputo dirlo - ricomparve in una galleria secondaria, molto lontano dall’ampia grotta da dove era partito. Non perse tempo a guardarsi intorno, accese subito le lucine fluttuanti, e solo dopo si concesse di esplorare l’ambiente con lo sguardo.
Aveva supposto che, ovunque fosse l’accampamento drow, non potesse trovarsi in quelle caverne larghe a malapena quel che bastava perché due persone potessero camminare affiancate… e aveva avuto ragione. Nell’oscurità era solo.
Solo, e con l’aria di essere stato strapazzato dalle fatiche di un tremendo viaggio, un’impressione che avrebbe sfruttato a suo vantaggio.

Prima di proseguire in cerca dei suoi simili, frugò nel suo zaino ed estrasse un oggetto che conservava apposta per simili occasioni: un barattolo di coccio con dentro una sostanza preziosa, una pomata magica infusa con un incantesimo di illusione. Così come ogni giorno camuffava il suo orientamento morale, ora doveva fare qualcosa del genere per le sue spade. Non voleva rischiare che qualcuno si accorgesse che brandiva delle armi sacre, la cosa avrebbe destato sospetti. Si prese un paio di minuti per spalmare la sostanza oleosa sulla spada bastarda e sulle sue due spade corte. L’effetto non sarebbe durato più di qualche giorno, e sapeva che usare le armi avrebbe consumato il prezioso strato protettivo, ma la cosa importante era fare una buona… o meglio cattiva… prima impressione.
Non prevedeva che il suo inganno potesse durare a lungo, in ogni caso.

           

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Capitolo 10
*** 1287 DR: La loro cavalleria ***


1287 DR: La loro cavalleria


Quella mattina, nella foresta sopra le gallerie

Raerlan rimase a guardare l’imboccatura della galleria finché Daren non scomparve del tutto alla vista, poi si concesse un sorriso soddisfatto e batté una volta le mani, attirandosi un’occhiata incuriosita da parte di Mavael.
“Pensi che ce la farà?” Domandò il bambino, in tono preoccupato.
“Sì.” Mentì Raerlan, perché in realtà non ne aveva idea. Non aveva senso gravare il ragazzino di altri dubbi, però, e comunque lui era ben deciso a fare il possibile perché tutto andasse nel modo migliore. “Ma Daren potrebbe avere bisogno di aiuto. Per questo ora andrò ad avvertire il suo amico. Tu… tu vai pure, Mavael. Ti chiamerò quando sarà tutto finito.”
Il bambino annuì e si ritrasse fra i cespugli, scomparendo.
Raerlan indugiò per un momento, pensando alle frottole che stava per raccontare. Il ranger era perennemente ammantato di incantesimi di protezione e di illusione che rendevano credibile qualunque storia raccontasse, ma ora si chiese se non fosse meglio rafforzare quella magia con un altro rituale, prima di muovere verso Myth Dyraalis. Laggiù correva il rischio di attirare l’attenzione di lady Hinistel, e lo sapevano gli dèi quanto lui odiasse i veggenti.

L’alicorn uscì dal folto sottobosco e camminò per una decina di minuti, spostandosi in una zona dove il suolo era solo un sottile strato di terriccio depositato su un manto roccioso. La terra era troppo poco profonda e la roccia aveva impedito la crescita di alti alberi e di arbusti, quindi quella era una delle pochissime radure della foresta di Sarenestar.
Raerlan si guardò intorno con una smorfia. Il terreno non era perfettamente pianeggiante ed era costellato di fastidiosi ostacoli. Sopra la sua testa, il cielo era rischiarato dalla luce del sole, non della luna. Tutte condizioni che non favorivano particolarmente i rituali che Raerlan solitamente usava.
Se solo potessi aspettare fino alla luna piena di stanotte. Pensò, con un sospiro sconsolato.
Ma sapeva benissimo di non avere tempo da perdere, la vita del suo amico poteva dipendere dalla rapidità con cui Johel avrebbe agito.
Il ranger posò a terra lo zaino e cominciò a tirar fuori il suo armamentario: polvere di berillo scarlatto, di pietra di luna e di gomma di acacia, pelle secca di camaleonte, quattro piccoli specchi avvolti in stoffa nera, cinque candele di colori diversi, incensi e altro ancora.
Ho quasi terminato il berillo scarlatto. Pensò, soppesando il sacchettino. Ne avrò per un paio di rituali ancora. Devo procurarmelo, ed è piuttosto raro… penso che dopo questa avventura andrò a fare un giro nei territori umani, sono i mercanti migliori.
Raerlan mise da parte quei pensieri e si concentrò sulla respirazione, svuotando la mente. Se le condizioni ambientali non erano delle migliori, lui avrebbe dovuto sopperire con la forza di volontà ed un’esecuzione perfetta.


Myth Dyraalis, circa un’ora dopo

Johel e la sua famiglia si erano svegliati di buon mattino e avevano già fatto colazione, ma mentre Tazandil era già pronto a partire, il giovane ranger stava cercando di rifiutare educatamente tutto il cibo che sua madre voleva fargli portare con sé.
“Ti ringrazio, mamma, però non posso mangiare biscotti quando sono di pattuglia.”
“Oh, tuo padre. È troppo severo.” Mugugnò lei, scoccando un’occhiata di biasimo al marito.
“Ma no, ha ragione.” Lo difese Johel. “Potrei distrarmi, e non ne ho davvero bisogno. Apprezzo molto il tuo pensiero, però.” La ringraziò comunque, dandole un bacio sulla guancia.
“Va bene.” Si arrese lei. “Li darò a tua cugina.”
Quella piccola serpe che ha scommesso contro di me? Johel stava per protestare, ma si trattenne. Non sapeva se i suoi genitori fossero a conoscenza dell’inopportuno giro di scommesse, ma in ogni caso non lo avrebbero saputo da lui.

Johel e Tazandil scesero dall’albero con poche rapide mosse, come ogni elfo dei boschi che si rispetti. Alla Porta delle Spade trovarono ad attenderli il giovane chierico Idhrenor, con lo zaino in spalla e pronto ad incamminarsi.
“Idhrenor! Come mai qui?” Johel lo accolse con un saluto colmo di sorpresa. Non era molto regolare che il chierico affidato al loro gruppo di pattuglie si allontanasse dalla sua zona di competenza.
“Io… dovevo riferire… uh…” l’adepto guardò Tazandil, come per chiedere conferma.
“Idhrenor è venuto a Myth Dyraalis con me.” Spiegò il ranger più anziano. “È stato lui a compiere le divinazioni sul drow e doveva riferire un rapporto verificabile dai suoi superiori.”
Johel scoccò un'occhiata al sacerdote, che fu troppo lento a nascondere la sua espressione intimorita. Il ranger però si limitò a ridacchiare senza dirgli niente: se le indagini magiche avevano dato fastidio al suo amico dalla pelle scura, di sicuro aveva già pensato lui a brutalizzare a parole il povero adepto, che stava solo eseguendo degli ordini.
I tre si misero in marcia, lasciando qualsiasi ipotetico rancore alle loro spalle, a Myth Dyraalis. La foresta di Sarenestar era troppo selvaggia e pericolosa perché gli elfi sprecassero energie litigando fra loro. Appena varcate le porte, la città scomparve alla vista, protetta dalla potente magia dei loro antenati.
Dopo una mezzoretta di cammino verso nord, incontrarono l’ultima persona che avrebbero immaginato di vedere: Raerlan. Un Raerlan abbastanza affaticato, a dire il vero, con il fiatone, come se avesse fatto tutta la strada di corsa. L’alicorn li accolse con un’occhiata di profondo sollievo.
“Sono… sono venuto più in fretta possibile.” Ansimò il ranger, come prevedibile. “Si tratta di Daren. Potrebbe essere in grossi guai.”
Johel sentì un brivido ghiacciato lungo la schiena. Il suo amico aveva un vero talento per cacciarsi nei guai.
“Che ha fatto?” Sbottò Tazandil, mettendo inconsapevolmente una mano sull’impugnatura della spada.
Raerlan raccolse le idee, ripassando mentalmente il discorso che si era prefissato di dire.
C’erano diversi buchi, ad esempio Come mai un ragazzino come Mavael sapeva dei piani di suo padre, quando l’elfo non aveva riferito i suoi sospetti nemmeno agli altri ranger del suo clan?, o anche Come aveva fatto Raerlan ad arrivare quasi a Myth Dyraalis in meno di due ore, quando il territorio del clan Gysseghymn distava almeno una giornata di cammino? Ma quello era appunto il momento di vedere quanto avrebbe retto l’effetto magico del suo rituale, il suo Filtro di percezione. In teoria, la magia avrebbe dovuto fare in modo che i suoi interlocutori sorvolassero su tutte quelle fallacie logiche, bevendosi la sua storia con la sensazione che tutto fosse sensato. Fino a quel momento aveva funzionato, dopotutto. Nessuno si era mai fatto domande su di lui, né su Mavael.
L’alicorn prese coraggio e cominciò a raccontare.

La storia di Raerlan scatenò reazioni molto prevedibili nei tre elfi. Tazandil andò su tutte le furie, sollevò l’alicorn per il bavero e minacciò di farlo espellere dalla foresta, per non aver avvisato immediatamente tutti i clan del pericolo. Idhrenor si guardava intorno spaesato, come un uccellino caduto giù dal nido troppo presto. Johel invece si era chiuso nel silenzio, come se non volesse interrompere la scenata del suo superiore, ma sembrava terrorizzato e arrabbiato in pari misura. Quando Raerlan incrociò il suo sguardo, capì che non era per paura o per incertezza che non aveva ancora detto una parola; il suo sguardo esprimeva solo ferrea determinazione.
“Tazandil, forse Raerlan aveva una buona ragione per non dircelo. So che vorresti smuovere un esercito, ma forse non è il caso. I drow ci sentirebbero arrivare, o ci vedrebbero, se hanno dei sistemi di divinazione. Penso che un gruppo scelto abbia maggiori possibilità di farcela.”
Il ranger capo sembrava troppo furioso per prestare orecchio alle parole del figlio, invece dopo un momento si dichiarò d'accordo, mostrando più buonsenso del previsto.
“Non porterei un esercito in una zona completamente inesplorata.” Assentì. “Ma se Raerlan ci avesse avvertito prima, o se l’avesse fatto Filvendor, avrei inviato degli esploratori mesi fa, invece ora ci troviamo in una situazione di emergenza e con le mani legate.” Il vecchio guerriero scoccò un’occhiata di puro veleno al mortificato alicorn. “Johlariel, se vuoi andare in cerca del tuo amico non te lo impedirò. Ma non andrai da solo.”
“Io verrò con te, amico.” Affermò Raerlan, in tono volenteroso.
“Tu non farai proprio un bel niente senza il mio permesso!” Gli gridò in faccia Tazandil. “Non affiderò la vita di mio figlio ad un sempliciotto goffo e inutile che non sa nemmeno tenere dritto un arco!”
Raerlan sospirò, pensando con rammarico che tenere un profilo basso aveva anche dei risvolti negativi, ma non poteva evitarlo. Johel invece registrò en passant che suo padre l’avesse chiamato mio figlio mentre erano in servizio, cosa che lasciava trasparire quanto fosse mortalmente preoccupato.
“Però avete bisogno di me, perché solo io conosco l’ingresso ai sotterranei.” Ribatté Raerlan. “Inoltre dispongo di un incantesimo che interferisce con la chiaroveggenza di maghi e sacerdoti, e la magia protettiva si estende anche a chi cammina al mio fianco.”
Questo non era esattamente vero, ma il suo rituale aiutava anche a deflettere le divinazioni magiche, quindi il risultato ottenuto era simile. La magia stessa agì in modo subdolo sulle menti dei due elfi, impedendo loro di chiedersi come mai un ranger disponesse di un incantesimo del genere.
Tazandil ci pensò un momento, poi prese la sua decisione.
“Idhrenor.” Chiamò, in tono di comando.
Il giovane chierico scattò subito sull’attenti, sollevato che qualcuno avesse preso in mano la situazione. Era appena un adepto ed era sollevato di non dover essere lui a prendere decisioni.
“Torna in città.” Gli ordinò. “Riferisci al Gran Sacerdote di questa emergenza e chiedigli di convocare il Consiglio per un'assemblea privata. Io, Johlariel e Raerlan ci dirigeremo subito verso il covo dei drow, ma ci servirà supporto. Chiedi che la città mandi almeno un chierico o un druido e tre o quattro ranger esperti. Magari anche lord Pofan Dortor, se è disposto a correre un simile rischio.” Propose, riferendosi al mago più potente della comunità gnomica.
“Sissignore!” Idhrenor si voltò e cominciò a correre in direzione della città. “E che ci raggiungano più in fretta possibile!” Gli gridò dietro il ranger capo, per maggiore sicurezza. Probabilmente ci sarebbero arrivati anche da soli che era necessario inviare quei rinforzi con la magia, ma Tazandil non si sentiva tranquillo a delegare simili decisioni.

Tazandil, Johel e Raerlan proseguirono a tappe forzate verso nordovest, diretti al territorio del clan Gysseghymn. Di norma sarebbe stato più diplomatico avvertire in anticipo del loro arrivo, ma erano elfi di Sarenestar e per di più ranger preposti alla protezione del territorio, quindi sostanzialmente potevano andare dove volevano.
Mentre camminavano a passo spedito, Raerlan si scoprì a covare dei dubbi sul suo tempismo. Non sapeva quanto avrebbe impiegato Daren a trovare i drow, né se intendesse compiere una sortita o infiltrarsi fra loro fingendosi un alleato. Sapeva, perché ne avevano discusso, che Daren avrebbe dato la precedenza a quest’ultima strategia; strisciare in un covo di drow e cercare di ammazzarli tutti, senza sapere nulla sulle loro forze effettive, era semplicemente un suicidio. Ma sarebbe riuscito ad ingannarli? Se sì, per quanto tempo? Era possibile che gli elfi finissero per arrivare laggiù troppo presto? E d’altra parte, non sarebbe stato molto più pericoloso se fossero arrivati troppo tardi?
Per l’ennesima volta rimpianse di non avere mezzi magici per comunicare con Daren, ma tentare divinazioni o comunicazioni all’interno del territorio drow sarebbe stato troppo rischioso. I nemici avrebbero potuto avere un mago, o peggio, una sacerdotessa.

Gli elfi camminavano da quattro ore, senza aver fatto una sola pausa, quando intorno a loro cominciò a soffiare una strana brezza insistente; una cosa rara nella fitta foresta. Quella “brezza” portò con sé delle figure fumose, semi-trasparenti e che con un po’ di fantasia potevano sembrare umanoidi. Le sagome che sembravano fatte di vapore si fermarono fluttuando intorno ai tre ranger, poi le loro forme si fecero più definite e si cristallizzarono tornando ad essere ciò che erano in origine: carne e sangue, elfi dei boschi come loro. E uno gnomo.
Johel sbatté gli occhi un paio di volte, rifiutandosi di credere a quello che stava vedendo.
“Merildil?” Sbottò poi, incredulo. “Cosa fai qui? Non vorrai… è troppo pericoloso!”
“Sei la moglie del nostro capoclan.” Concordò Tazandil, per una volta perfettamente in linea con il figlio.
La dama sporse avanti le mani con i palmi aperti, come per fare cenno ai due ranger di stare calmi.
“Sono anche la migliore druida della foresta.” Ribatté, con sguardo duro e senza falsa modestia. “Questa non è una minaccia da prendere alla leggera. Perfino mio marito ha dovuto acconsentire, quindi non accetterò obiezioni da voi due.” Mise subito in chiaro.
Johel spostò lo sguardo sugli altri membri del piccolo gruppo che costituiva i rinforzi inviati da Myth Dyraalis. C’era uno dei migliori sacerdoti della città, Solaias, fedele prete di Corellon Larethian, inconfondibile per il suo aspetto quasi albino; c’era uno gnomo mago che però non era lord Pofan, sembrava piuttosto un apprendista nervoso con uno zaino pieno di pergamene. Infine, c’erano due elfi ranger che solitamente fungevano da guardie nella città: Nelaeryn, un vecchio compagno d’armi di Johel che per quanto fastidioso e ficcanaso era un ottimo e leale guerriero, e Pilindiel, un’arciera dal carattere un po’ troppo insubordinato, ma che aveva la fama di non mancare mai il bersaglio. Johel le sorrise con calore, nonostante il momento drammatico. Avevano condiviso molti piacevoli momenti, quando erano più giovani.
Tazandil annuì brevemente, accettando il gruppo per quello che era. Sperava di avere un po’ più di guerrieri, in modo da non esporre troppo i loro preziosi incantatori, ma l’incantesimo usato dal chierico per viaggiare sulle ali del vento aveva sicuramente dei limiti.
“Ora dimmi, Raerlan, dove si trova esattamente l’ingresso della caverna?” Domandò lady Merildil, assumendosi il compito di risolvere il problema del viaggiare rapidamente. “Posso portare me stessa e altri quattro di voi il più vicino possibile, passando attraverso le piante della foresta, e mastro Wilhik è in possesso di una pergamena di Teletrasporto con cui potrà portare gli altri. Però ci occorre una descrizione puntuale della nostra destinazione.”
Raerlan rivolse un cenno di saluto riconoscente allo gnomo, che sembrò trarne un po’ di conforto visto che era un fascio di nervi. Poi procedette a descrivere con dovizia di particolari la zona circostante la caverna.
“C’è questa specie di montagnola che a prima vista sembra un tumulo. L’entrata è coperta da glicini rampicanti. In questo momento non sono in fiore, ma penso che li sappiate riconoscere comunque.” Lo disse guardando il mago gnomo, perché ovviamente qualsiasi elfo dei boschi sapeva riconoscere le piante della sua foresta. Quando ricevette un cenno di assenso da parte del mago, continuò. “La montagnola si affaccia su una radura, una che non viene mai usata per campeggiare perché è così rocciosa che i chiodi da tenda non penetrano nel terreno.”
“Credo di aver capito di quale luogo si tratta.” Assentì Merildil. “Valni, tu forse non sei mai stato lì, ma puoi aspettare che io e alcuni altri arriviamo in zona e poi puoi divinarci, in modo da vedere la tua destinazione.”
Lo gnomo, Valni Wilhik, primo ed unico apprendista del Granmago Anziano degli gnomi, annuì con aria volenterosa ed estrasse una sfera di cristallo dalla scarsella. “Dopo di te, lady Merildil.”
La druida poggiò una mano sul tronco di un abete e tese l’altra mano verso i suoi compagni.
“Quattro di voi potranno venire con me. Il primo afferri la mia mano, e gli altri si dispongano a catena.”
Tazandil si mosse subito per prendere la mano di sua cognata, poi Johel cercò di afferrare la mano del padre, ma l’anziano ranger lo spinse indietro. “Tu no. Potresti agire in modo avventato. Vieni con il secondo gruppo.” Ordinò. Prima che Johel potesse aprire bocca, diede altre disposizioni: “Mastro Solaias, sii così gentile da venire con noi. Anche tu, Raerlan, disgraziato. E Pilindiel, non ho dimenticato che hai un’influenza anarchica su Johlariel. Noi quattro andremo adesso. Nelaeryn e Johlariel con mastro Wilhik. Siate la sua protezione, è un mago.” Raccomandò loro, in tono pragmatico. Lo gnomo se la prese un po’ per quel commento, ma sapeva che il ranger non aveva tutti i torti; era uno gnomo più abituato alla pace che alla guerra, e più a suo agio con i libri che con le spade dei nemici.
Merildil cantilenò una formula magica sussurrando contro la corteccia dell’albero come se dovessero condividere un segreto. L’albero evidentemente rispose alle sue esortazioni, perché il suo tronco si aprì come per accoglierla dentro il suo alveo. Dove avrebbero dovuto esserci il legno e il midollo Johel vide che c’era invece una linea verticale di luce magica, come una spaccatura.
La druida fece un passo avanti, fiduciosa, e scomparve nel tronco. Avanzando, si trascinò dietro gli altri, che sparirono uno alla volta in quella luce. L’albero si richiuse alle loro spalle, senza lasciare alcuna traccia del loro passaggio.

           

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Capitolo 11
*** 1287 DR: Le loro risorse ***


1287 DR: Le loro risorse


Daren allontanò le mani dall’impugnatura delle sue armi, con movimenti lenti e deliberati, e incrociò le braccia davanti al petto in un segnale che per i drow significava resa, o almeno tregua. La fioca luminosità delle sue lucine danzanti si rifletteva sulla punta metallica dei dardi di balestra che gli erano puntati contro, rendendolo acutamente consapevole della sua posizione vulnerabile. Aveva contato almeno sei dardi, e dunque sei drow, ma potevano essercene di più.
“Chi sei, perché sei qui e da dove vieni?” Domandò uno di loro con fare imperioso, emergendo dall'ombra. “E perché hai queste dannate luci?”
Daren squadrò per un istante il guerriero che gli stava parlando. Il fatto che si fosse esposto in prima persona forse significava che fosse il capo, o almeno il capo di quel gruppetto di soldati. In una mano stringeva ancora la balestra leggera che gli stava puntando contro, mentre con l'altra mano aveva estratto una spada corta. Aveva un anello al dito indice di entrambe le mani, probabilmente erano oggetti magici di protezione, e indossava una fine armatura di metallo nero. Cosa ancora più interessante, il suo volto era coperto da una maschera.
Questo confermò immediatamente i sospetti di Daren; un gruppo di drow che viveva così vicino alla Superficie e per così tanti mesi... doveva essere votato al culto di Vhaeraun.
E quindi molto probabilmente avevano un sacerdote da qualche parte. Questo significava che Daren doveva essere molto cauto con le menzogne, perché prima o poi ogni sua parola sarebbe stata verificata con la magia.
“Mi chiamo Daren. Sono originario di Menzoberranzan, ma sono fuggito da quella città molti anni fa, per sottrarmi a quelle pazze fanatiche sacerdotesse della Regina Ragno.” Ebbe cura di pronunciare l'epiteto della dea Lolth con particolare disprezzo. “Da allora non mi sono mai fermato a lungo in un posto. Ma avevo sentito… voci di una comunità drow da queste parti, che forse…”
Il guerriero davanti a lui fece un verso di scherno. “Sei fuori posto, allora, Daren. La comunità che cerchi si trova alle pendici dei monti, e questo non è certo un segreto.”
Non è un segreto fra i drow, forse. Pensò Daren con un brivido. Ma di certo è un segreto per le razze di Superficie. Ma se non è questa la comunità drow… cos’è? Chi è questa gente?
“Tuttavia nessuno arriva lì senza prima dimostrarsi… degno di fiducia.” Lo disse in tono velato di ironia, perché la fiducia fra drow era una merce estremamente rara. “Il Signore Mascherato protegge i suoi seguaci. Se intendi cercare rifugio fra di noi, e se vuoi che ti lasciamo procedere verso l’insediamento sui monti, devi accettare di servire un Dio più degno della puttana aracnide.”
Daren annuì in silenzio, accettando quelle condizioni, o almeno fingendo di farlo.
“A Menzoberranzan qualsiasi culto è proibito al di fuori di quello di Lolth, dannato sia il suo nome.” Cominciò a spiegare. “Forse alcuni nobili sanno qualcosa delle divinità venerate fuori dalla città, ma i soldati semplici come me sono lasciati nell’ignoranza. Dopo la mia fuga però, a Skullport e in altri luoghi, ho sentito parlare del Signore della Notte... un Dio che sembra essere più benevolo verso noi maschi. Mi piacerebbe saperne di più, e sarei lieto di mettere le mie capacità di guerriero al servizio di qualsiasi comunità decida di accogliermi senza fare di me uno schiavo o un sacrificio.” Annunciò, parlando molto più apertamente di come fosse normale aspettarsi da un drow.
Il suo interlocutore si lasciò sfuggire una risatina, che uscì un po’ soffocata a causa della maschera che portava sul volto.
“Sei molto schietto.”
“Sono un guerriero. Ho una sola utilità e lo riconosco.” Fu la semplice spiegazione di Daren.
“E sei stanco e provato da un lungo viaggio, sembrerebbe.”
Daren allargò le braccia, indicando sé stesso e le sue condizioni. “Puoi vederlo da te. Queste luci che ho intorno sono il gentile effetto di una maledizione. Attirano le bestiacce del sottosuolo da un miglio di distanza. Non ho avuto vita facile nel venire qui, anche se sono sicuro che nessuna creatura senziente mi abbia seguito.”
Il guerriero drow finalmente abbassò la balestra verso terra e fece cenno agli altri di non fare fuoco, ma Daren notò che nessuno degli altri aveva abbassato le armi.
“Forse il nostro sacerdote si degnerà di liberarti di questa sciocchezza di maledizione.” Promise in tono munifico ma anche derisorio. Daren aveva proprio sperato che rivelare qualcosa sulla maledizione portasse questi drow a sottovalutarlo, perché qualsiasi incantatore anche alle prime armi avrebbe saputo dissolvere delle lucine danzanti. A quanto pare aveva funzionato, almeno per ora. “In cambio dei giusti servigi, s’intende.”
“Quello che volete.” Accettò Daren, scrollando le spalle. “Qualsiasi cosa sarà meglio della mia attuale condizione di solitario fuoricasta, e un soldato ha bisogno di ordini. Posso supporre… che non ci siano sacerdotesse smaniose di sangue drow, qui?”
Il drow davanti a lui rise, e Daren decise definitivamente che era un idiota. “Non troverai servitrici dei ragni, qui.” Gli promise. “Consegna le tue armi e ti scorteremo dal nostro chierico. Lui deciderà se sei degno di unirti al culto di Vhaeraun.”
Si sta comportando come se fosse molto sicuro di sé. Si disse Daren. Tuttavia non mi ha detto il suo nome, quindi non si fida di me. Prevedibile. Ma non pensa nemmeno di aver qualcosa da temere, e perché dovrebbe? Io sono solo e di certo non sono in forma, mentre lui è circondato da alleati che mi tengono sotto tiro. Non ho motivo di credere che mi stia ingannando, crede di avere il pugnale dalla parte del manico.
Annuì, pur soffrendo per quella decisione, e consegnò spontaneamente le spade corte e la bastarda. Nonostante fosse l’arma tipica del culto di Eilistraee, la divinità che seguiva realmente, l’altro drow non sembrò dar peso alla cosa. Dopotutto, c'erano dei guerrieri che usavano la bastarda o perfino lo spadone a due mani; di certo non era una cosa insolita per uno come Daren che, sfiorando il metro e settanta, era considerato alto per un maschio della sua razza. Molti drow in effetti lo avevano giudicato per la sua statura, inquadrandolo subito come un guerriero da sfondamento, uno il cui stile di combattimento doveva rispecchiare le dimensioni della sua arma: forte, stabile, ma prevedibile. Di solito non si aspettavano da lui la sottigliezza tipica dei tagliagole a tradimento. Un errore che tutti commettevano una volta sola.
Molti decenni prima, quando Daren combatteva come soldato semplice per un nobile Casato di Menzoberranzan, aveva voluto incoraggiare questo errore di valutazione: andava in giro con uno spadone a due mani legato alla schiena, un’arma impressionante ma molto poco pratica nei cunicoli del sottosuolo. In decine di anni non l’aveva mai sfoderato, se non per fare un po’ di scena, preferendo invece un paio di spade corte, oppure i pugnali che sembravano comparire per magia dalle sue maniche. Lo spadone in realtà era forgiato in un metallo fragile e leggero, un oggetto di scena che non doveva gravargli troppo sulle spalle.
Ripensando a quei tempi andati, a Daren sfuggì quasi un sorriso, ma questa volta consegnò anche il pugnale che teneva allacciato poco sopra la caviglia, restando del tutto disarmato. Be', quasi del tutto. Non c’era bisogno che questi drow sapessero del piccolo coltello che poteva far uscire dalla punta dello stivale destro con il giusto scatto del piede, né della sottile corda di metallo che era nascosta nel risvolto della sua manica e che poteva essere usata per soffocare, o anche per altri utilizzi più creativi.
Un paio di drow abbassarono le balestre per avvicinarsi e perquisirlo e Daren li lasciò fare, mantenendo un’espressione neutra e noncurante. Non trovarono nulla.
Il primo drow con cui aveva parlato, quello che aveva preteso di sapere il suo nome ma senza ricambiare il favore, alla fine fece un cenno di assenso e Daren venne scortato verso le gallerie dove il gruppo aveva stabilito il campo base.


Non molto lontano, in quello stesso momento

La creatura semitrasparente sembrò materializzarsi nella stanza come per magia, ma Zeerith, gran sacerdote di Vhaeraun, non era uno sciocco impressionabile. Sapeva che la fata aveva i suoi mezzi per passare inosservata, aveva semplicemente sfruttato la sua consistenza incorporea per passare attraverso una parete.
“Sulerin” la salutò, accogliendo l’arrivo della fata con un sorriso affilato.
La bellissima creatura dalle fattezze elfiche rispose al sorriso e si mosse verso il drow, con passo suadente. I capelli rossi come il fuoco erano raccolti in una morbida treccia, e le labbra altrettanto rosse si sporsero in un gesto invitante. Zeerith andò incontro all’affascinante fanciulla; quando le arrivò abbastanza vicino, la magia del suo anello d’argento cristallizzò la sostanza incorporea di cui Sulerin era fatta, trasformandola in morbida carne e pelle di seta. Dita nere come il carbone si chiusero intorno al mento delicato della fata, e il drow la costrinse a guardarlo negli occhi. Sulerin a prima vista poteva sembrare un’elfa di superficie, ma in realtà era una insoril, una creatura nota agli umani con il nome rozzo ma descrittivo di predagioia. La fata in realtà si nutriva dei sentimenti dei mortali, non solo della loro gioia, e quando era affamata i suoi occhi avevano l’aspetto di luminosi rubini incastonati in un volto di porcellana. Quegli stessi occhi erano dorati adesso, segno che si era nutrita di recente, e il chierico si chiese distrattamente dove avesse trovato nutrimento. Le aveva impedito di attirare l’attenzione degli elfi, quindi probabilmente si era spinta fino ai più vicini villaggi umani.
Zeerith rilassò la presa sul suo mento e quel gesto si trasformò in una carezza passionale sulla guancia della fata. Non la vedeva da giorni e aveva sentito la sua mancanza, o quantomeno gli era mancata la sua bellezza. Alla fine rispose all’invito della fanciulla e si sporse a baciarla sulle labbra, giudicando che fosse abbastanza sicuro, almeno per ora, lasciarsi toccare dalla sua imprevedibile amante.
“Mi annoio qui, Zeerith”. Piagnucolò lei, sussurrando ad un soffio dalle labbra del chierico. Lo baciò ancora, brevemente. “La mia gente ama le grandi città. Quando fonderete la vostra? Quando potrò banchettare con il terrore degli elfi di Myth Dyraalis?”
“Un po’ di pazienza, mia cara.” Rispose lui, divertito dallo sguardo predatore e spietato della fata. “Presto la volontà dell’elfo si spezzerà e ci dirà tutto quello che sa. Non è detto che sappia dove si trovino le rovine della nostra perduta Allsihwann, ma di certo sa dove si trova la città elfica di Myth Dyraalis, e laggiù troveremo le informazioni, le risorse e gli incantesimi che ci servono per prosperare.” Fece mezzo passo indietro, accorgendosi solo allora che le sue mani erano scivolate sui fianchi della insoril, come per loro volontà. La cosa gli fece suonare un campanello d’allarme nella mente, non gli piaceva essere schiavo dei suoi sensi, ma sapeva che la capricciosa creatura si trastullava con quelle manifestazioni di potere come se fosse un gioco e nulla di più. Il drow lasciò comunque che il suo sguardo s’indurisse, per ricordarle chi era al comando. “Tu, piuttosto, hai scoperto qualcosa su un possibile accesso ad Allsihwann?”
La fata piegò la testa da un lato e non nascose una smorfia di fastidio, scontenta della facilità con cui lui si era sottratto alle lusinghe della sua carne.
“No, non ho trovato nulla.” Fu costretta ad ammettere. “Sono dannatamente quasi sicura che la vostra antica città sorgesse proprio sopra le nostre teste, ma l’incantesimo di alta magia elfica che hanno usato per schermare Allsihwann è abbastanza potente da illudere anche i miei sensi sovrannaturali.” Spiegò, per l’ennesima volta. “Sono stanca di questo lavoro inutile, Zeerith. Sono stanca di vivere in un buco insieme a persone che non posso depredare. Soprattutto non sopporto più i canti gioiosi degli elfi, solo pochi metri sopra di noi, sapendo che non ho il permesso di nutrirmi della loro gioia di vivere perché potrei attirare l’attenzione. Lascia almeno che vi procuri un altro elfo con l’inganno, questo qui ci sta mettendo troppo tempo a spezzarsi!”
Zeerith segretamente concordava con lei, ma non poteva permettersi un simile rischio. Rapire un solo elfo era già stato pericoloso, i loro cugini di Superficie sembravano cocciutamente uniti e leali gli uni verso gli altri, e il loro prigioniero era stato cercato per mesi. Più di una volta Zeerith aveva dovuto rafforzare le protezioni magiche intorno al loro covo.
Alcuni mesi prima, lui e Sulerin avevano tentato un altro genere di inganno ai danni del prigioniero. Il chierico aveva operato sulla fata quel minimo di magia di illusione che occorreva per farla sembrare un’elfa dei boschi, poi l’aveva portata al cospetto dell’ostinato ranger. Aveva affermato che fosse un’altra loro preda, e che l’avrebbero torturata e uccisa lentamente se Filvendor non avesse parlato. L’elfo chiaro aveva dovuto assistere, con la morte negli occhi, mentre Sulerin veniva frustata e violentata da Zeerith, ma nonostante tutto non aveva parlato. Lo aveva supplicato di risparmiarla, oh, questo sì, e si era offerto perfino di prendere il suo posto, ma non aveva detto una parola su Myth Dyraalis o sul suo stesso clan, perché sapeva che quello che Zeerith stava facendo all’altra “elfa”, avrebbe potuto farlo a tutto il suo popolo.
Ovviamente era stata tutta una farsa, Sulerin non poteva essere ferita da un’arma ridicola come una frusta, solo il metallo noto come ferro freddo poteva nuocere a una fata. Però era stata una brava attrice, davvero brava. Peccato che alla fine non fosse servito a nulla, se non a torturare un po’ la coscienza dell’elfo. Il drow non poteva rendersene conto, ma per Filvendor era stato davvero terribile dover fare quella scelta, e ne aveva sofferto molto più di quanto Zeerith potesse capire.

“...posso fare qualcosa al riguardo?”
Il sacerdote si scosse dalla sua distrazione momentanea, rendendosi conto che Sulerin gli stava parlando. Quei ricordi piacevoli avevano fatto deviare la sua mente, e questa era un’altra cosa che non poteva permettersi.
“Che cosa proponi di fare?” Le domandò, fingendo di aver ascoltato l’oggetto della domanda.
“Trovare la dannata fata e ucciderla, ovviamente!” Ribatté lei, incrociando le braccia con irritazione. Nella sua foga, non si era accorta dell’errore del chierico.
“Ed è necessario uccidere questa fata perché…?” Continuò a indagare lui, per tastare il terreno.
“Perché è una maledetta fata seelie!” Sulerin sibilò la parola come se fosse un insulto. “Ha imbrattato tutta la radura con il suo schifoso puzzo di magia seelie. Tu dovresti sapere che io discendo dal popolo unseelie, e le nostre razze si odiano con la stessa ferocia sanguinaria che separa drow ed elfi chiari. Solo che la nostra guerra va avanti da prima che le vostre rispettive razze si elevassero dallo stato di primitivi spiriti dei boschi.” Rivendicò, con una tracotanza razziale che Zeerith non aveva più sentito dai tempi in cui viveva sotto il giogo delle sacerdotesse di Lolth.
La foga della insoril lo fece sorridere, perché lui non covava particolare odio per gli elfi chiari. Li considerava semplicemente scarafaggi, da spazzare via prima di prendere legittimamente possesso della foresta. A partire da Allsihwann, la favoleggiata patria dei drow di Sarenestar, che secoli prima erano stati scacciati verso le montagne da una coalizione di elfi ed umani.
Ma ora gli elfi non sono più alleati degli umani, pensò, tirando le fila delle notizie che aveva appreso negli ultimi anni di indagini e spionaggio. Questo è il momento per colpire…
Altri colpi lo riportarono al presente, di nuovo. Era il piede di Sulerin, che tamburellava sul pavimento di pietra.
La fata lo stava guardando con espressione ferina ed impaziente. Zeerith le rivolse un sorriso che sperò essere affascinante, all’altezza della sua bella compagna.
“Preferisci dare la caccia a questa fata seelie, piuttosto che festeggiare con me il tuo ritorno fra noi?” Le domandò in tono invitante, tornando a sfiorare le sue labbra con un bacio. Era un gioco pericoloso, perché in quel momento la fata sembrava tanto pronta a baciarlo quanto a morderlo.
Ma lei non fece nessuna delle due cose. Sorrise, invece, lui la sentì piegare le labbra ad un soffio dalla sua guancia, poi si sporse a sussurrargli all’orecchio: “La tua compagnia mi diverte, mio Zeerith, il tuo cuore nero mi eccita e il tuo bell’aspetto mi compiace immensamente… ma nulla può dare gioia ad una vera unseelie quanto strappare il cuore a una patetica fata della luce.”
Zeerith sorrise di quell’entusiasmo, di quella ferale sete di sangue e di morte, e le concesse serenamente il permesso di andare a cercare “la sua preda seelie”. Le fate erano creature umorali, passionali. Di certo, al suo ritorno, Sulerin sarebbe stata di ottimo umore e più che mai vogliosa di festeggiare. Uno stato d’animo che lui pregustava con impazienza.



*********************
Nota: Sulerin è una Joystealer, dal Monster Manual 4. È un ladro magico, una classe non particolarmente potente ma che si adegua bene al suo carattere.
Nota 2: Dopo aver fatto un po' di ricerche sulla storia di questa regione, ho trovato che i drow seguaci di Vhaeraun si sono stabiliti nelle caverne del decaduto impero nanico del Profondo Shanatar quando sono dovuti fuggire da Guallidurth intorno al -620 DR, per via delle Guerre della Notte. Molto tempo dopo, la cittadella (ora perduta) di Allsihwann è stata strappata ai drow dalle "forze congiunte del Tethyr e degli elfi di Superficie", ma non c'è nessun riferimento cronologico nell'unico manuale che ne parla ("Drizzt Do'Urden's Guide to Underdark"). Il Tethyr però non è sempre stato una regione indipendente, ma solo da dopo la caduta dell'impero Shoon (450 DR). Basandomi sulla storia del Tethyr, che dal 1277 DR ha dato il via ad una persecuzione nei confronti degli elfi, ho deciso che questa alleanza dovesse risalire a molti secoli prima, in qualche momento della Storia dopo il 450 DR. Abbastanza perché l'esistenza di un nemico comune venisse dimenticata.
Edit: Abbiamo una data per la sconfitta dei drow, per mano delle forze del Tethyr nella persona di Re Strohm III, anno 742 DR [Empires of the Shining Sea, Grand History of the Realms], e delle congiunte forze degli elfi, straordinariamente, di Shilmista e non della foresta di Mir [Lands of Intrigue]. Questo è molto strano visto che Myth Dyraalis è stata fondata nel -375 DR quindi ci vivevano già gli elfi, nella foresta di Mir.

           

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Capitolo 12
*** 1287 DR: La loro guerra (Parte 1) ***


1287 DR: La loro guerra (Parte 1)


“E così….” Zeerith camminava con passo tranquillo intorno al nuovo arrivato, come per studiarlo da ogni punto di vista. “Vieni da Menzoberranzan?”
“In origine.” Rispose Daren, sinceramente. Sapeva che quell’ammissione poteva far sorgere il sospetto che fosse un seguace di Lolth, ma sarebbe stato inutile mentire ad un chierico. Inoltre, avrebbe potuto tranquillamente giurare in seguito di non essere un seguace di Lolth, e sarebbe stata comunque la verità. “Sono molti decenni che non metto piede in quella città.”
“Cosa ti ha spinto ad andare via? Non è così facile, per un singolo drow, allontanarsi dalla sicurezza di una città e attraversare il Buio Profondo."
Daren continuò con il suo piano di essere il più sincero possibile, fintanto che non gli costava nulla.
“All’inizio non ero solo, un mago viaggiava con me. Insieme abbiamo raggiunto Skullport. È stato lì che ho sentito parlare per la prima volta del Signore Mascherato. Il mio… amico… ha subito mostrato interesse per quel culto, ma io in quel momento non volevo saperne nulla di religione. È stato a causa della religione se ho dovuto lasciare Menzoberranzan, e la posizione che mi ero duramente guadagnato fra le guardie di palazzo del Casato che servivo.”
“Quale Casato?” Domandò Zeerith a bruciapelo, cercando di coglierlo in fallo.
“Maevret.” Rispose il guerriero, con sicurezza, senza esitare troppo né troppo poco. “Però è stato molti anni fa. Non credo che qualcuno si ricordi ancora di me.”
Zeerith rimase un momento in silenzio, preso in contropiede da quell’ammissione, poi scoppiò a ridere.
“Non mi disturberò certo ad andare fino a Menzoberranzan per indagare sull’identità di una guardia di palazzo. I miei incantesimi mi diranno se stai mentendo, e tanto mi basterà per decidere se assisterti o farti uccidere.”
Daren chinò il capo con falsa umiltà, in segno di riconoscimento del potere del chierico. Ovviamente si era aspettato qualcosa del genere, ma continuò a fingere di non intendersi affatto di magia divina.
“La tua identità è di scarso interesse per me, Daren. Sono più curioso del perché tu abbia lasciato la tua vita di prima e la tua posizione, e mi domando il motivo della tua idiosincrasia verso la religione.” Queste ultime parole in particolare vennero pronunciate in tono di crudele divertimento.
“Ebbene, signore, questa è stata una vicenda fastidiosa ma tristemente banale: la sacerdotessa incaricata della cura della cappella di Casa Maevret sviluppò un interesse carnale verso di me. Però non riuscì ad avermi.” Raccontò, e questo corrispondeva al vero. “In seguito, il mio amico mago mi rivelò che le sacerdotesse intendevano sacrificarmi a Lolth. Sono fuggito dalla città appena in tempo.”
Zeerith rise di nuovo, come se il racconto dell’ex-soldato fosse incredibilmente comico. Quasi nessuno degli altri guerrieri presenti si unì alla risata. Il culto di Vhaeraun vantava un cameratismo superiore alla media, per i canoni della cultura drow, e tutti loro avevano vissuto esperienze più o meno simili.
Il racconto di Daren era anche abbastanza veritiero, ad eccezione del fatto che i due eventi che aveva narrato non erano per nulla correlati e lui lo sapeva. La Signora che aveva cercato di portarlo a letto si era dimenticata il suo volto nell’istante stesso in cui lui era uscito dal suo campo visivo; il motivo per cui, decenni dopo, le sacerdotesse avevano cercato di sacrificarlo, era un altro. Ma non c’era motivo di annoiare il chierico con questi dettagli.
“E questo amico mago ha accettato di lasciare la sua posizione, probabilmente privilegiata, per addentrarsi nel Buio Profondo con te?”
Daren annuì in risposta alla domanda, in segno di comprensione. Non era così che funzionava l’amicizia fra drow, di solito, ma in quel caso An’drar aveva davvero preferito la sicurezza del loro rapporto di mutuo aiuto, piuttosto che rimanere da solo a fronteggiare gli intrighi del Casato senza il suo amico che fungesse da spia e gli guardasse le spalle.
“Immagino che anche lui stesse affrontando… ah… problemi politici di qualche tipo. Era soltanto un cugino, a malapena un nobile, ed era il mago ufficiale della Casata. In quel periodo uno dei figli della Matrona stava per diplomarsi a Sorcere... la scuola di magia.” Specificò, perché non sapeva se Zeerith conoscesse le infrastrutture di quella lontana città nel nord. “Io non sono un mago, né ho avuto la fortuna di crescere da nobile, ma credo che questa cosa rappresentasse una bella minaccia.”
Zeerith annuì in silenzio, concordando con quella deduzione: avere un rivale superiore in rango è sempre un gioco pericoloso. Dopo aver oziato per qualche secondo in quelle considerazioni, accantonò la questione del mago, che non gli interessava affatto; invece, vagliò con la mente il comportamento del nuovo arrivato. Il chierico sapeva che nessun drow avrebbe fornito tante informazioni di sua spontanea volontà se non avesse avuto disperato bisogno di alleati e di un riparo, e questo gli faceva credere di essere in una posizione di potere, come se il guerriero fosse lì a mendicare. E d’altra parte, come avrebbe potuto pensare diversamente? Chierici e maghi avevano sempre un’opinione poco lusinghiera di chi combatteva solo con i muscoli e l’acciaio.
“Mi hai spiegato perché sei fuggito da Menzoberranzan. Ma questo è sufficiente a far abbandonare a qualcuno la fede in cui è cresciuto?”
Daren scrollò le spalle. “Non sono mai stato particolarmente interessato al culto di Lolth. Ai maschi viene insegnato solo che devono obbedire alle femmine, perché esse parlano in nome della dea. Con queste premesse è stato facile abbandonare quelle ideologie.”
“Facile?” Zeerith sollevò un sopracciglio.
“Be', prima ho dovuto superare miei timori superstiziosi. Skullport mi ha aperto gli occhi, non sapevo che esistessero altre religioni oltre al culto della puttana dei ragni.” Lasciò trapelare un po’ di genuino disprezzo in quell’accorata dichiarazione. “E anche conoscendone l'esistenza, mi sarei aspettato che Lolth non li tollerasse e che scagliasse la sua maledizione sui drow che avevano osato allontanarsi da lei.”
“Lolth agisce attraverso le sue servitrici mortali.” Fu la breve ed enigmatica risposta del sacerdote.
Questa frase all’apparenza semplice fece suonare un campanello d’allarme nella mente del guerriero, perché il tono amaro con cui Zeerith aveva lasciato cadere quel commento, lasciava intendere… qualcosa. Daren si ripromise di scoprire cosa.
Il chierico agitò le mani nell’aria, compiendo gesti incomprensibili ai più, e la strana luce che scintillava nelle sue pupille scomparve. Daren immaginò che avesse soppresso l’incantesimo che rivelava le menzogne, ma non lasciò intendere di averlo capito, né mostrò alcuna emozione.
“Non posso lasciarti proseguire verso le nostre comunità protette sulle montagne.” Annunciò il chierico. “Non certo per sfiducia verso di te…” disse in tono scherzoso, e qualcuno dei presenti ridacchiò “...ma perché potresti essere catturato lungo la via, e non possiamo permettere che qualcuno sappia che siamo qui.”
“Catturato?” Daren si irrigidì, mostrando nervosismo. “Da chi?”
Zeerith indugiò con lo sguardo sugli altri drow presenti nella stanza, come se stesse facendo un conteggio mentale, poi tornò a concentrarsi sul nuovo arrivato. “Il culto di Vhaeraun ha molti nemici.” Si limitò a dire. “Sia sotto la Superficie, che sopra.”
Daren annuì, mantenendo però un’espressione lievemente perplessa.
Dunque non volete che gli elfi sappiano che siete qui. Comprensibile. Ma perché siete qui, se le vostre “comunità” sono sotto le montagne? Perché siete qui da così tanto tempo? Si chiese, rimuginando sulla cosa. Si presumeva che il ranger del clan Gysseghymn fosse scomparso da molti mesi, quasi un anno. E quali nemici avete nel Buio Profondo, in questa regione del mondo?
Daren conosceva il Buio Profondo delle regioni nord-occidentali, dov’era nato e cresciuto, e aveva viaggiato sulla Superficie lungo buona parte della Costa della Spada, ma non conosceva il Buio Profondo meridionale, una mancanza di cui ora si rammaricava. Decise che in futuro avrebbe imparato il più possibile sulla geografia del Buio Profondo… se fosse sopravvissuto a questa missione, ovviamente.
“Non posso farti proseguire verso i nostri insediamenti, ma puoi rimanere con noi. Un guerriero in più fa sempre comodo.” Zeerith non aggiunse altro, ma Daren poteva quasi udire le parole non dette che rimasero sospese nell’aria: e intanto giudicheremo se sei affidabile. Non che si aspettasse qualcosa di diverso.

Sulerin aveva deciso di cominciare le sue ricerche dalla radura dove aveva percepito vibrazioni di magia seelie. Non avrebbe saputo da dove altro cominciare.
Stava per emergere dal terreno (quando sei incorporea non ti serve passare dai cunicoli), quando cominciò a sentire strani rumori intorno a sé. Non ne era sicura, perché i suoni erano attutiti dallo strato di terriccio, ma la roccia al di sotto riverberava leggermente per quelle vibrazioni sonore, producendo un rumore di fondo che solo una creatura dall’udito fine avrebbe potuto captare.
Erano forse delle voci? Di certo non sembravano i normali rumori della foresta.
Sulerin sporse cautamente un orecchio fuori dal terreno, appena quanto bastava per captare quei suoni direttamente dall'aria. Sì, erano voci, sussurri in lingua elfica; capì di trovarsi molto vicina alla fonte di quelle voci. Se fosse emersa dal terreno senza badare ai messaggi dei suoi sensi, si sarebbe trovata direttamente in mezzo agli elfi, cosa per cui ringraziò la sua naturale prudenza.
Lei comprendeva l'elfico, naturalmente, e si concentrò al massimo per continuare a captare quella conversazione anche mentre gli elfi si allontanavano.
“Aspettiamo… altri… iamo insieme.” “No, dovremmo… ordine… uno nelle retrovie.” “...Pericoloso… non sappiamo… drow... anto tempo…”
La fata non era in grado di distinguere bene chi stesse dicendo cosa, e alcune parole non avevano senso per lei perché a distanza soltanto le vocali risaltavano e lei doveva più o meno costruirci intorno la parola, ma una cosa l'aveva capita: gli elfi avevano scoperto che lì sotto c'erano dei drow, e ora si trovavano proprio in una radura dove sbucava uno dei cunicoli d'ingresso al piccolo regno sotterraneo di Zeerith.
Sulerin strinse i denti, infastidita. Che cosa doveva fare ora? Tornare dal suo amante a riferire?
Zeerith è convinto di essere il mio signore. Ragionò, scrollando le spalle con uno sbuffo di derisione. Ma io sto con lui solo perché mi diverte. Non ho obblighi nei suoi confronti… in un momento migliore andrei ad avvisarlo, così potrebbe preparare una trappola per gli elfi e io avrei tanti nuovi prigionieri con cui giocare. Ma una singola fata seelie per me vale più di un migliaio di elfi, torturare e uccidere quella maledetta cosa è la mia assoluta priorità… La sola idea la faceva vibrare di anticipazione, e decise che non poteva abbandonare una traccia fresca per compiere stupide deviazioni o dedicarsi a questioni secondarie.
Certo, se la fata fosse in mezzo agli elfi sarebbe la perfezione...
Intrigata da questa nuova idea, Sulerin giudicò che gli elfi si fossero allontanati abbastanza e finalmente emerse dalla terra, nascondendosi subito dietro alcuni cespugli al limitare della radura.
Gli elfi erano spariti, ma i viticci che coprivano l'ingresso del cunicolo oscillavano ancora. Soltanto uno di loro era stato lasciato indietro, ma anche lui si stava preparando a seguire gli altri.
Sulerin fece appello alla sua vista magica per captare se la creatura avesse su di sé qualche incantesimo, e si accorse appena in tempo che la fortuna le stava sorridendo in modo sfacciato: l'elfo aveva su di sé una traccia di quella magia seelie. Forse era lui la fata, o quantomeno doveva sapere chi fosse.
Potrei andare ad avvertire Zeerith, così catturerebbe anche questo elfo. Ma se non fosse lui la fata? Ogni istante in cui esito ad interrogarlo, quella creatura potrebbe allontanarsi sempre di più. No, prenderò io stessa questo elfo. Poi andrò a cercare la fata, e se mi avanza tempo avvertirò il chierico. Gli elfi impiegheranno ore a trovare l'accampamento drow, comunque.
Sulerin si accorse che anche l'ultimo elfo stava entrando nella caverna, quindi decise che doveva agire subito. Come attirare la sua attenzione? La fata si rannicchiò in modo da nascondersi bene dietro le basse fronde dei cespugli e si lasciò sfuggire un singhiozzo, cercando di sembrare disperata e bisognosa d'aiuto.
Il perfetto udito elfico e il cuore morbido della sua preda fecero il resto del lavoro.
Il ranger si girò, e la fata unseelie si rese conto che dopotutto non era veramente un elfo: sulla sua fronte spiccava un bozzo che poteva sembrare un enorme bernoccolo, ma in realtà era un tozzo accenno di corno. La creatura era un alicorn, figlio dell'unione proibita fra un elfo e un unicorno. Sulerin non era in grado di distinguere molto fra le razze elfiche, quindi non si accorse che il genitore elfo di questo alicorn doveva essere qualcosa di diverso da un Or-tel-quessir, un elfo dei boschi. Se fosse stata abbastanza esperta da riconoscere i tratti di un elfo del sole, avrebbe capito che l’alicorn non era originario di quella foresta, invece questo frammento di informazione restò al di fuori della sua portata.
Che ibrido disgustoso, sono sconcertata che gli permettano di vivere con loro. Pensò, sopprimendo un brivido. Tuttavia... se anche lui se la fa con gli unicorni, non è così strano che possa frequentare delle fate seelie.
Ma per ora dovette allontanare quelle riflessioni perché il ranger si stava avvicinando, dopo aver stabilito da quale direzione fosse arrivato quel singhiozzo. Aveva un'aria cauta, ma anche nervosa, come se avesse fretta.
Sulerin si ritrasse un po’ indietro, fra gli alberi, e singhiozzò di nuovo, cercando di apparire ancora più disperata.
L’alicorn avanzò, ormai aveva superato il confine virtuale fra la radura e la foresta, ed era circondato da alberi, proprio come Sulerin aveva pianificato.
La fata era una creatura incorporea, quindi la prima cosa che aveva imparato era lanciare incantesimi senza bisogno di componenti materiali, che non avrebbe potuto toccare o raccogliere. Per quell’incantesimo le sarebbe servito un brandello di ragnatela, perché una delle regole della magia è che il simile agisce sul simile, ma grazie al suo particolare talento magico le bastava visualizzare con estrema chiarezza l’effetto che voleva ottenere. Agitò le mani davanti al volto, mormorando una cantilena arcana e attingendo alla Trama per reclamare un po’ di energia magica; una spessa coltre di ragnatele sembrò comparire dal nulla, come se prima fosse stata invisibile, riempiendo tutto lo spazio fra gli alberi sotto cui l’alicorn stava camminando.

Raerlan era sicuro di aver sentito qualcosa, un singhiozzo che poteva venire da un elfo o da una simile creatura senziente. Maledicendo la sua sfortuna, perché aveva davvero fretta di seguire i suoi compagni, fece comunque una deviazione per controllare. Se c’era qualcuno in difficoltà, la sua etica gli impediva di lavarsene le mani.
Seguì quel suono fin dentro la foresta, curioso e un po’ preoccupato. Proprio quando stava per iniziare a sospettare che fosse un qualche tipo di trappola, l’aria intorno al suo corpo si riempì di ragnatele appiccicose, che comparvero con la nonchalance di chi finge di essere sempre stato lì. Raerlan però era capace di riconoscere un incantesimo quando lo vedeva.
Cercò di schivare i fili appiccicosi, rotolando fuori dall’area, ma la rapidità non era mai stata il suo forte. Si ritrovò invischiato in quell’intrico di filamenti collosi, avvoltolato peggio che mai proprio a causa del suo tentativo di muoversi.
Una creatura semi-trasparente, decisamente femminile, spuntò fuori dal tronco di un albero. Aveva un bagliore malvagio nello sguardo e a Raerlan bastò un’occhiata per capire che non si trattava di una driade.
Per gli dei. Era davvero una trappola. Pensò, con un sospiro rassegnato. Che fardello avere sempre ragione.

           

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Capitolo 13
*** 1287 DR: La loro guerra (Parte 2) ***


1287 DR: La loro guerra (Parte 2)


Sulerin si avvicinò lentamente all'alicorn prigioniero, scrutandolo con interesse. Nei lunghi secoli della sua esistenza, la fata aveva imparato a riconoscere la magia altrui e rubarla, per utilizzarla lei stessa, ma ora non riusciva esattamente a capire quali incantesimi di magia seelie avesse questo ranger sulla sua persona. Certo, lei era consapevole di sapere ben poco di magia seelie, ma questo non le era di alcun conforto.
Forse era tempo di interrogare l'alicorn con metodi più mondani.
Il ranger la stava osservando, con lo stesso calmo interesse con cui lei guardava lui, e la cosa le dava fastidio. Era lui ad essere nei guai, avrebbe dovuto provare paura.
Ti tirerò fuori qualche emozione, stolto. Si ripromise, corrucciandosi. Per quando avrò finito con te, ti avrò suscitato abbastanza paura e disperazione da poterne banchettare per tutto il giorno.
Allungò una mano, come per schiaffeggiarlo. Ovviamente, essendo Sulerin una creatura incorporea, la sua mano avrebbe dovuto passare attraverso la testa del prigioniero.
Avrebbe dovuto, ma non lo fece. Invece lo schiaffeggiò come se fosse stata di carne e ossa, e la fata non riuscì a compiere il suo solito malvagio trucco magico: risucchiare la sicurezza e il coraggio delle persone che trapassava con il suo freddo tocco incorporeo. Si guardò il palmo, indispettita, come se il suo stesso corpo l’avesse tradita. Lui aveva forse un incantesimo di trappola fantasma su di sé, come l’anello magico di Zeerith? Ma no, lei era ancora intangibile. Ci riprovò, e di nuovo il contatto con la pelle dell'alicorn risultò fastidiosamente reale.
“Hai finito di schiaffeggiarmi, ragazza? Cosa ho fatto per meritarmi questo?” Domandò lui, con le guance arrossate e doloranti. “Sei forse… una mia vecchia amante che ho scordato? Ti ho abbandonata nel bel mezzo di qualcosa?” Sollevò un biondo sopracciglio e le rivolse un sorriso sghembo, complice.
Nonostante fosse un alicorn, la versione più goffa e robusta di un elfo, in quel momento a lei sembrò improvvisamente affascinante. Di solito un maschio con quella fisicità non sarebbe stato il suo tipo, ma aveva appena colto qualcosa nel suo sguardo, una provocazione, una certa nota cinica nella sua voce… e il suo sorriso aveva forse una piega maliziosa, o addirittura crudele? Possibile che lui fosse come lei, un ladro di magia, e che avesse rubato quel misterioso dweomer ad una fata seelie?
L’idea era intrigante. Più che intrigante, era eccitante. Anche perché era… praticamente impossibile. Sulerin scosse la testa, realizzando l’assurdità di quel pensiero; era arrivata davvero molto vicina al crederci, ma il suo buonsenso e le sue vaste conoscenze alla fine presero il sopravvento.
Ma no, è un alicorn. Gli alicorn malvagi sono rarissimi. Questa sua magia… è un dweomer specchiante. Capì infine, riconoscendo l'effetto più che l'aura magica in sé. Fa in modo che io… che chiunque… lo veda simile a sé, per suscitare un senso di familiarità e simpatia.
Che piccolo furbetto bastardo.

Il terzo schiaffo fu completamente intenzionale, e decisamente più forte.

Raerlan incassò il terzo ceffone, senza emettere un gemito. In modo dissimulato, cercò di muovere e stendere con cautela le braccia, per saggiare la resistenza di quelle ragnatele. Erano elastiche, ma non abbastanza da consentirgli una vera libertà di movimento. Avrebbe potuto cercare di svicolarsi, o perfino di strappare quelle reti appiccicose, ma questa era una cosa che di norma sarebbe stata un po’ troppo al di là della portata di un semplice ranger. Essere un alicorn gli conferiva una maggiore prestanza e forza fisica, ma fino ad un certo punto. D'altro canto, aveva capito che tipo di creatura fosse Sulerin, sebbene non ne vedesse una da… innumerevoli anni. La sua presenza nella foresta lo inquietava molto, e forse farla parlare sarebbe stato più utile che fuggire.
Se solo, però, fosse riuscito a liberarsi le mani abbastanza per lanciare incantesimi...

Sulerin non gli lasciò il tempo di prendere decisioni. Estrasse dalla manica un piccolo pugnale che sembrava fatto di cristallo e diresse un affondo crudele verso l’occhio sinistro del prigioniero. Raerlan sussultò, sporgendo indietro la testa quanto più possibile, preoccupandosi solo di non morire; forse avrebbe perso un occhio, ma un colpo così misero non l’avrebbe ucciso… se solo avesse allontanato abbastanza la testa.
Ma non era quella il vero obiettivo della malvagia insoril. All'ultimo istante la fata deviò il colpo e anziché infilzare la punta del pugnale nell'occhio dell'alicorn diresse la lama più in basso, fra la base del collo e la clavicola.
Raerlan rimase senza fiato e percepì in bocca il sapore del sangue, ma soprattutto si sentì montare un attacco di panico: la sua nemica stava usando qualche trucco magico per rubare l’effetto del suo rituale! L'alicorn poteva sentire fisicamente le sue barriere che venivano strappate strato dopo strato e trasferite a lei mediante il pugnale di cristallo.
Questo significava che presto avrebbe avuto problemi peggiori della ferita - che non era mortale e che la sua cintura magica avrebbe guarito in poco tempo -, peggiori della insoril, peggiori perfino dei drow sotto la foresta.
“Che cosa hai fatto?” Gridò con una voce strana, che non riconobbe come sua, resa acuta dalla paura e allo stesso tempo arrochita dalla ferita che gli aveva fatto colare del sangue nei polmoni. Un colpo di tosse lo costrinse a piegarsi, e approfittò di quella posizione per cercare di fare forza sulle reti.

Sulerin fece un passo indietro, lasciando cadere il pugnale insanguinato. Non si era chiesta come mai un alicorn che viveva in mezzo agli elfi avesse bisogno di un incantesimo specchiante. Ora la sua vista magica le stava restituendo immagini piuttosto confuse, come se il suo prigioniero fosse magico e allo stesso tempo non lo fosse. Si coprì gli occhi con le palme delle mani, rendendosi conto che strani aloni di luce continuavano a danzare sulla sua cornea anche dietro la protezione delle palpebre chiuse.
“Che… che cosa diavolo sei?” Balbettò, strofinandosi gli occhi.
“Maledetta pazza!” Ora la voce dell'alicorn era più chiara e comprensibile e… vicina. Aprì gli occhi e lui era lì, ad un passo da lei. Aveva dato fuoco alla ragnatela e alcuni lembi stavano ancora sfiammando, ma la combustione era stata troppo rapida perché facesse danno anche agli alberi. Lui aveva ancora la fiamma nelle mani, Sulerin riconobbe un basilare incantesimo druidico per accendere piccoli fuochi… o bruciare i nemici.
Cercò a tentoni il suo pugnale, ma le era caduto di mano poco prima.
“Ridammi le mie protezioni magiche!” Intimò lui, colpendola di piatto allo stomaco con la mano che reggeva la fiamma.
Sulerin fece un balzo indietro ma non riuscì a schivare il colpo. Non era stato molto doloroso, ma era passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui qualcuno era riuscito a ferirla e questo non le piacque.
“Posso farlo. Lo farò, se me ne dai occasione.” Mentì, occhieggiando il pugnale a terra e pensando a quali opzioni aveva. Il suo tocco capace di risucchiare la voglia di vivere e la fiducia in sé stessi, sembrava non funzionare su questo nemico, prima di tutto perché si basava sul fatto che fosse un attacco incorporeo e questo alicorn ne sembrava immune. No, doveva recuperare la sua arma… “Per farlo però devo ripetere il processo all'inverso, il potere viene veicolato dal mio pugnale.”
“Allora forse io dovrei pugnalare te.” Propose lui, con un ringhio.
Sulerin sentì una goccia di sudore freddo scenderle lungo la tempia. Non era ancora paura, perché credeva ancora di poter fuggire agevolmente, ma non le piaceva affatto non saper determinare la forza del suo rivale, e il fatto che da preda fosse diventato predatore le piaceva ancor meno.
Così come la piega che stava prendendo la conversazione.
Fece qualche passo indietro, sporgendo le mani avanti come per tranquillizzarlo. “Senti… non è necessario, va bene? Si tratta di un effetto temporaneo. Riavrai la tua magia fra meno di dieci minuti.”
“La riavrò prima se ti uccido, penso”. Propose lui, scuro in volto.
Sulerin fece un altro passo indietro e si nascose all'interno del tronco di un albero, complimentandosi con sé stessa per la sua astuzia. Di certo un alicorn, ranger, protettore della foresta, non avrebbe mai rischiato di nuocere ad un albero con la spada o con il fuoco… ma lui fece qualcos'altro. Dissipò la fiamma che aveva ancora in mano, aprì le braccia e in qualche modo riuscì ad emettere una pulsazione di energia che la raggiunse anche se si trovava dentro all'albero. Sulerin si piegò dal dolore, mentre quella cosa aggrediva la sostanza stessa di cui era fatta, lasciandola senza fiato e mezza morta. Un capogiro la fece cadere a terra e dovette dare fondo a tutta la sua forza interiore per non morire sul colpo.
Sulerin non era una novizia, aveva partecipato a molte guerre e razzie, sebbene spesso controvoglia, e conosceva quel tipo di potere: l'alicorn era uno sciamano, uno che aveva un particolare potere sugli spiriti. E ne aveva parecchio. Doveva essere uno sciamano di grande esperienza.
Questo spiegava anche l’immunità al suo tocco incorporeo, in effetti, e la fata si maledisse per essere stata così stupida.
Si accorse che la sua testa era scivolata fuori dall'albero quando sentì che lui le rivolgeva la parola.
“Non sei ancora morta, unseelie?” Il suo tono era amaro e colmo di odio. Sulerin alzò lo sguardo e si accorse che lui stava per utilizzare di nuovo il suo potere che tormentava gli spiriti, e seppe con certezza che questa volta sarebbe morta. Non aveva speranza di suscitargli compassione, di ingannarlo, né tanto meno di sedurlo, perché lui… lui era una maledetta fata seelie, ora lo capiva, e la guerra fra le loro razze era una cosa più grande della loro scaramuccia, più grande delle loro vite, del loro odio, e più grande di ogni speranza di pietà.
Sulerin si lasciò cadere all'interno del terreno, senza sapere se la magia dello sciamano l’avrebbe raggiunta anche lì.

Raerlan la guardò sparire, corse verso l’albero dove si era nascosta e rilasciò un’altra ondata di energia. Sperava di riuscire ad ucciderla, e che questo gli restituisse l’effetto del suo rituale. Tuttavia, anche dopo aver atteso molti secondi, non accadde nulla. Non si sentiva in alcun modo diverso.
O lei non era morta, oppure la sua morte non era sufficiente. In entrambi i casi, ora Raerlan si trovava nelle grane. Rifare il rituale gli avrebbe portato via diverse decine di minuti, e i suoi amici che si erano addentrati nel sottosuolo potevano non avere tutto quel tempo.
Forse, recandomi sottoterra, lo strato di roccia nasconderà la mia aura nello stesso modo in cui impedisce il passaggio di molti incantesimi. Si disse, tornando verso l’ingresso della caverna. Posso solo sperarlo. Stanotte, con la luna piena, ripeterò il rituale… poi dovrò lasciare Sarenestar. Starò lontano alcuni mesi. Per essere sicuro di deviare ogni sospetto da questo luogo.

Raerlan raggiunse l’imbocco della galleria e si fermò sulla soglia. Sono luoghi particolari, le soglie; per chi sa dove guardare, è possibile scorgere il confine fra questo mondo e il mondo degli spiriti.
“Visne?” Chiamò, a bassa voce. I suoi compagni non si vedevano più, ma non si era mai abbastanza prudenti.
Forse lei lo aveva sentito. La sua voce aveva riverberato fra i mondi? O era solo l’eco dato dalle pareti di roccia? Raerlan si graffiò un dito con la lama affilata della sua spada e cominciò a mormorare un’antica cantilena. Con il dito indice che ancora sanguinava, tracciò con attenzione il contorno della soglia, alzandosi in punta di piedi per toccare la volta anche nel suo punto più alto. Quel semplice rituale aveva un prezzo, Raerlan lo sentì prosciugare parte della sua energia vitale, ma funzionò.
Una figura semi-trasparente entrò nella caverna con passo tranquillo, come se si fosse trovata nella radura, anche se in realtà veniva da molto più lontano. Questa volta non era una malvagia insoril, ma un'elfa dei boschi.
“Hai mandato indietro Mavael”. Gli disse lei, con una voce che risuonò soltanto nella sua mente.
“Sì. Questo luogo è troppo pericoloso per un bambino.”
L’elfa annuì in silenzio, approvando la sua scelta.
“Puoi darmi un corpo?”
Raerlan scosse la testa come per scusarsi. “Ci vuole troppo tempo, e troppa fatica. Non è necessario che tu combatta, né che gli altri ti vedano. Devi solo trovarlo. Puoi farlo…?”
“So benissimo dove si trova.” Rispose lei, sempre muovendo le labbra in silenzio. “E la cosa mi tormenta ogni minuto.”
L’alicorn annuì. “Mi dispiace, Visne. Mi dispiace di aver dovuto attendere. Ma devo capire perché i drow si trovino qui, e se c’è qualcuno in grado di scoprirlo, è…”
“Il drow delle ombre.” Rispose lei, annuendo in segno di comprensione. “Il dolore di Filvendor non è colpa tua.”
L'elfa si addentrò nella caverna, facendogli cenno di seguirla. Raerlan le andò dietro, ripassandosi nella mente le sue ultime parole, desiderando di poterci credere.

           

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Capitolo 14
*** 1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 1) ***


1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 1)


Raerlan recuperò gli altri in meno di cinque minuti, scusandosi sottovoce per essere rimasto indietro.
“Mi sembrava di aver visto qualcuno che ci spiava, ma mi sono sbagliato, era solo una driade. Improbabile che fosse alleata dei drow.”
“Una driade? Non se ne vedono da molti anni.” Commentò Merildil, sollevando le sopracciglia per lo stupore.
Raerlan si rimproverò mentalmente; la dama era una druida, era naturale che si facesse delle domande, ora che l’alicorn era stato spogliato dall’effetto del suo rituale e nulla più impediva agli elfi di vedere le incongruenze logiche nelle sue menzogne. Nelaeryn fece un commento a mezza voce sul correre dietro alle donzelle in un momento di crisi, ma a parte questo, la questione venne lasciata cadere subito. Avevano questioni più urgenti a cui pensare, e nessuno in quella compagnia aveva motivo di dubitare del loro goffo amico ranger.
“Il buon Wilhik ha utilizzato le pergamene magiche del suo maestro per renderci irrintracciabili alla divinazione magica.” Spiegò Merildil. “Ne hai bisogno anche tu, Raerlan?”
Questa domanda lo mise in difficoltà. Aveva affermato di essere già protetto da simili magie, e fino a poco prima era vero, ma ora cosa avrebbe dovuto dire? Smentire quello che aveva raccontato prima avrebbe suscitato sospetti, ma avventurarsi nel territorio drow senza protezioni avrebbe messo in pericolo tutto il gruppo.
“Io…” in quel momento, con eccellente tempismo, la sua magia seelie tornò da lui. Raerlan sorrise, sentendosi avvolto in quel rassicurante dweomer come se fosse stato l’abbraccio di una madre. “No, grazie, come ho detto ho già le mie protezioni.”
Forse qualcuno degli elfi avrebbe fatto domande, di norma, ma l’incantesimo cancellò quei dubbi prima che potessero mutarsi in parole nelle loro menti.
Però non posso ignorare il fatto che la protezione magica potrebbe non bastare. Si disse, preoccupato. La insoril aveva detto che in qualche minuto avrei riavuto la mia magia, e così è stato. Significa che non è morta. Potrebbe non avere rapporti con i drow, ma quale strana coincidenza che fosse proprio qui e proprio ora.
Non posso dirlo agli altri. A cosa servirebbe? Però c’è qualcos’altro che posso fare… quando sarà il momento.


Altrove, nello stesso momento


“Elfi dei boschi? E quanti sarebbero?”
“Non lo so, Zeerith, non li ho visti bene. Un gruppetto.” La insoril agitò le mani manifestando una certa urgenza. “Ma non è la cosa peggiore! Hanno un alicorn che li accompagna, ed è lui la fata seelie che avevo percepito.”
“E non l'hai ucciso?” Zeerith fu molto attento a cercare di tener fuori ogni giudizio ed ogni sarcasmo dal suo tono di voce. Si era da tempo fatto l'idea che la fanciulla avesse un'opinione troppo alta di sé, ma non era così pazzo da farglielo intendere.
“È lui che ha quasi ucciso me. È uno sciamano, con un grande potere sugli spiriti.”
“Ah… e dovrei preoccuparmene? Io e i miei guerrieri non siamo spiriti.” Si permise di prenderla almeno un po’ in giro.
Sulerin gli scoccò uno sguardo che era puro veleno.
“Sì, mio caro, dovresti preoccupartene, perché gli sciamani hanno accesso alla stessa magia dei druidi.”
Zeerith sapeva già che se qualcosa era in grado di spaventare una insoril allora era un qualcosa di cui tenere conto, ma l'espressione grave di Sulerin e ora questa notizia lo fecero sudare freddo.
“Sai qualcosa dei suoi compagni?” Domandò, ma lei stava già scuotendo la testa prima che il chierico finisse di parlare. “Saresti disposta ad avvicinarti per spiarli?”
No!” Sbottò la ragazza, incredula. Poi decise che era il momento di chiarire la sua posizione. “Sono tornata per avvertirti solo per onorare i bei momenti che abbiamo passato insieme e il tiepido sentimento che provo per te. Ma per quanto mi riguarda la nostra collaborazione termina oggi. Me ne andrò il più lontano possibile da questa foresta.”
“Suvvia, Sulerin…” lui le poggiò le mani sulle spalle delicate, preoccupato per le conseguenze dalla decisione drastica di quella potente alleata. “Non dovresti prendere una simile decisione quando sei così turbata. Pensi forse che possiamo essere sconfitti da questo gruppetto?”
Sulerin si rifiutò di incrociare il suo sguardo. Nonostante i predagioia siano capricciosi e maligni quanto qualunque fata unseelie, il loro popolo ha anche un certo orgoglio razziale, e personale. Sulerin era una delle più antiche insoril ancora in vita, nata tremila anni prima che il grande Netheril sorgesse da un'alleanza di villaggi di contadini. Il fatto di dover fuggire la riempiva di vergogna e di rabbia, ma ricordava molto bene l'incontro con lo sciamano e non aveva nessun desiderio di ripetere l'esperienza.
“Mi dispiace Zeerith ma la mia decisione è definitiva. Voi potrete anche vincere questo confronto, ma uno sciamano sa camminare nel mondo degli spiriti; è molto probabile che riesca a sfuggirvi e a quel punto verrebbe a cercarmi. Voglio sperare che non mi stia cercando anche ora, voglio sperare che la sua lealtà verso quegli elfi sia abbastanza forte da tenerlo lontano da me, almeno per il tempo che mi servirà a mettere molte miglia fra me e lui.”
“E quindi passeresti la vita a fuggire? Non sarebbe molto meglio collaborare con noi ora, per ucciderlo? Dopotutto, Sulerin, quando ti capiterà nuovamente di avere alleati così validi al tuo fianco?”
Questa obiezione era molto sensata, e la fata si fermò a considerare seriamente la cosa. Era vero, se fosse scappata ora avrebbe dovuto scappare per sempre. Ed era anche vero che non avrebbe trovato facilmente altri alleati potenti quanto il chierico drow e i suoi sottoposti.
“Come posso essere sicura che riusciremo ad ucciderlo?” Domandò, concedendo a quel piano almeno una possibilità.
Zeerith sorrise con l'aria di un serpente che sta per attaccare, agitò la mano sinistra che era sempre coperta da un guanto di seta, e sul suo palmo comparve dal nulla un sottile stiletto che anche nel buio assoluto della caverna sembrava riflettere come uno specchio. Sulerin riconobbe all’istante la vera natura di quell'arma.
“Un pugnale di ferro freddo!” Esclamò, facendo un passo indietro. “Lo hai avuto per tutto questo tempo? Progettavi forse di uccidermi, Zeerith?” Inquisì, assottigliando gli occhi.
“Ovviamente no, mio zuccherino. Solo una misura precauzionale nel caso la tua natura predatrice avesse preso il sopravvento e tu avessi cercato di uccidermi mentre ero… soggiogato dai miei sensi.”
Sulerin incrociò le braccia, senza abbandonare il suo corruccio. “A me pare che tu non sia mai veramente soggiogato dai tuoi sensi.” Recriminò. “E comunque era una precauzione inutile. Tu sei l'amante più divertente che io abbia trovato negli ultimi mille anni, non ti avrei mai fatto del male.” Quest'ultima uscita le scatenò emozioni conflittuali, perché era vero, non nutriva alcuna intenzione di nuocere a Zeerith: pensava che lui rappresentasse un punto di svolta nella sua vita, almeno per il momento, perché grazie al chierico drow la foresta di Sarenestar sarebbe presto diventata il suo parco giochi. Ma c'era qualcosa più di questo, erano due anime nere affini, i loro giochi e le loro passioni avevano soddisfatto e stimolato perfino una creatura esigente come lei. Nessuno dei due probabilmente avrebbe mai provato quel sentimento debole e ridicolo che era l'amore, ma la fata si era comunque in certa misura affezionata a Zeerith, non le piaceva l'idea di dover fare a meno di lui.
In qualche modo, il pensiero che lui invece fosse così tranquillo all'idea di sbarazzarsi di lei, la fece andare su tutte le furie. Ma non glie l'avrebbe fatto capire, perché al momento avevano problemi più pressanti. In quell’istante decise su due piedi che avrebbero ucciso lo sciamano, e anche gli elfi per quel che importava, avrebbero conquistato la foresta insieme, e alla fine lei avrebbe trovato il modo di uccidere anche i drow. Zeerith per primo, poi gli altri. Avrebbe banchettato con la loro paura.

Zeerith stava covando pensieri simili. Sapeva che mostrare alla insoril il suo pugnale era un rischio, e lei purtroppo aveva reagito esattamente come lui temeva: come la creatura passionale e poco lungimirante che era. In quei mesi passati insieme era giunto a capire che nonostante Sulerin vedesse se stessa come un'astuta pianificatrice e una creatura molto intelligente, in realtà era troppo assoggettata ai moti della passione. Non era mai riuscita a nascondere la sua fame e il suo desiderio, così come ora non riusciva a dissimulare la sua rabbia. Il fatto stesso che ci stesse provando gli fece comprendere che la fata progettava di ucciderlo.
Aveva abbastanza stima dell'intelletto di Sulerin per immaginare che non l'avrebbe fatto subito, non prima di aver debellato il pericolo degli elfi e dello sciamano seelie. Quindi, per il momento, mantenere quell’alleanza era abbastanza sicuro.
Lasciamo che combatta per me, si disse, sentendosi molto astuto. Se tutto va per il meglio, non dovrò nemmeno ucciderla io personalmente. Basterà solo sfruttare il suo naturale odio per i seelie e per le creature buone.
“Perdonami, mia bellissima.” Le disse invece, accarezzandole una guancia con la mano. “Sono soltanto un mortale e non capisco fino in fondo la tua natura fatata. Non avrei mai usato quel pugnale a meno che non avessi dovuto difendere la mia vita.”
Lo sguardo di biasimo di Sulerin si ammorbidì un poco.
“Sei proprio uno sciocco, Zeerith.” Sospirò. “Ma avremo tempo dopo per fare la pace. Quando avremo ucciso lo sciamano e catturato quegli elfi, voglio fare sesso con te mentre i tuoi guerrieri li scuoiano.”
Zeerith rise, per una volta con sincerità. Gli sarebbe mancata, la sua piccola fatina perversa. Un centinaio di schiave elfe recalcitranti non avrebbero retto il confronto con una sola Sulerin, ma certe volte bisogna fare dei sacrifici.

Daren cominciava a provare fastidio nel vedersi intorno tutta quella gente, ed era in mezzo a loro da pochi minuti appena. Non aveva mai amato accompagnarsi ai suoi simili, nemmeno quando viveva a Menzoberranzan, era sempre stato un solitario, con la notevole eccezione del suo alleato mago. All’epoca le sue motivazioni erano squisitamente pragmatiche: qualsiasi drow poteva essere quello che gli avrebbe piantato un coltello nel fianco per prendere il suo posto, sebbene si fosse sempre premurato di ricoprire un ruolo modesto; non l’ultimo della scala gerarchica, ma per tutti gli dèi, certamente nemmeno il primo. Ora invece la sua misantropia aveva radici più nei sentimenti che nella ragione. Non è che i drow avessero avuto il tempo di fare qualcosa di male, da quando era lì, ma il loro generico atteggiamento non gli piaceva. Una battuta, un gesto, una posa che denotava tensione; questa gente doveva essere un gruppo ristretto di alleati, eppure non si fidavano completamente gli uni degli altri, e Daren si accorse che ormai era abituato ad uno stile di vita troppo diverso per poter sopportare a lungo quelle dinamiche di sottili equilibri e sotterfugi. E questi erano seguaci di Vhaeraun, erano per definizione alcuni fra i drow più mutuamente collaborativi che si potesse trovare. Sì, seguivano un dio delle menzogne e degli inganni, ma erano una minoranza costantemente minacciata, cosa che faceva molto per radicare la fiducia reciproca.
Daren sospirò, pensando fra sé e sé che talvolta nemmeno fra i seguaci di Eilistraee c’era perfetta fiducia. Il sospetto che qualcuno fosse una spia non poteva mai abbandonare completamente l’animo di un drow; inoltre, in qualsiasi religione, buona o malvagia che fosse, i chierici e le sacerdotesse potevano avere i loro giustificati motivi per mentire ai fedeli.
Allontanò questi pensieri oziosi, concentrandosi invece sul chierico in carne ed ossa che avevano fra loro. Daren lo aveva inquadrato subito come il più pericoloso del gruppo, dal momento che perfino il loro mago sembrava sottilmente a disagio in sua presenza. Il guerriero aveva imparato decenni prima che l’arroganza dei maghi era la migliore cartina tornasole: quando loro temevano o rispettavano un avversario, significava che il pericolo era reale.
“A quanto pare abbiamo dei visitatori.” Annunciò il chierico, battendo le mani una volta. Questo catalizzò immediatamente l’attenzione di tutti. “E non mi sto riferendo al nostro nuovo amico appena giunto dai meandri del Buio Profondo.” Continuò, indicando Daren. Gli altri drow rivolsero appena un’occhiata al loro nuovo acquisto, alcuni ridacchiarono, ma perlopiù lo ignorarono. Daren era ancora scarmigliato e disarmato, un’accoppiata che lo faceva apparire poco interessante. Un fiume di mormorii corse fra i presenti, comunque, e Daren riconobbe più di una volta il nome Guallidurth. Gli pareva di ricordare che fosse una città drow, ma non aveva idea di dove fosse.
Il chierico chiese di nuovo il silenzio, alzando una mano e chiudendola a pugno. Tutti si zittirono immediatamente.
“Non sono le folli sacerdotesse di Guallidurth a minacciare così da vicino i nostri confini.” Disse ad alta voce, tacitando le preoccupazioni di tutti. “No, avremo presto degli ospiti molto più graditi. Una delegazione di elfi di superficie sta venendo qui, per deliziarci con la loro presenza. Di certo sono qui per ucciderci e liberare il loro compagno, ma non sanno che noi sappiamo del loro arrivo. Presto avremo dei nuovi prigionieri!”
L’annuncio fu accolto da altri mormorii, questa volte eccitati e carichi di aspettativa. Il popolo degli elfi scuri non aveva l’abitudine di perdersi in festeggiamenti rumorosi, altrimenti l’avrebbero fatto, tanto era entusiasta la loro reazione alla notizia.
“Spero che ora potremo finire di rompere quello che abbiamo adesso.” Commentò un balestriere a pochi metri da Daren, parlando con un suo collega. “Una volta mi ha morso, quel pallido scarafaggio.”
Lungi dal dimostrare empatia per l’amico, l’altro guerriero rise in un modo che per un drow era quasi sguaiato. “Ah, ma certo, Nadal. Ricordo che gli hai fatto strappare un dente, era per questo?”
Il primo drow, Nadal, reagì con un ringhio di fastidio e un’occhiataccia. Daren si chiese se avrebbe gradito di più un colpo di spada al posto del morso, e si annotò nella mente le sue fattezze per poterlo riconoscere quando fosse giunto il momento.
L’elfo scuro infiltrato smise di origliare le conversazioni casuali per concentrarsi nuovamente sul sacerdote. “Quali sono i vostri ordini, Signore?”

Sentendo che il nuovo arrivato aveva preso la parola davanti a tutti, Zeerith puntò gli occhi su di lui. La sua presenza lo incuriosiva, perché gli sembrava una coincidenza davvero strana che fosse arrivato a loro solo poche ore prima di quegli elfi di superficie. Che ci fosse un collegamento? Per la prima volta considerò seriamente quel loro nuovo profugo. La sua armatura non era di fattura drow, e nemmeno le sue armi. Certo, se era davvero una ex-guardia di palazzo che poi aveva raccattato un po’ di soldi come lama mercenaria, era plausibile che fosse riuscito a comprarsi un equipaggiamento migliore, e che quello non fosse di fabbricazione drow. La sua spada bastarda però lo incuriosiva molto; l’aveva esaminata superficialmente, era infusa di magia di poco conto, ed era fatta di un materiale insolito: l’esoscheletro pallido di un qualche insetto o aracnide. Se fosse stata fatta con ciò che restava di un ragno gigante, doveva essere interpretato come un segno di fedeltà a Lolth? O al contrario, come un segno di spregio? E la spada bastarda non era forse l’arma sacra della puttana danzante, la maledetta Fanciulla Oscura?
Zeerith ci rifletté un momento. Era improbabile, la Fanciulla Oscura aveva più successo fra le femmine della loro razza, e le sgualdrine e i miserabili servi di Eilistraee non andavano mai in giro da soli.
Ma potrebbe non essere da solo. Ragionò, considerando la faccenda da un altro punto di vista. Gli elfi potrebbero essere suoi alleati. No… non credo che lo siano, visto che lui proveniva da una galleria che porta ai cunicoli più profondi… ma non me la sento di escludere alcuna possibilità. Ora mi chiede quali sono i miei piani; perché è impaziente di guadagnare la mia fiducia? Perché pregusta il sangue degli elfi chiari? Oppure vuole metterci i bastoni fra le ruote?
Studiò con lo sguardo il volto nero e impassibile del nuovo arrivato. Non riuscì a sondare le sue motivazioni, e capì che non ci sarebbe riuscito senza un incantesimo.
“I miei ordini non ti riguardano.” Annunciò. “Non abbiamo ancora abbastanza fiducia in te da restituirti le tue armi, e disarmato non servi a niente. Ti daremo una stanza, resterai lì e terrai d’occhio il prigioniero. Puoi giocarci, se ti va, ma non ucciderlo e non mutilarlo. Gli altri mi seguano per il consiglio di guerra. Gli elfi non arriveranno prima di due o tre ore, abbiamo tutto il tempo di preparare un’imboscata.”

Nessun altro fiatò, seguirono in silenzio il chierico in una caverna laterale. Zeerith fece un cenno a uno di loro, che tornò indietro e si avvicinò a Daren.
“Su, vieni, nuovo arrivato” lo apostrofò quell’anonimo guerriero. “Ti sistemiamo in una caverna vuota. Avrai un giaciglio e un catino d’acqua se desideri pulirti…” disse con un tono che era un velato suggerimento “ma per ora niente altro. Dovrai tenere d’occhio quel dannato elfo chiaro. Se prova a scappare spezzagli una gamba.”
Daren si costrinse a sorridere, come se apprezzasse quella prospettiva. “Dici che mi fornirà una scusa per farlo?”
L’altro drow scrollò le spalle, mentre lo precedeva lungo un tortuoso cunicolo laterale. Dopo aver camminato una manciata di secondi, sbucarono in una piccola caverna di forma vagamente circolare. Sembrava che fino a quel momento fosse stata usata come magazzino, dov’era stata ammucchiata della roba di varia utilità in una catasta vagamente ordinata.
Il vhaeraunita prese un giaciglio da viaggio arrotolato e lo lanciò in braccio a Daren. Poi gli indicò un catino di legno di fungo. “La tua stanza è più avanti. Lì c’è un rigagnolo d’acqua. Dovrai adeguarti a usare acqua fredda, per ora.”
La sua “stanza” si rivelò perfino più piccola del magazzino, ma comodamente vicina ad esso. Daren venne lasciato lì solo, per alcuni minuti, poi il suo gentile anfitrione tornò trascinandosi dietro un elfo che quasi non si reggeva in piedi.

Di norma l’elfo chiaro sarebbe stato più alto di entrambi i drow, ma camminava curvo, come qualcuno che cerca di sparire. Trascinava leggermente una gamba, cosa di cui Daren prese nota perché li avrebbe rallentati nella fuga. Era magro, emaciato per aver sofferto la fame per mesi, ricevendo solo il poco cibo sufficiente a restare in vita, e forse il suo stato di salute (fisica e mentale) risentiva anche del non aver più visto il sole da così tanto tempo. Nei suoi occhi non brillava alcuna luce di vitalità, perfino i suoi capelli erano opachi e smorti.
Il suo corpo, coperto a malapena da stracci di vecchi abiti elfici, rivelava che per ora non aveva subito mutilazioni significative, ma la pelle era attraversata da un reticolo di cicatrici. Frustate, probabilmente, se non peggio.
“Ah. Non mi sembra che ci sia spazio per divertirsi un granché.” Si lamentò, cercando di tenere il tono di voce neutro. “Potrebbe morire se soltanto lo sfioro.”
“Non credo, è più resistente di quanto sembra.” Promise il drow, scagliando il povero elfo per terra, ai piedi del nuovo ospite. L’elfo mantenne lo sguardo sul pavimento, rannicchiandosi in una specie di inchino. Daren non poté fare a meno di chiedersi se non fosse troppo tardi, se la sua mente non fosse ormai completamente spezzata.
“Ora vado. Non ucciderlo. Non finché non ne abbiamo degli altri per rimpiazzarlo.” Ammonì, agitando un dito in direzione di Daren come se fosse stato un bambino disobbediente.
Daren cominciò a svolgere il giaciglio per sistemarlo in un angolo, un’occupazione del tutto innocente che non avrebbe insospettito l’altro guerriero, nel caso fosse tornato. Poi, quando fu certo di aver udito i suoi passi leggeri sparire in lontananza, rivolse finalmente la sua attenzione all’elfo. Spezzato o non spezzato, avrebbe riportato a casa quello che restava di lui.

           

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Capitolo 15
*** 1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 2) ***


1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 2)


Daren era rimasto solo con l'elfo che, in teoria, avrebbe dovuto sorvegliare. La pallida e pietosa creatura se ne stava ancora rannicchiata a terra, accartocciata in un inchino che sembrava più che altro un tentativo di difendersi. A Daren ricordò la posizione che i maschi drow dovevano assumere quando una femmina manifestava l'intenzione di punirli, e sentì un moto di disgusto in fondo alla gola, così forte che era quasi una sensazione fisica.
L'elfo non osava alzare gli occhi su di lui, o forse non gli interessava farlo. Di certo Daren per lui era solo l'ennesimo aguzzino, non diverso dagli altri, una nera creatura senza volto che rappresentava solo una promessa di dolore. Questo però non era rilevante per il drow, l'opinione dell'elfo o la sua paura erano decisamente in fondo alla lista dei problemi da affrontare. In quel momento Daren era preoccupato soprattutto per la salute fisica e mentale del prigioniero, perché avrebbe potuto compromettere le loro possibilità di fuga.
Inoltre, Daren non era del tutto certo che nessuno li stesse osservando. I vhaerauniti non avevano motivo di dubitare di lui, ma nemmeno di fidarsi, e la prova di questo era il fatto che non l'avessero incluso nei loro piani per combattere gli elfi di Sarenestar.

L'arrivo degli elfi era un'altra questione spinosa. Il guerriero sapeva che si trattava molto probabilmente di alleati che sapevano della sua missione, forse era stato proprio Raerlan ad avvertirli, nonostante i loro piani iniziali fossero diversi. La prospettiva che degli alleati stessero arrivando era allettante, ma si stavano andando ad infilare in un’imboscata drow, e questo poteva voler dire una totale disfatta.
Il mio primo dovere resta verso questa povera anima, si disse per farsi forza. Non posso cambiare i miei piani senza sapere cosa mi sta accadendo intorno. Gli elfi dopotutto hanno deciso di venire qui, devo fidarmi del fatto che possano sopravvivere.
Filvendor non si era mosso, se non per tremare leggermente. Dava l'impressione di essere abituato a stare molte ore in quella posa. Daren rifletté velocemente su come procedere.
“Elfo.” Lo apostrofò in lingua drow. Non sapeva se in quei mesi il prigioniero avesse avuto modo di imparare la lingua dei suoi carcerieri, ma gli sembrava plausibile che conoscesse almeno le parole basilari.
L'elfo dei boschi reagì a quel richiamo con un tremore un po’ più forte del solito, poi una voce quasi inudibile rispose “Veldruk”.
Conosce la lingua drow abbastanza da sapere come deve rivolgersi ai suoi torturatori per evitare ulteriori punizioni. Rifletté a mente lucida, cercando di tenere separata la sua reazione emotiva dalle valutazioni razionali. Non aveva il tempo, ora, di perdersi in considerazioni morali o di soccombere a quell’empatia che aveva sviluppato negli ultimi decenni. Meglio così, preferisco non dovergli parlare in elfico o in comune, nel caso in cui qualcuno ci stesse guardando.

Filvendor non era mai stato in quella grotta laterale e all'inizio mille congetture gli avevano attraversato la mente: si trattava di una nuova prigione predisposta per lui? O forse una nuova camera delle torture? Quando invece si trovò in una grotta piccola e quasi vuota insieme ad un singolo elfo nero, pensò che probabilmente era una manovra per impedirgli la fuga. Non era sicuro di quello che aveva sentito in giro, ma gli altri drow gli erano sembrati nervosi, o forse esaltati, e aveva sentito più volte la parola che indicava gli elfi di Superficie. Forse quelle malvagie creature si preparavano ad una sortita, e avevano deciso di rinchiuderlo in una grotta senza uscita per poterlo controllare meglio. A Filvendor sembrava la spiegazione più plausibile, ma in realtà sarebbe stato troppo debole per scappare, anche se l'avessero messo in una stanza con ampio accesso a diverse vie di fuga.

Lo avevano lasciato insieme ad un solo guardiano, ma questo non era di gran consolazione per il povero elfo, visto che aveva imparato a sue spese che un singolo drow poteva causargli abbastanza dolore da fargli rimpiangere di essere nato.
Il suo carceriere gli parlò, in tono aspro e deciso. Richiamò la sua attenzione con una secca parola che fino a quel momento solo il mago gli aveva rivolto: darthiiri, la parola drow per elfo di Superficie. La voce però non era quella del mago, e sebbene Filvendor potesse vedere solo gli stivali dell'elfo scuro, riconobbe che non erano le raffinate scarpe di velluto rosso dell’incantatore.
“Adesso tu dormi, darthiiri.” Gli ordinò il drow, indicando con un gesto il giaciglio che aveva preparato. L'elfo però non vide il gesto della mano perché non si azzardava ad alzare gli occhi su quell’essere. “Dormi e guarisci un po’.”
A Filvendor sembrava certamente uno strano comando, ma non si sarebbe messo a discutere. Si rannicchiò in posizione fetale sdraiandosi su un fianco e chiuse gli occhi.
Sentì il drow sospirare come se fosse infastidito, e strinse gli occhi aspettandosi di essere calciato o frustato. Non sapeva che cosa avesse fatto di male, ma per la sua esperienza ai suoi carcerieri non occorreva un vero motivo per tormentarlo.
Qualcosa gli cadde addosso, ma era un oggetto morbido, e una sorta di tessuto rigido gli sfregò contro una guancia. Aprì gli occhi, solo per vedere che un giaciglio di pelliccia gli ostruiva in parte la visuale.
“Ora tu dormi.” Tornò a ripetere il drow. “Dormi con questo. Guarisci un po’.” Insistette, parlando lentamente come se Filvendor fosse stato idiota.
L’elfo prese fra le mani il giaciglio e lo stese sul pavimento, poi ci si sdraiò sopra. Quello era un gioco che conosceva bene: ogni tanto uno di loro fingeva di essere gentile con lui, solo per pretendere qualcosa in cambio o per accendergli false speranze e poi calpestarle. Come aveva fatto Jevan. Quel pensiero gli fece salire le lacrime agli occhi, ma si costrinse a rimanere nel presente. Se questo drow voleva giocare a fare il buon padrone, Filvendor l'avrebbe assecondato. Non sarebbe durata, ma almeno per un po’ avrebbe potuto dormire su un sacco a pelo. L'aria non era abbastanza fredda da fargli desiderare di infilarsi fra le pellicce, preferiva usare il giaciglio come materasso in modo che gli strati di pelle e pelo attenuassero un po’ la sensazione del pavimento gelido e duro.
Incredibilmente, il drow gli permise davvero di addormentarsi.

Daren rimase immobile a guardare l'elfo esausto che cadeva in un sonno agitato, leggero. Dava l'impressione di potersi svegliare ad un semplice tocco. Questo non era il massimo per i suoi piani, visto che aveva sperato di poter guarire l'elfo mentre dormiva. Ora temeva che non ci sarebbe riuscito, perché quel corpo fragile e tormentato si sarebbe accorto anche del tocco più lieve. Sospirò, scuotendo la testa, ma la sua espressione rimase accuratamente neutrale. Avrebbe lasciato dormire Filvendor per un po’, tanto gli elfi non sarebbero arrivati prima di due o tre ore, secondo le stime del sacerdote drow. Per la fuga sarebbe servito che il ranger fosse il più possibile in forma, e inoltre nonostante tutto Daren preferiva non sentire su di sé il suo sguardo terrorizzato.
Bene, visto che è sfumata la possibilità di guarire il ranger, almeno per ora, tanto vale passare alla seconda fase del piano. Devo recuperare le mie armi.

Il guerriero si sedette a terra e cercò di estromettere ogni pensiero che potesse causargli distrazione, cadendo in uno stato meditativo con cui alcuni guerrieri avevano familiarità. Il suo scopo però non era prepararsi alla battaglia o agevolare la guarigione delle sue ferite, anche se questa era una cosa che avrebbe comunque dovuto fare, più tardi. Adesso la sua priorità era un'altra: cercare di riallacciare il collegamento mentale che aveva sempre con la sua spada bastarda. Non era un'arma comune, era consacrata alla sua Dea e ai suoi scopi, e la magia intrinseca della lama, unita alle imprese che avevano compiuto insieme, avevano creato una specie di rapporto simbiotico fra il guerriero e la sua spada. L'oggetto alla fine aveva acquisito una sorta di rudimentale intelligenza; quando l'elfo scuro impugnava o portava con sé la spada bastarda, quella riusciva a comunicargli le sue limitate emozioni e persino pensieri elementari. Il problema era che Daren non aveva idea di come avrebbe reagito la spada alla loro separazione fisica, una cosa che non era mai successa negli ultimi decenni. Il drow aveva ceduto volontariamente quel prezioso oggetto quando gli era stato intimato di gettare le armi, e questo poteva aver compromesso il legame magico.
Per fortuna una separazione di pochi minuti non era sufficiente a interrompere il contatto sovrannaturale fra il guerriero e la sua spada. Poteva sentire in un angolo della sua mente il richiamo dell'arma che chiedeva di essere brandita ancora. Si alzò in piedi, deciso ad andare a cercarla; poteva solo sperare che anche le sue spade corte gemelle fossero state riposte nello stesso luogo.
La spada non era in grado di comunicargli la sua posizione, perché non era senziente fino a questo punto. In realtà non poteva nemmeno davvero comunicare con Daren a meno che lui non la stesse impugnando o non fosse comunque adesa al suo corpo. Il drow poteva soltanto avvertire il suo richiamo come una pulsazione distante che, se si fosse concentrato abbastanza, gli avrebbe indicato più o meno dove cercare.
Camminò oltre il breve corridoio tornando nella piccola caverna adibita a magazzino. Qui sembrava che il richiamo fosse più forte. Possibile che fosse così fortunato da essere stato segregato così vicino al luogo dove avevano nascosto le sue armi?
Cominciò a frugare in mezzo al mucchio di derrate alimentari, fagotti di giacigli e abiti di scorta, stivali più o meno appaiati, finché alla fine trovo una cassa di legno di fungo che sembrava molto pesante. All'interno c'erano diverse spade, probabilmente armi di scorta di buona qualità. Questa cosa accese la sua preoccupazione, perché quelle armi erano decisamente più di quante ne servissero al gruppetto di elfi scuri. Forse erano soltanto l'avanguardia di un esercito più grande? Le armi brillavano come se fossero di qualità eccelsa e forse perfino magiche, ma Daren sapeva che gli oggetti infusi di magia del Buio Profondo non resistevano lungo sotto i raggi del sole. Avrebbe voluto poter mostrare quell’arsenale ad un mago, in modo che potesse stabilire se era stata utilizzata la magia del Buio Profondo oppure no, questo avrebbe potuto suggerire qualcosa sulle intenzioni dei drow.
Ad ogni modo, nascoste in mezzo a tanti altri oggetti dalla forma simile, trovò le sue spade corte; questo gli riaccese la speranza, e frugando con pazienza rinvenne sul fondo della cassa anche la sua spada bastarda.
Ora si comincia a ragionare. Pensò con soddisfazione. Finalmente si sentiva utile, in grado di poter affrontare il pericolo.

Zeerith stava tenendo una specie di consiglio di guerra, decidendo insieme al mago e al guerriero più esperto del gruppo quale fosse la migliore strategia per far cadere gli elfi in un'imboscata. Come al solito il chierico dava le spalle ad una parete di roccia tenendosi molto vicino ad essa, perché aveva un particolare accordo con la sua alleata incorporea: lei sapeva di potersi avvicinare a lui passando attraverso la roccia per poi sporgere appena le labbra fuori dalla parete e sussurrargli i suoi consigli. In quei momenti Zeerith aveva l'accortezza di non attivare l'oggetto magico che rendeva corporee le creature come Sulerin, altrimenti avrebbe potuto bloccarla nella pietra uccidendola.
Questa potrebbe comunque essere un'idea, ragionò il chierico, distraendosi un attimo dal discorso. Poi si rimproverò, tornando a concentrarsi sui loro piani; il pensiero della bella fata unseelie riusciva a distrarlo anche quando pianificava di ucciderla.
Come se l'avesse evocata, la voce di Sulerin giunse in un sussurro da un punto alle sue spalle: “Il vostro rifugiato ha concesso all'elfo di dormire e ha recuperato le sue armi.” Gli riferì.
Zeerith aveva chiesto alla insoril di tenere d'occhio il nuovo arrivato, con discrezione. La fata non avrebbe dovuto prendere iniziative, ma solo guardare e riferire. Il rapporto di Sulerin innescò le preoccupazioni del chierico su due diversi filoni di pensiero: il primo era che forse tutto sommato non era una buona idea mantenere questo tipo di comunicazione con la fata, visto che per lei sarebbe stato molto facile prenderlo alle spalle e ucciderlo a tradimento. Il secondo riguardava considerazioni sul drow che si era appena unito a loro; aveva lasciato che l’elfo si riposasse, sì, ma Rivven gli aveva riferito quel suo commento sul fatto che il prigioniero fosse troppo malconcio per poterci giocare, quindi la decisione di lasciare in pace l'elfo poteva essere semplicemente il preludio ad una sessione di torture. Il fatto che quel Daren avesse recuperato le armi era una cosa che aveva comunque messo in conto, perché nessun individuo sano di mente si sentirebbe vagamente tranquillo, disarmato ed attorniato da elfi scuri. Le sue azioni quindi non erano niente di sospetto, di per sé, ma Zeerith aveva imparato anche a fidarsi del suo istinto, e il suo istinto ora gli diceva di tenere d'occhio il guerriero.
Fece un discreto cenno della mano a Sulerin, un segnale tutto loro che avevano convenuto per dire l'uno all'altra di tornare a svolgere lo stesso compito. Quasi subito, Zeerith sentì la presenza alle sue spalle allontanarsi nella roccia.
“Rivven, e anche tu, Nadal. Mentre gli altri si predisporranno nelle postazioni che stiamo decidendo, voi due andrete a verificare che Daren ubbidisca agli ordini.”
I due drow si guardarono perplessi, ma non fiatarono. Non erano abituati a mettere in discussione gli ordini del sacerdote, ma entrambi gettarono uno sguardo di sfuggita verso il Primo Guerriero, che era il loro portavoce nelle discussioni con gli incantatori.
Kismet, che ufficiosamente era il capo dei guerrieri di quella piccola brigata, colse il loro tacito dubbio e prese la parola.
“Padre Zeerith, state chiedendo a due dei nostri migliori guerrieri di assentarsi da una battaglia molto importante per tenere d'occhio un singolo…”
“Non credo di doverti dare spiegazioni, Kismet!” Sibilò Zeerith, lasciando intendere una minaccia molto seria con il suo tono seccato. “Ho le mie ragioni per sospettare della lealtà di uno sconosciuto che si palesa a noi appena poche ore prima di una banda di elfi di Superficie. Potrebbe essere davvero quello che dice di essere, ma in caso contrario ci sarà più utile da morto che da vivo. E sì, sto mandando due dei nostri migliori guerrieri, perché non conosciamo affatto le abilità di quel cane solitario. Se sarà necessario ucciderlo, fatelo in fretta e potrete tornare a partecipare alla battaglia contro i darthiiri.” Suggerì, rivolgendosi ora direttamente ai due soldati.
I due si scambiarono uno sguardo cupo, ma annuirono in segno di obbedienza.

Daren aveva recuperato le spade ed era tornato nella piccola apertura nella roccia che temporaneamente condivideva con un ranger esausto e ferito. Filvendor dormiva ancora, e non si svegliò nemmeno al ritorno di Daren. L'elfo scuro era ancora capace di muoversi come un'ombra sulla roccia, nonostante non frequentasse assiduamente il Buio Profondo.
Daren ricordava che il chierico aveva supposto che gli elfi di Sarenestar avrebbero impiegato due o tre ore ad arrivare, ma quell'indicazione appariva sempre più fastidiosamente imprecisa man mano che il tempo passava.
Se dovesse scoppiare una battaglia, quantomeno sentirei il rumore. Però preferirei essere già pronto per allora, devo prima guarire Filvendor, così potrò approfittare della confusione per farlo fuggire di qui.
Di norma avrebbe impiegato un minuto, o forse anche meno, per curare le ferite di una persona... ma temeva che nel caso di quest’elfo sarebbe stata necessaria un po’ di opera di persuasione.


Altrove ma non molto lontano, circa tre ore dopo

Raerlan inizialmente si era messo in testa al gruppo, guidando gli altri verso la direzione giusta senza che a loro venisse spontaneo chiedersi come facesse il loro compagno a sapere quali gallerie prendere. In realtà era lo spirito di Visne a guidarlo, ma lui era l'unico a poterla vedere e sentire. Quando l'elfa gli segnalò che erano quasi arrivati e gli disse che più avanti delle persone ostili sembravano attendere il loro arrivo, l’alicorn si spostò in coda al gruppo, facendo in modo di restare un po’ indietro. Per ora la galleria non presentava bivii o cunicoli laterali, quindi non c’era bisogno della sua guida: i suoi compagni sapevano di dover proseguire dritti. Aveva il tempo di preparare un piccolo inganno che depistasse le divinazioni e la vista dei drow.
Raerlan si concentrò per riportare alla mente incantesimi che aveva appreso innumerevoli anni prima, in un periodo che sembrava un’altra vita, quando il cielo stellato e impossibilmente brillante di un mondo lontano ispirava il suo animo artistico e gli riempiva il cuore di meraviglia. Da allora aveva abbandonato la via delle arti bardiche, ma non aveva mai dimenticato, e ogni giorno con costanza rimembrava i suoi pochi incantesimi. Uno, in particolare, lo divertiva molto.
Con un rapido gesto e una cantilena sussurrata, creò alle sue spalle una copia illusoria di sé stesso, una figura apparentemente corporea che poteva passare per vivente. Ricreò un Raerlan impegnato a meditare mentre camminava lentamente, e che mormorava fonemi incomprensibili come se fosse concentrato sul compiere un incantesimo. Certo, si trattava di una magia di poco conto, ma i drow si sarebbero accorti dell’inganno solo interagendo con l’immagine illusoria; osservare il falso Raerlan con una sfera di cristallo non avrebbe rivelato che era un falso. La cosa migliore era che l’incantesimo non aveva una durata limitata nel tempo, avrebbe retto fintanto che Raerlan si fosse concentrato su di esso, e fintanto che fosse rimasto entro un centinaio di metri di distanza dall’illusione. Avrebbe lasciato credere ai drow di trovarsi un centinaio di metri indietro rispetto a dov’erano davvero, non una gran cosa, ma sarebbe tornato utile in caso di imboscata.
“Siamo quasi arrivati.” Annunciò agli altri. “Fra poco le protezioni contro la divinazione non basteranno più. Abbiamo modo di diventare invisibili?”
Lo gnomo frugò nel suo zaino ed estrasse un fascio di pergamene con l’aria di volersi rendere utile.


Nel frattempo, nella piccola caverna di Daren

L'elfo scuro era alle prese con un cruccio non da poco: non aveva un vero modo per misurare il tempo. Esistevano incantesimi che avevano una durata prestabilita, ma lui non era particolarmente avvezzo all'utilizzo della magia e non aveva mai prestato attenzione alla loro durata. Sapeva solo che l’incantesimo per nascondere i suoi principi morali manteneva il suo effetto esattamente per 24 ore, ma questo al momento non gli era di nessun aiuto.
Decise di ricorrere a un aiuto di cui di solito preferiva fare a meno, perché fare appello a un'entità più grande significava ammettere i suoi limiti o i suoi fallimenti.
Si sedette in una posizione il più possibile comoda, chiuse gli occhi e tentò di scivolare in uno stato di coscienza più sereno, simile alla meditazione.
Mia Signora. Chiamò con il pensiero. O chiunque voglia ascoltarmi in sua vece. Mi occorre aiuto. Devo salvare questa creatura, come impone la mia fede… e la mia amicizia verso Johlariel, e la gratitudine verso il suo popolo che mi ha accolto. Signora, almeno devo tentare. Per farlo mi serve una cosa che un semplice guerriero non può ottenere: la conoscenza. Devo sapere quale sarà il momento giusto per agire. Per favore, mandami un segno.
Per favore. Non chiedo altro.

In quel momento, anche se era assolutamente sicuro di non aver fatto il minimo rumore, Filvendor si svegliò di colpo. Dalla fretta con cui si alzò a sedere - pur se ovviamente non poteva sapere nulla di quello che stava succedendo! - Daren si chiese se il momento giusto non fosse già passato.
Si rimboccò le maniche, alzandosi per avvicinarsi all'elfo. Prevedibilmente, il prigioniero spaventato si ritrasse contro la parete, guardandolo con terrore.
Poi quel momento di sincera manifestazione di paura passò, e Filvendor si prostrò in un nuovo inchino, come se avesse appena ricordato quale fosse il modo giusto per rivolgersi a uno dei suoi carcerieri.
“Elfo, adesso dovrò toccarti.” Gli annunciò Daren, parlando in lingua comune e con una certa urgenza. “Capisci quello che dico?”
Filvendor alzo il viso per guardarlo, e Daren per un momento colse il suo sguardo interrogativo, poi l'elfo dei boschi tornò a chinare la testa. “Sì, veldruk. Capisco.” Gli rispose nella stessa lingua, sebbene con un accento tipico della parlata elfica.
Daren si chinò sul prigioniero e sporse una mano, lasciandosi sfuggire un sospiro di tristezza quando Filvendor chiuse gli occhi e si trasse indietro inconsciamente.
“Non intendo toccarti laddove può darti fastidio, elfo. Dammi una mano, andrà bene ugualmente.”
Il ranger tremò più forte, ma poi sporse una mano così come il drow gli aveva comandato. Era intimidito e titubante come se si aspettasse che quella mano gli venisse recisa da un momento all'altro.
Daren afferrò la mano dell'elfo pallido e cominciò a riversarci sopra gli incantesimi di guarigione che conosceva, partendo da quelli meno potenti perché non aveva idea di quanta magia sarebbe servita per guarire tutte le ferite del povero prigioniero. La magia avrebbe agito come per volontà propria, guarendo prima le ferite più gravi, quindi non era necessario che il drow toccasse direttamente le parti del corpo più abusate.
“Ho bisogno che tu mi dica come ti senti.” Chiese al ferito, inchiodandolo con uno sguardo penetrante. “Devi parlarmi, oppure dovrò togliere i tuoi vestiti per controllare il tuo stato di salute.”
L'elfo cominciò a tremare così forte che Daren temeva gli sarebbero venute le convulsioni.
“No, vi prego, padrone… veldruk… vi prego no, farò quello che volete…”
“Sì, bravo. Voglio che mi dici come stai. Hai capito cosa ti sto chiedendo?” Filvendor si calmò lievemente, anche se la cosa gli costò un notevole sforzo.
“Sto meglio ora, padrone. Meglio di come sia stato in molti mesi. Abbastanza da…” gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma si rifiutò di piangere “abbastanza da sopportare un po’ di frustate o la mazza spezza-ossa o il catino d'acqua, o il… ferro che brucia…” annaspò, non conoscendo le parole giuste in lingua comune “o quel liquido che toglie la pelle, ma non tutto insieme.” Quando finì di parlare, la sua voce ormai era un sussurro.
Daren continuò a salmodiare incantesimi di guarigione, rifiutandosi di trasformare in immagini mentali le parole dell'elfo. Era un drow, sapeva bene di quali tormenti fosse capace la sua razza. Questo non significava che volesse indulgere in simili ricordi.
“Non mi interessano queste cose, voglio sapere se riesci a camminare e a tenere in mano una spada.” Lo corresse. “Stiamo per andarcene da qui.”

           

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Capitolo 16
*** 1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 3) ***


1287 DR: Il loro ranger scomparso (Parte 3)


“Voglio sapere se riesci a camminare e a tenere in mano una spada.” Aveva detto il drow. “Stiamo per andarcene da qui.”
Filvendor aveva udito quelle parole, ma non era riuscito a processarne il significato. Rimbombavano nella sua mente come un’eco priva di senso compiuto. L’elfo avvertì uno strano calore invadergli la mente, e alla fine comprese che stava per avere un attacco di panico.
L’ultima volta che un drow gli aveva promesso la fuga, non era finita bene. Tuttavia, che cosa mai poteva rispondere? Era forse un test? Se avesse assecondato il drow, sarebbe stato nuovamente punito. Se lo avesse contraddetto, sarebbe stato punito comunque.
“Veldruk, farò come ordini… ma ho imparato la lezione. Non desidero fuggire.” Rispose con un filo di voce.
Il drow all’inizio non rispose, e il prigioniero non osò guardarlo in faccia per paura di leggervi del disappunto. Poteva essere soddisfatto della sua sottomissione, sì, ma più probabilmente era infastidito di non avere una scusa per torturarlo.
Non gli serve una scusa, si disse per l’ennesima volta. Appartengo a queste bestie e non posso farci nulla...
“Non lo desideri? Oppure non osi?” Gli domandò l’elfo scuro, in un tono che a Filvendor sembrò inquisitorio, ma privo della solita malizia.
Il ranger non aveva risposta a questa domanda. Ovviamente non osava, ma poteva forse ammetterlo?
Prima di essere catturato dai drow, stava vivendo una depressione terribile e pensava di voler morire. Credeva di non avere nulla per cui vivere. Poi quell’assurda e inaspettata cattura, seguita da torture che avrebbero spezzato persone molto più forti di lui… e invece avevano avuto lo straordinario effetto di restituirgli uno scopo. Il suo scopo adesso era sopravvivere. Tornare a vedere il sole. Fare in modo che tutto questo finisse, sì, ma non con la sua morte.
Sono un ranger di Sarenestar. Un figlio del clan Gysseghymn. Qualunque cosa mi facciano, non potranno togliermi questo. Se lo ripeté ancora una volta, per ritrovare la forza.
Filvendor si sentiva più determinato del solito, forse semplicemente perché il suo corpo non era così in salute da molto tempo. Non restava che un vago indolenzimento a ricordargli i tormenti che aveva patito, e aveva la sensazione che avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa.
Anche un’altra falsa fuga. E magari sarebbe riuscito a trasformarla in una fuga vera… se fosse stato abbastanza abile. Il fatto che i drow questa volta avessero organizzato un inganno così sofisticato, che prevedeva perfino di restituirgli il pieno utilizzo del suo corpo, doveva voler dire che per ricatturarlo avrebbero messo in campo tutte le loro risorse.
“Farò come ordini, veldruk.” Ripeté, questa volta un po’ più convinto. “Anche se immagino che sia un altro inganno ai miei danni.”

Daren avvertì qualcosa di diverso nel tono dell’elfo, questa volta. Un po’ più di determinazione, forse? Ma se c’era della determinazione, era comunque sepolta sotto un anno di pessimismo e dolore.
Potrei cercare di convincerlo che voglio davvero liberarlo, ma non credo che avrei successo, specialmente se è una carta che i suoi aguzzini hanno già giocato, realizzò il guerriero. Non si aspetta altro che inganni da un drow, e non posso dargli torto.
“Sì, potrebbe essere un inganno, e se l’hai immaginato da te, si vede che non sei stupido tanto quanto sei disperato.” Concesse, cercando di suonare come un vero drow anche senza compiere gesti davvero crudeli. “Prevedi che ti riprenderanno e ti puniranno. Diciamo pure che le tue possibilità di fuggire siano quasi nulle; in quel caso, avrai comunque passato almeno mezza giornata lontano dagli altri drow, ed è un’occupazione migliore che farsi torturare. E se invece ti rifiuti, togliendo loro il divertimento di darti la caccia, non credi che troveranno altri modi per intrattenersi con te? Io penso che saranno particolarmente fantasiosi.”
Pronunciò tutto quel discorso in tono freddo e neutro, senza manifestare il crudele divertimento che un altro drow avrebbe lasciato trapelare. Non desiderava tormentare Filvendor, solo motivarlo nell’unico modo possibile: facendogli capire che non aveva scelta.

Quella che Daren percepiva in buona fede come un’argomentazione logica, a Filvendor sembrò un tentativo di intimidazione bello e buono… ma non poteva negare che ci fosse un senso nelle parole del suo carceriere.
Una parte della sua mente registrò che nessuno di loro gli aveva mai rivolto la parola per un discorso così lungo, tantomeno in lingua comune. Di solito Filvendor non era considerato un soggetto con cui fare conversazione, ma solo un oggetto di cui abusare. Al massimo, ogni tanto si limitavano a dargli qualche ordine o a raccontargli cosa stavano per fargli, per poi ridere del suo terrore.
Adesso basta. Si disse l’elfo. L’altra volta ci ho creduto. Ho creduto che Jevan mi avrebbe aiutato, possa bruciare negli Inferi. Questa volta so di poter contare solo su me stesso.
“Sono in grado di camminare.” Rispose infine, decidendo che rispondere alla domanda iniziale del drow era un modo molto pragmatico di annunciare il suo consenso a prestarsi per quel gioco crudele. “E credo di poter brandire una spada…” prese in considerazione il suo fisico malnutrito e le braccia rese deboli dall’inattività e dal deperimento. “O più probabilmente un pugnale.”
“Pugnale sia, allora.” Convenne il drow, gettando a terra un coltello di fattura superba, ma vagamente aliena. Probabilmente un’arma forgiata dal suo popolo oscuro.
Filvendor allungò un braccio e afferrò l'impugnatura, con cautela, come se si aspettasse che un'arma drow si sarebbe ribellata alla presa di un elfo. Gli sembrava così strano, un “gioco” fin troppo pericoloso. Nemmeno il mago, durante l'ultima “fuga”, si era azzardato a concedergli una lama.
Lo sconosciuto gli fece cenno di alzarsi e di stare fermo. “C'è una sola galleria per uscire da questa piccola grotta, è un percorso obbligato. Io andrò in avanscoperta per controllare che non ci siano pericoli. Quando deciderò che la strada è sicura, manderò le mie luci danzanti ad illuminarti la via, così saprai che potrai seguirmi.”
Filvendor si adombrò, cominciando a vedere le difficoltà nel suo piano: senza le luci danzanti del drow sarebbe stato cieco, quindi dipendeva da questo elfo scuro per decidere la strada da seguire. In questo modo sarebbe stato facilissimo portarlo in un'imboscata.
Non lo farà subito. Ragionò, ricordando com’era andata l'ultima volta. Ho ancora un po’ di tempo per pensare al da farsi, e forse quando sarò più vicino alla Superficie sarò in grado di trovare la strada da solo, anche a tentoni.
Il guerriero si allontanò nelle ombre, anche se Filvendor riusciva ancora ad immaginare la sua posizione grazie alle lucine che portava con sé.
Attese nel buio, in un silenzio snervante, per un periodo di tempo che gli parve infinito ma che in realtà durò solo pochi secondi. Poi cominciò a sentire qualcosa in lontananza, come un echeggiare di metallo contro metallo, suoni che si rincorrevano e si cannibalizzavano a vicenda rimbalzando lungo le pareti del cunicolo.
Rumori di battaglia.

L'elfo dei boschi sgattaioló avanti nella galleria, anche se gli era stato comandato di aspettare. Ricordava che quel giorno tutti i drow sembravano su di giri, avevano parlato di elfi di superficie; forse in realtà stavano parlando di lui e della caccia che avevano organizzato, ma una parte di sé osò sperare che qualcuno fosse finalmente venuto a salvarlo.
Poi qualcuno pronunció una parola in elfico, cálë. Era un vocabolo desueto che significava luce, e in risposta a quella che probabilmente era una parola magica, una tenue luce si accese da qualche parte nella caverna davanti a lui.
Filvendor velocizzò il passo, tenendo pronto il pugnale. Se c'erano degli elfi che stavano combattendo, li avrebbe aiutati.

Il corridoio terminava in una grotta poco più grande di quella dove il suo carceriere lo aveva guarito; era praticamente solo un ampio slargo della galleria che tempo prima i drow avevano deciso di adibire a magazzino. Il ranger si guardò intorno concitato, cercando i suoi simili con lo sguardo, ma tutto quello che vide furono tre drow che combattevano fra loro. Per terra, un pugnale magico emetteva luce, rischiarando l'intera zona con un lucore fioco che però sembrava abbastanza per infastidire due dei tre guerrieri.
Per Filvendor era assolutamente impossibile distinguerli. Gli elfi scuri per lui erano tutti uguali, è vero che aveva brevemente alzato lo sguardo sul tizio che gli aveva proposto la fuga, ma non era riuscito a memorizzare le sue fattezze, e gli sembrava che la pelle nera confondesse i lineamenti. Ad ogni modo, era abbastanza intelligente da capire che dovesse essere il guerriero in inferiorità numerica, perché se quella caccia era stata organizzata bene, allora avrebbero affrontato qualche ostacolo costruito ad arte.
Trascorrere quasi un anno nelle mani degli elfi scuri aveva trasformato il ranger, già di suo prudente, in un capolavoro di paranoia. Non dubitó nemmeno per un momento che quella battaglia fosse una sceneggiata messa in piedi a suo uso e consumo. Rimase a guardare freddamente il combattimento fasullo, impassibile davanti a quella scena, finché quello che credeva fosse “la sua guida” piantò una spada bastarda nelle viscere di uno dei nemici. Questo gli strappó un sussulto. Sembrava così reale. Sapeva che doveva essere un'illusione - probabilmente c'era il mago da qualche parte a tirare le fila - ma sembrava eccezionalmente vero, i rumori, le movenze così verosimili, l'odore del sangue. Un mago conosceva abbastanza l'arte bellica da poter muovere un'illusione come un vero guerriero? Non lo sapeva, ma forse un mago drow sì.

Daren diede uno strattone alla spada bastarda, ma quella restò impigliata un momento di troppo nell'armatura del drow moribondo. L'altro riuscì a portare a segno un buon colpo, trapassandogli il braccio vicino all'attaccatura della spalla, recidendo il muscolo deltoide e il tendine del bicipite. Al di là del dolore improvviso, Daren sentì immediatamente che il braccio destro perdeva forza, e non era sicuro che sarebbe riuscito ad utilizzarlo ancora… ma meglio il braccio che la gola, si disse, abbandonando l'idea di disincagliare la bastarda con la mano sinistra e andando invece a sfoderare una delle spade corte.
Il guerriero drow, quello che poche ore prima aveva rivendicato di aver fatto strappare un dente all'elfo, non abbassó la guardia anche se il nemico adesso combatteva con una misera spada corta. Non era arrivato ad essere il secondo miglior guerriero del gruppo sottovalutando gli avversari. Daren aveva dimostrato di essere un combattente di tutto rispetto e aveva già ucciso il suo collega, quindi era meglio stare all’erta.
Una decisione saggia, che gli permise di vivere qualche minuto in più.

Filvendor rimase a guardare come uno spettatore impotente mentre quella scaramuccia raggiungeva il risultato più prevedibile: la sua guida stava mettendo in seria difficoltà l'altro drow.
È ora o mai più. Realizzó d'un tratto. Quel pugnale caduto a terra sta ancora emettendo luce, e a meno che non sia anch'esso un'illusione, potrei raccoglierlo e usarlo per vedere in questa maledetta oscurità. Diede una seconda occhiata al pugnale, rendendosi conto che l'impugnatura era lavorata con motivi elfici, anche se non poteva vedere più dettagli di così perché la luce stessa dell'oggetto dava fastidio ai suoi occhi abituati all'oscurità. Aveva un senso, se il verbo di comando era la parola luce in elfico antico.
Mentre guardava altrove, uno dei due drow venne spinto contro il mucchio di roba accatastata, facendo cadere numerosi oggetti e rovesciando anche una cassa piena di armi. Il rumore infernale echeggió così a lungo che Filvendor si aspettava di veder sciamare tutti gli altri elfi scuri nella caverna da un momento all'altro.
Ora o mai più, si ripeté di nuovo per farsi coraggio, spostandosi lateralmente verso la catasta per usarla come copertura. La vista di quel pugnale elfico, sicuramente strappato al suo legittimo proprietario e poi abbandonato in quel luogo empio, lo aveva caricato di un furore cieco. Forse apparteneva a quella povera fanciulla che qualche mese prima era stata uccisa per il suo silenzio.
I due contendenti continuarono la loro insulsa battaglia, inconsapevoli della sua presenza. Filvendor si soppesò nella mano il lungo coltello di fattura drow, attendendo il momento giusto per colpire… e quando il guerriero, quello vero, gli fu abbastanza vicino, l'elfo emerse dalla sua copertura e gli infilò abilmente il pugnale nella schiena, all'altezza delle reni. Non un colpo magistrale, ma non era semplice trovare le giunture di un'armatura al buio e nella confusione della battaglia, e Filvendor sapeva di non avere abbastanza forza nelle braccia per trapassare il cuoio indurito di cui era fatta la protezione.

Il drow emise un mugolio di sorpresa e di dolore e si allontanó lateralmente, in modo da tenersi alla larga sia dall'elfo che dall'altro guerriero. Filvendor non era disposto a farsi prendere in giro, sapeva che l'altro drow doveva essere un'immagine illusoria, la sua priorità adesso era liberarsi del suo carceriere e proseguire da solo nella fuga. Il suo colpo purtroppo non era stato determinante come sperava, quell’essere era ancora vivo e ancora in grado di combattere, sebbene fosse ferito e rallentato. Il ranger non aveva intenzione di dargli la possibilità di attaccare, quindi si mosse in avanti brandendo ancora il pugnale.
Quello che non si aspettava, era che “l'illusione” muovesse la spada per intercettarlo, aprendogli un profondo taglio sulla coscia sinistra. Filvendor sentì che il muscolo veniva meno al suo compito e che la gamba non era più in grado di reggere il suo peso, e un attimo dopo cadde a terra gravando dolorosamente sulle braccia e sul ginocchio destro.
“Tu rimani al tuo posto, escremento!” Gli intimò il drow, in lingua comune per essere sicuro che l'elfo capisse bene. Filvendor riconobbe quella voce, era uno dei suoi tormentatori usuali, e cominciò a tremare suo malgrado. “Come osi alzare le armi contro chi ti è superiore?”

Il suo malriposto orgoglio razziale lo fece distrarre per un momento di troppo. Daren nel frattempo aveva usato il suo ultimo incantesimo di guarigione per curare la ferita alla schiena che l'elfo disperato gli aveva inferto, ma continuó a fingere di essere troppo malridotto per attaccare.
Nadal giudicò che l'elfo fosse stato ridotto all'impotenza, e decise che si sarebbe occupato dopo di quel prigioniero insolente e incorreggibile che aveva osato procurarsi un'arma. Adesso era più importante sbarazzarsi di Daren, perché Zeerith aveva ragione, doveva essere un traditore o quantomeno qualcuno che voleva rubare il loro prigioniero, magari era un infiltrato del culto di Lolth o di chissà chi altro.
Si mosse di scatto, rapido come un serpente, muovendo quei due passi che lo separavano dal drow ferito e portando un attacco che, se Daren fosse stato davvero limitato nei movimenti, probabilmente lo avrebbe ucciso. Invece il drow tracotante si trovò disarmato prima ancora di capire come fosse successo, ma non ebbe il tempo di chiederselo perché la mossa successiva del traditore fu piantargli la spada in bocca.
“Mordi questo, bastardo.” Gli sibilò Daren, ma Nadal ormai non poteva più sentirlo.

Nella piccola grotta calò il silenzio. Era il silenzio tranquillo del rendersi conto che si è ancora vivi alla fine di una battaglia, ma era anche il silenzio terrorizzato di un elfo che attende di conoscere la portata della vendetta di un drow.
Daren si avvicinò al ranger ferito, agganciò con il piede il pugnale che gli era sfuggito di mano e lo fece scivolare sul pavimento verso di lui. “Riprendilo. E non perderlo più.” Gli raccomandó, in tono neutro. “Ce la fai a camminare?”
Filvendor alzò lo sguardo sul guerriero, senza capire. “Perché?” Domandò con voce tremula. “Perché portare avanti questa farsa? Se devi punirmi, fallo e basta!”
Il drow esitò, ma l’elfo chiaro non osava guardarlo in faccia e non colse la sua espressione sorpresa.
“Punirti?” Domandò infatti, rivelando attraverso la voce la sua perplessità. “Stai scherzando? Questa è la prima volta che hai una qualche reazione, finalmente posso sperare che il tuo spirito sia sopravvissuto ad un anno di torture, e dovrei punirti? Ti darei una medaglia, per quello che vale, ma prima dobbiamo uscire di qui.” Continuò, in tono incredibilmente caloroso per un drow, e finalmente il ranger si rese conto di una cosa incredibile: quest’ultimo discorso era stato pronunciato in lingua elfica. Non era un elfico perfetto, certo, ma non era nemmeno quel linguaggio parziale che gli umani studiavano e usavano nel commercio con gli elfi credendo che fosse elfico. Alcune di quelle parole, soltanto un vero elfo avrebbe potuto insegnargliele.
“Pensavo che gli altri drow fossero illusioni.” Rivelò, a bassa voce, come in tono di scuse.
“Le illusioni non perdono il controllo degli sfinteri quando muoiono.” Rispose l’elfo scuro, in tono quasi divertito. “Avanti, puoi camminare o no? Se non ti riporto in Superficie vivo e in salute, Tazandil profanerà il mio cadavere.”
Filvendor sussultò, perché conosceva quel nome. Anche se non lo aveva mai incontrato di persona, ogni elfo della foresta conosceva la fama del severo ranger capo del clan Arnavel.
Improvvisamente tutti i pezzi cominciarono ad andare al loro posto. Tazandil aveva un figlio che negli ultimi anni era stato molto chiacchierato, perfino dagli elfi di altri clan, perché… perché aveva un amico drow.
Era lui, quel famoso amico drow? Era in combutta con questo gruppo? Dalle uccisioni, pareva di no, ma non si poteva mai sapere, magari aveva solo un conto in sospeso con questi due...
“Ti prego, Filvendor, cerca di restare presente a te stesso. Non abbiamo molto tempo. Puoi camminare o no?” Lo incalzò l’elfo scuro, per la terza volta.
Sentire il proprio nome pronunciato dalle labbra di qualcun altro, per la prima volta dopo tanti mesi, ebbe un effetto incredibilmente violento sul povero prigioniero. Era sicuro di non aver detto a nessuno come si chiamasse, quindi se questo sconosciuto lo conosceva… forse era davvero lì per aiutarlo. Forse c’era davvero una speranza. Ma anche se non ci fosse stata più, anche se forse l’aveva appena sprecata con le sue decisioni avventate, Filvendor si sentì comunque profondamente commosso e felice: qualcuno lo stava nuovamente trattando come una persona.
L’elfo non sapeva come affrontare quella valanga di emozioni improvvise, quindi cercò di concentrarsi su faccende più pratiche. Provò a muovere la gamba offesa, ma una fiammata di dolore si propagò per tutta la gamba e su fino all’anca.
“No. Non riesco nemmeno ad alzarmi.” Rispose, e si accorse solo allora che stava singhiozzando.
Il drow si chinò su di lui, scostando il tessuto dei calzoni per poter guardare la ferita.
“Certo che no, è molto profonda.” Sospirò. “Va bene, ho esaurito gli incantesimi ma mi rimane un po’ di potere curativo. Non è molto, ma dovrà bastare.”
Gli tese una mano, e l’elfo questa volta non esitò a porgergli la sua.
Non era un incantesimo, quindi non fu necessario pregare o salmodiare. Un flusso di energia vitale invase il corpo dell’elfo, e il muscolo della gamba ferita cominciò a rilassarsi e rimarginarsi in un piacevole calore.
Quando il potere si esaurì, Filvendor provò a stendere e piegare la gamba; la ferita c’era ancora, ma era poco più che un graffio. Da questo, comprese che la magia era stata a malapena sufficiente a curarlo, e che ora doveva essere finita.
“Alzati, siamo in pericolo e non c’è tempo.” Ribadì Daren. “E guardami. Guardami! So che ti hanno abituato a tenere gli occhi bassi, ma devi imparare a distinguermi dagli altri, anche se non è facile. Se mi attaccherai di nuovo non potrò più guarirmi, quindi non potrò più aiutarti. Lo capisci?”
Filvendor annuì e si sforzò di guardare il drow in faccia. Era contrario a qualsiasi istinto di sopravvivenza, perché finora era sempre stato picchiato e punito ogni volta che alzava lo sguardo, ma se fosse riuscito a fuggire, anche questo condizionamento non gli sarebbe più servito. Quindi, tanto valeva liberarsene subito.
“Hai… delle luci danzanti intorno a te.” Mormorò, per mandare a mente quelle informazioni. Il drow annuì in segno di incoraggiamento. “E… ti manca mezzo orecchio sinistro.”
“Molto bene. Che altro?”
“Io… non so…” Mormorò l’elfo. “Usi una spada bastarda e hai… due spade corte e… e un braccio ferito.” Notò solo ora, sgranando gli occhi. “Ce la farai a combattere? Perché non ti sei guarito?”
Il drow gli rivolse un sorrisetto rassegnato e Filvendor dovette reprimere un brivido. Di solito un sorriso sul volto di un drow significava guai.
“La magia non sarebbe bastata, e mentre io posso combattere con un braccio solo, tu non puoi camminare con una gamba sola.” Spiegò in tono pragmatico.
Filvendor si sentì terribilmente in colpa e abbassò lo sguardo.
“Mi dispiace.” Sussurrò, con voce spezzata per la paura. “D’ora in avanti ti ubbidirò, non farò più di testa mia. Se vuoi punirmi, io… lo capisco.”
Il drow non rispose e si allontanò di qualche passo per raccogliere il pugnale. Sentiva il bisogno fisico di ristabilire un po’ di distanza fra sé e quella creatura tormentata. Il tono sottomesso di Filvendor aveva il potere di ricordargli che solo cent’anni prima si sarebbe unito con gioia ai suoi tormentatori.
Sopprimendo a fatica quelle emozioni disturbanti, Daren afferrò il coltello che ancora emetteva luce, e con un’altra parola di comando lo costrinse a spegnersi. Poi lo porse a Filvendor.
“Due armi sono meglio di una, e può darsi che dovrai combattere anche tu.” Fu la sua unica spiegazione. “Non voglio un seguace senza cervello. Sei un ranger, di sicuro sai combattere e sai improvvisare. Mi basta solo che tu non colpisca me, per il resto c’è un solo comando a cui dovrai ubbidire senza esitazioni: se ti dico di scappare, tu devi scappare. Non importa quali ragioni tu possa avere per restare e combattere. Nel sottosuolo so valutare il pericolo meglio di te, e non intendo essere responsabile della tua morte. E dimentica quell’assurdità delle punizioni, non sei né un bambino né uno schiavo.”
“Sono un prigioniero.” Soffiò Filvendor. “E fra noi e la Superficie ci sono così tanti ostacoli, così tanti… drow.” Si sentì a disagio per quell’osservazione, dopotutto anche questo strano alleato era drow, ma che dire, era la verità.
“Non sarai più un prigioniero, quando i tuoi carcerieri saranno morti.” Gli promise l’elfo scuro, in tono così freddo e granitico che Filvendor quasi gli credette.

           

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Capitolo 17
*** 1287 DR: La loro Battaglia di Koom Valley ***


1287 DR: La loro Battaglia di Koom Valley


Immaginando di poter vagliare dall'alto lo scenario di una contesa prima ancora che questa si scateni, si dovrebbe poter vedere, come su una scacchiera, la posizione dei due schieramenti pronti a darsi battaglia. Siccome in questo caso il teatro dello scontro sarebbe stato una grotta sotterranea, probabilmente una visuale aerea non avrebbe rivelato un granché. Ma con un po’ di fantasia, si può immaginare di vedere attraverso la terra e la roccia, si può far finta di sapere che quelle macchie di oscurità che sembrano semplici ombre in realtà sono drow accuratamente celati nei loro mantelli neri, e si può millantare di penetrare con sguardo magico le difese degli elfi, che avvicinandosi alla meta si erano resi invisibili grazie ad un incantesimo. In virtù di una qualche capacità sovrannaturale si potrebbe anche essere capaci di discernere che l'illusione di un alicorn esploratore, che si muove qualche decina di metri dietro al gruppo di elfi invisibili, è appunto solo un'illusione, ma concepita ad arte per indurre gli osservatori drow a pensare che il grosso delle truppe elfiche sia ancora più indietro. Una mossa calcolata per poter rimandare la reazione dei vhaerauniti a dopo che gli elfi fossero passati indenni oltre le loro fila.
Sì, se fosse possibile vedere l'esatta posizione di ogni drow e di ogni elfo, nonostante i loro mascheramenti fisici e magici, solo allora si potrebbe cogliere la deliziosa ironia di una battaglia in cui ciascuno dei due schieramenti prova a tendere un'imboscata all'altro.

All'inizio, lo stratagemma degli elfi funzionò. I drow erano troppo sicuri di sé, inoltre erano convinti che i loro cugini di Superficie non potessero stimare con esattezza dove fosse il loro insediamento segreto, e che non sapessero muoversi nel sottosuolo in generale. Sarebbe stata una valutazione corretta, ma non potevano sapere che uno spirito invisibile li guidava con una discreta precisione.
Il gruppo dei coraggiosi eroi di Sarenestar avanzò con la lentezza di un ghiacciaio oltre i nascondigli dei drow, facendo l'impossibile per mantenere il perfetto silenzio. Poco dopo l'illusione di Raerlan calcò i loro passi, restando un centinaio di metri dietro di loro.
Mentre i drow erano distratti a guardare il falso Raerlan o a sbirciare dietro di lui per accogliere l’arrivo del resto della pattuglia, gli elfi imbracciarono i loro archi si prepararono ad attaccare.
Mastro Wilhik raccolse un sasso da terra e lo infuse di un incantesimo di Luce Solare, cosa che illuminò istantaneamente la caverna come se un raggio di sole fosse giunto fin lì; i drow non se l’aspettavano e rimasero accecati per un momento. Alcuni di loro erano nascosti particolarmente bene e nemmeno la luce rivelò la loro posizione, ma quelli meno disciplinati commisero l’errore di emettere un gemito. Un istante dopo il fruscio delle frecce riempì l’aria, rivelando la posizione degli elfi, che tornavano visibili man mano che scoccavano.
Nell’arco di un istante, l’occhio allenato di Tazandil riuscì a identificare il guerriero con le protezioni più raffinate, immaginando che fosse il capo. Tre delle sue frecce s'infilarono nelle giunture dell’armatura con precisione chirurgica, la quarta rimbalzò senza danno contro il giaco di maglia di un metallo fine ma resistente. Johel invece prese di mira uno dei drow che gli parevano più sprovveduti, pensando che fosse meglio eliminare in fretta un nemico, anche se meno abile, piuttosto che ferire un avversario più forte. Quelli, era meglio colpirli dopo aver preso accuratamente la mira, nella speranza di piantargli una freccia nell’occhio e farla finita. Nelaeryn aveva avuto la sua stessa idea e bersagliò con le sue frecce il medesimo sfortunato drow, ma fu l’abile Pilindiel a dargli il colpo di grazia con una freccia in gola. Nelaeryn le scoccò un’occhiata vagamente offesa, figlia di una rivalità di lunga data, ma segretamente era molto sollevato di avere quell’abile arciera al suo fianco.
Raerlan decise di dedicarsi, almeno per il momento, a supportare gli altri con incantesimi discreti, e borbottò una formula che avrebbe consentito a tutti di muoversi così rapidamente da poter scoccare almeno un’altra freccia prima che i drow si riprendessero dalla sorpresa. I suoi compari elfi non sapevano che lui fosse un incantatore, ma erano abituati a ricevere aiuto da druidi e chierici e quindi riconobbero quella scarica di adrenalina per quel che era, l’effetto di una magia, e ne fecero buon uso. Sbarazzatisi del primo nemico, i ranger si dedicarono al bersaglio già scelto dal loro capo. Nel frattempo, lady Merildil e il buon sacerdote Solaias cominciarono a salmodiare sottovoce incantesimi che avrebbero richiamato chissà quali creature dai Piani esterni. Era una mossa intelligente, perché un simile utilizzo di alleati non si configurava come un danno diretto contro i nemici, quindi i due incantatori non avrebbero perduto i benefici dell’invisibilità.
Lo gnomo, che allo stesso modo era ancora invisibile, aveva notato la frustrazione di Johel nel non riuscire a colpire il guerriero drow con la sua ultima freccia, quindi gli poggiò una mano sul ginocchio e recitò un incantesimo che avrebbe riacceso il suo coraggio e la sua determinazione, rendendo più affilata la sua mira. Johel sorrise e ringraziò con un cenno del capo, ma senza guardare direttamente verso il suo piccolo alleato. Non voleva rivelare ai drow la sua posizione.
Purtroppo per gli eroi di Sarenestar, anche i drow avevano un mago, e anche lui era furbo abbastanza da nascondersi alla vista. Intuirono la sua esistenza quando un sussurro percorse la caverna e ogni singolo drow in vista scomparve. Mastro Wilhik riconobbe un incantesimo di invisibilità abbastanza potente da poter essere lanciato su più persone allo stesso tempo, molto più utile del suo incantesimo che aveva creato un'area di invisibilità, e cominciò a sudare freddo; l’incantatore drow era decisamente più esperto di lui, forse addirittura quanto il suo maestro.
Gli elfi non erano dei novellini in materia di combattimenti, ma non erano abituati ad affrontare nemici invisibili. Johel conosceva le tattiche drow un po’ meglio degli altri, quindi li mise subito in guardia.
“Se sono esperti nel colpire a tradimento, da invisibili saranno letali!” Avvertì, ricevendo in risposta un cenno d’assenso da Pilindiel e un grugnito di pessimismo da Nelaeryn. Suo padre non si curò di rispondere, ma abbandonò l’arco e sfoderò la magnifica spada elfica, supponendo che presto avrebbe dovuto affrontare i nemici corpo a corpo.

Johel sentì un dardo sfiorargli la testa e passare oltre senza danno, tranne che per i suoi capelli. Uno dei drow l’aveva preso di mira, ma per fortuna la luce creata dal mago aveva compromesso la sua vista; per lui, l’elfo era una figura dai contorni sfumati, e mirare alla testa era stato un azzardo. Il subdolo guerriero si ripromise di mirare al torace, la prossima volta... ma quando vide che era tornato visibile capì che non avrebbe avuto un’altra occasione così favorevole. Imprecò sottovoce in lingua drow.
Notando che il loro compagno era tornato visibile dopo aver attaccato, gli altri soldati decisero di non commettere il suo stesso errore; meglio avvicinarsi e colpire con il filo della spada, piuttosto che giocare al tiro al bersaglio contro nemici avvolti in quell’odiosa luminescenza.
Pilindiel interruppe le imprecazioni dello sfortunato drow bersagliandolo di frecce con tutta la frustrazione di chi non vede altri nemici. Un colpo ben mirato gli bucò una mano e gli fece perdere la presa sulla balestra.

Zeerith non poteva vedere i suoi guerrieri all’opera, ma sapeva che erano professionisti e che non l’avrebbero deluso. Lui, invece, aveva deluso se stesso. Le sue divinazioni non avevano rivelato i nemici in avvicinamento, si era lasciato ingannare da una semplice illusione e da un incantesimo di invisibilità.
Il sacerdote decise che la sua prima azione correttiva doveva essere rendere se stesso in grado di vedere tutti i nemici. Anche quelli che non si erano ancora mostrati, perché quei guerrieri elfi stavano avendo un supporto magico. Si posò le mani sugli occhi e cominciò a cantilenare una nenia, la formula per un incantesimo di Visione del Vero.

Merildil terminò la sua formula di evocazione ed intorno a lei comparvero tre grosse creature simili a gorilla, ma con quattro braccia. La loro presenza imponente riuscì in qualche modo a catturare l’attenzione di tutti i combattenti. L’astuta druida impartì un comando mentale alle sue creature e una di loro partì alla carica verso lo sfortunato drow che era tornato visibile, mentre le altre due rimasero in attesa di ordini. La druida allungò una mano e veicolò la sua volontà in un incantesimo di protezione, che aveva un’area limitata e che dovette decidere ad intuito; era preoccupata che dei nemici invisibili si stessero avvicinando, quindi lanciò il Dissolvi Magie intorno al proprio gruppo di alleati, consapevole che la magia avrebbe tentato di dissolvere l’incantesimo di rango più alto… l’invisibilità creata dal mago drow.
La contromisura funzionò e il mascheramento magico degli avversari venne svelato, al contrario del tiepido incantesimo del mago gnomo. Volare basso, a volte, era la cosa migliore.
Con tutti quei bersagli finalmente visibili, e così vicini per giunta, i rimanenti due girallon si lanciarono alla carica mettendo a frutto le loro possenti zampe artigliate.

Raerlan era un alicorn, e come quasi ogni esemplare della sua razza, odiava visceralmente le creature malvagie. Poteva sentire il puzzo di malvagità in quel sotterraneo, ed era in grado di identificare l’aura più oscura anche senza che lo spirito invisibile di Visne gliela indicasse.
“Stai attento” gli sussurrò però la donna. “Non l’ho mai visto fare sfoggio di tutto il suo potere. Non so cosa possa fare.”
“Purtroppo, neanche io so cosa posso fare.” Le rispose sottovoce. “Poche ore fa le mie protezioni mi sono state tolte, ora esito ad utilizzare incantesimi troppo potenti, anche se li ho appresi con il mio addestramento sciamanico; non so quali attenzioni potrei attirare.”
L’alicorn sospirò, prese la sua decisione ed uscì dalla zona di invisibilità creata da Wilhik, manifestandosi nel bel mezzo della mischia. I poteri offensivi di Zeerith lo preoccupavano ben poco, almeno per quanto riguardava se stesso. Dopotutto, era immune quasi a qualsiasi cosa.

Zeerith guardò con interesse l’elfo biondo e stranamente muscoloso che parlava con una fanciulla disarmata. Per un attimo lo sguardo di entrambi scivolò nella sua direzione, ma loro non potevano vederlo, era ancora celato agli occhi degli elfi dal suo effetto di invisibilità migliorata, per gentile concessione di Jevan.
L’elfa deve essere una maga, si disse, strizzando gli occhi in quella luce fastidiosa. Gli pareva proprio che lei non avesse armi fisiche sulla sua persona. Hanno troppi incantatori per i miei gusti.
Poi l’elfo biondo fece una cosa impensabile; uscì dalla protezione dell’incantesimo di invisibilità e si mosse con passo tranquillo verso di lui, sfoderando una spada!
Zeerith sospirò, scuotendo la testa davanti all’imbecillità degli elfi. Se anche i suoi guerrieri non parevano in condizioni di ostacolarlo (erano impegnati a far fronte a tre grosse creature uscite da chissà quale inferno), ci avrebbe pensato la sua magia clericale a fermare per sempre i suoi passi.

Nel frattempo, la battaglia stava continuando con rinnovata ferocia. La presenza dei girallon costituiva un grande aiuto per gli elfi, Solaias aveva evocato uno sciame di locuste che si era attaccato alla carne e ai capelli di un guerriero drow e Pilindiel ne aveva approfittato per prenderlo a colpi di freccia; poi però aveva dovuto interrompere l’attacco quando un altro di quei maledetti assassini l’aveva ingaggiata in un corpo a corpo. Il nemico era stato così fulmineo che l’elfa non solo aveva perso il suo arco, ma anche la mano con cui lo reggeva. Tazandil stava impegnando quello che pensava fosse il capo fra i soldati, o almeno il più abile, mentre Johel e Nelaeryn fronteggiavano due subdoli nemici con l’aiuto delle bestie evocate da Merildil. Il chierico dava il suo apporto, salmodiando incantesimi di incoraggiamento e di cura in modo che i compagni non perdessero la forza morale, o la vita.
Il mago drow finalmente trovò il tempo di dissolvere l’effetto della luce magica, e l’intera area piombò nell’oscurità, ma solo per qualche secondo, perché il simpatico gnomo si affrettò a lanciare nuovamente l’incantesimo. Gli sfuggì una risatina, ma fu una terribile leggerezza, perché ricevette un colpo di spada alla spalla per i suoi sforzi.

Intanto, man mano che Raerlan si avvicinava, Zeerith riuscì a distinguere un po’ meglio i suoi lineamenti e si rese conto che doveva trattarsi dello sciamano di cui Sulerin gli aveva parlato con terrore.
Questo è l’alicorn che mi è stato descritto come un pericoloso incantatore, al pari di un druido? Questo, che mi viene incontro con una misera spada?
Sulerin deve aver preso un abbaglio, oppure i suoi poteri funzionano solo sugli spiriti.
Il chierico si concesse un sorriso da predatore, poi decise di calare l’asso.
Cominciò ad intessere un incantesimo talmente ardito che avrebbe dato l’impressione di fermare il tempo stesso, mentre in realtà il suo particolare dweomer agiva modificando il corpo dell’incantatore, rendendolo capace di muoversi più velocemente di quanto gli abili occhi degli elfi potessero cogliere.
Quando ebbe terminato di borbottare la formula, la scena intorno a lui sembrò cristallizzarsi in un istante. I pugni degli scimmioni si fermarono a metà del loro arco discendente, le spade interruppero per qualche momento la loro danza di morte. Un dardo scoccato da una balestra drow era immobile a mezz’aria e Zeerith capì che stava ancora viaggiando verso il suo obiettivo, ma il chierico non se ne curò più di tanto. C’erano tante altre cose meravigliose che poteva fare, più importanti di un misero dardo avvelenato.
Si mise subito all’opera, concentrandosi per andare ad attingere ai più neri poteri concessi dal suo Dio. Fece un passo avanti e toccò il braccio di Raerlan, scaricandogli addosso un incantesimo oscuro che avrebbe dovuto ucciderlo, quando l’effetto che fermava il tempo fosse finito. Qualcosa però andò storto; Zeerith sentì che non riusciva a permeare lo sciamano con la sua magia, come se l’alicorn fosse particolarmente refrattario al potere arcano. Il prete aveva già una certa esperienza con le creature resistenti agli incantesimi: ogni drow era benedetto da una simile fortuna. Zeerith era un sacerdote di Vhaeraun, quindi ovviamente annoverava molti drow fra i suoi nemici; si era allenato per anni a superare quel particolare ostacolo. Concentrò tutta la sua volontà e tentò nuovamente un altro incantesimo identico, rammaricandosi per quello spreco. Stavolta, sentì che la maledizione attecchiva.
Con un sorriso maligno, usò gli ultimi istanti che gli rimanevano per allontanarsi dallo sciamano e bersagliare i suoi amici elfi con un fiotto di energia negativa che avrebbe colpito ognuno di loro, tranne l’alicorn perché si era allontanato troppo dai suoi compagni. Tanto, ormai, l’alicorn era da considerarsi un cadavere, perché l’incantesimo di Zeerith l’avrebbe ucciso sul colpo.

Quando il tempo riprese il suo corso normale, i malefici ad effetto ritardato entrarono in azione; Raerlan si sentì invadere da un’energia oscura e malevola, che cercava di infiltrarsi nelle sue vene, raggiungere il cuore e fermarlo. Era un incantesimo di tutto rispetto, ma una persona dal fisico resistente come lui non sarebbe morta per l'effetto di una simile maledizione. Raerlan riuscì a resistere, ma l'effetto magico pretese comunque il suo prezzo. Rimase senza fiato per un momento prima di accorgersi che il drow non era nemmeno più davanti a lui.
Nello stesso momento un gemito corale si innalzò dal centro della caverna, dove i suoi compagni stavano combattendo. Si girò di scatto, preoccupato per la sorte dei suoi amici; sembravano in preda al dolore, erano ancora vivi (tranne i girallon che erano scomparsi, uccisi dall'incantesimo), ed erano riusciti a rimanere presenti a loro stessi abbastanza da non esporre il fianco ai drow. Ciò nonostante, tutti loro sembravano indeboliti e più affaticati di prima, o almeno quelli che poteva vedere; non aveva idea di come stessero il buon Solaias, lady Merildil e il coraggioso gnomo Wilhik, che erano ancora coperti dall'effetto della zona di invisibilità. Purtroppo poteva solo fidarsi del fatto che fossero in grado di prendersi cura gli uni degli altri.
Devo uccidere quel maledetto sacerdote, pensò cupamente. L’aura malvagia intorno al chierico gli rivelò che si trovava a pochi metri da lui, più vicino al centro della battaglia, e l'alicorn non capiva come avesse fatto a passargli accanto in un istante e senza essere visto, ma doveva aver usato qualche magia molto potente. Raerlan decise che doveva tutti i costi distrarlo dai suoi compagni.

Senza scoraggiarsi, Merildil cominciò ad evocare nuove creature per rimpiazzare i girallon che erano stati uccisi dalle armi dei soldati drow e dalla tremenda maledizione del loro chierico. Solaias invece si dedicò al suo ruolo di supporto: prima dello scontro aveva tessuto un incantesimo che gli permetteva di sapere in ogni istante se i suoi amici erano ancora in buona salute oppure avevano contratto ferite mortali. Adesso quel legame magico gli stava comunicando che il povero gnomo era in fin di vita a causa dell’incantesimo che aveva ferito e destabilizzato tutti loro. Non per la prima volta quel giorno, il buon sacerdote mise in dubbio la decisione di portare con loro il mago; è vero che avevano bisogno di lui però quel rischio si stava rivelando davvero eccessivo. In teoria Wilhik avrebbe dovuto rimanere nascosto e non partecipare attivamente allo scontro, ma evidentemente i nemici avevano scoperto la sua posizione e adesso il povero gnomo stava morendo per una battaglia che non era nemmeno sua. Solaias era invisibile quindi non poteva utilizzare pergamene e questo limitava la sua scelta di incantesimi. Anche il mago era invisibile, ma per fortuna l'incantesimo del prete non solo gli permetteva di conoscere la condizione di salute dei suoi alleati ma gli rivelava anche la loro posizione. In questo modo riuscì a concentrare un po’ di energia divina e indirizzarla su quel poveretto verso cui si sentiva responsabile.
Wilhik riprese i sensi immediatamente, ma era lieto di essere ancora invisibile perché temeva di avere il colorito di un cadavere. Nonostante la debolezza e il senso di nausea, il cocciuto gnomo si rialzò in piedi, mosso soprattutto dal desiderio di rivalsa.

Nel frattempo, Raerlan decise velocemente di fare ricorso ad un incantesimo. Non era un incantesimo particolarmente potente, ma sperava che fosse almeno un po’ fastidioso.
Puntò una mano verso il soffitto della grotta e mormorò una rapida frase di comando.
Udendo una voce alle sue spalle Zeerith si voltò incredulo - era convinto che lo sciamano fosse morto - ma non riuscì a capire cosa stesse facendo. Percepì un’energia magica scaturire dalla mano dell’alicorn, ma quell'energia non era rivolta verso di lui. Lo sciamano aveva sbagliato mira?
Il chierico non fece in tempo a scartare quel pensiero ridicolo, che subito si rese conto di un rumore incomprensibile che proveniva da sopra la sua testa. Un rumore… umido. Sembrava il risucchio di un bacio, ma molto più forte.
Come il rumore di un grosso grumo di nove tonnellate di fango che si stacca dal suo alveo in un soffitto di roccia.
Al drow venne spontaneo ripararsi la testa con le braccia, ma per il resto poteva solo fare affidamento sui suoi incantesimi difensivi. L'enorme massa di fanghiglia gli piovve addosso, schiacciandolo sotto il suo peso. Senza sapere come, il prete di Vhaeraun si ritrovó accasciato a terra, schiacciato da una poltiglia semiliquida soffocante e confuso e dolorante per la terribile botta. Per un momento si sentì prendere dal panico, ma per sua fortuna sia lui che lo sciamano si trovavano su una parete obliqua e presto il fango scivolò via in una pigra colata verso il fondo della caverna.
Zeerith non stava affatto bene, gli sembrava di vedere strane lucine che danzavano davanti ai suoi occhi, probabilmente un effetto del colpo appena ricevuto. Si rialzò in piedi il più velocemente che riuscì, sputando un po’ di fango e lottando per respirare.
Quella cosa che poco prima era stata un dignitoso sacerdote drow invisibile, adesso sembrava un omino di fango costruito da un bambino non particolarmente abile.
“Tu. Morirai per questo.” Promise lentamente all’alicorn.
Raerlan non capiva la lingua degli elfi scuri, ma il significato era intuibile dal livore nella voce del prete. Rispose con un sorriso provocatorio e un inchino. Non chiedeva di meglio che poter affrontare personalmente il più pericoloso dei drow.

           

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Capitolo 18
*** 1287 DR: La loro ritirata strategica ***


1287 DR: La loro ritirata strategica


La sfida fra Zeerith e Raerlan stava per farsi personale, ma più in basso nella stessa grotta la situazione era molto più confusionaria.
Merildil aveva evocato due grossi elementali di fuoco, che ora stavano impegnando due dei nemici. Da soli, gli elementali non erano una sfida all’altezza degli esperti guerrieri, ma i loro sforzi combinati a quelli degli elfi stavano cominciando a fiaccarli. Anche Wilhik aveva deciso di seguire il suo esempio, e aveva evocato un serpente stritolatore direttamente dai Piani celesti. Il serpente stava cercando di mordere il drow che minacciava Tazandil, così da avvolgerlo nel suo abbraccio mortale, ma quel dannato era troppo agile per lasciarsi prendere.

Jevan, il mago drow, prendeva molto sul serio il suo ruolo di supporto: dopo quel passo falso con la faccenda del prigioniero elfo voleva riconquistare la stima dei suoi compagni, quindi si stava impegnando a fondo. Non aveva intenzione di sprecare due incantesimi per dissolvere la magia che aveva trascinato gli elementali di fuoco in quella grotta (e di certo non gli importava nulla del serpente, era appena una seccatura); ma c’era qualcos’altro che poteva fare per riequilibrare i conti.
Il suo incantesimo di paralisi travolse il gruppo degli invasori elfi, riuscendo a bloccare sul posto l’ex-arciera e il micidiale guerriero che secondo Jevan era il loro capo. Gli altri purtroppo si scrollarono di dosso il suo maleficio con uno sforzo di volontà, ma era comunque soddisfatto del risultato. Se i suoi compagni non avessero approfittato dell’occasione per ammazzare l’elfo… di certo non sarebbe stata colpa sua.

L’attenzione di Tazandil era tutta per il suo avversario, e quello fu il suo grande errore. I suoi compagni stavano mantenendo uno stile di combattimento più fluido e poliedrico. Si scambiavano l’avversario ogni tanto per non far abituare i drow al loro stile di combattimento, e tenevano d’occhio la situazione d’insieme. Tazandil non poteva permetterselo: il nemico che stava affrontando lui era il più capace e navigato di tutti, l’aveva capito al primo sguardo. Non poteva far ricadere un simile rischio sui suoi sottoposti o su suo figlio. Stava impegnando il guerriero drow con tutte le sue forze, per impedirgli di dedicarsi ad altri, e sperava che Johlariel e i suoi compagni tenessero gli assassini drow lontani dalla sua sfida personale. Non aveva calcolato il mago.
Maledetti maghi drow e la loro mancanza di onore. Imprecò mentalmente, mentre i suoi muscoli si indurivano e il suo corpo incompetente lo tradiva.
Il guerriero nemico sorrise come un serpente e gli infilzò entrambe le spade nel petto. Nemmeno i combattenti drow avevano un gran rispetto per l’onore.

Pilindiel aveva appena deciso che l’odio della sua razza verso i drow era pienamente motivato. Anzi, non era nemmeno abbastanza. Quei bastardi le avevano tagliato una mano. Il tiro con l'arco era tutta la sua vita, e quelli le avevano tagliato una fottuta mano. L’elfa furibonda non aveva realizzato che rischiava di perdere ben di peggio: la vita, o la libertà.
Se ne rese conto solo quando un incantesimo meschino costrinse i suoi arti a contrarsi e indurirsi, impedendo agli ordini del suo cervello di raggiungere i muscoli. Qualcosa l’aveva paralizzata… fece appena in tempo a provare una fitta di paura, prima che il bastardo che l’aveva mutilata portasse a termine il suo piano. Il drow le diede un colpo in testa con il pomo della spada, mirando alle tempie. Pilindiel cadde a terra senza cambiare posizione, paralizzata in un’assurda posa d’attacco.
“Tu sarai prigioniera” le disse in un elfico stentato, con un ghigno e uno sguardo lascivo. Non c’era spazio per molte interpretazioni.
Per fortuna lei non lo udì; era già svenuta prima di toccare il suolo.

Dalla loro postazione nascosta, come un’isola di pace in mezzo alla battaglia, Merildil e Solaias assistevano con orrore a quella furia di lame e morte. I loro compagni erano chiaramente nei guai, ed era giunto il momento di mettere da parte le evocazioni per portare un po’ di aiuto più immediato. Senza nemmeno mettersi d’accordo fra loro, scivolarono entrambi nel medesimo canto di guarigione.

Nelaeryn aveva visto la sua amica cadere. Era un ranger esperto, aveva sopportato gli allenamenti più duri, aveva combattuto contro orchi e troll, ma non aveva mai avuto così tanta paura fino a quel momento.
Non era per i drow.
Aveva visto Pilindiel cadere.
Dimenticò il duello che aveva in corso contro il proprio avversario e si gettò sul criminale che aveva osato attaccare l’elfa. Riuscì a ferirlo, ma presto si trovò fra due fuochi, anzi peggio, fra due drow. Soltanto l’intervento congiunto della druida e del chierico riuscì a mantenerlo sulla linea di sopravvivenza.

Quando l’energia di guarigione inondò la caverna, Pilindiel aprì gli occhi quasi all’istante. O almeno, per lei era passato un istante. La prima cosa di cui si rese conto fu di essere rovinata a terra. La seconda, che adesso riusciva di nuovo a muoversi.
La sua spada giaceva troppo lontana, il drow doveva averla calciata via. Ma il suo arco era lì, a portata di mano. Così mutilata non poteva tirare frecce, ma poteva ancora sbattere l’asta di legno contro il naso dell’elfo scuro.
Lui non se l’aspettava. L’elfa avrebbe dovuto essere svenuta. Il frontale a gran velocità con l’estremità lignea di un arco gli fece realizzare il suo errore.
Non era un gran colpo, solo un azzardo casuale e fortunato, nulla di davvero doloroso. Ma lo distrasse il tempo sufficiente perché Nelaeryn potesse entrare nella sua guardia e bucargli un polmone. In quel momento, con grande tempismo, un elementale del fuoco riuscì a colpire l’altro drow. Uno schiaffone fu sufficiente per ustionargli la faccia e dare fuoco ai suoi capelli. La nera creatura si gettò a terra e rotolò in modo frenetico, ululando come una banshee e cercando di spegnere il fuoco.
Poco dopo, per somma fortuna di Tazandil, anche il suo nemico subì la stessa sorte. Meno male, perché un altro colpo mirato sarebbe stato letale, nonostante le cure magiche degli alleati.
Tazandil approfittò di quel momento di distrazione del drow. Doveva trovare dentro di sé la forza per infrangere l’incantesimo di paralisi. Lo sforzo fece nascere un ringhio in fondo alla sua gola, soltanto un verso incomprensibile. Ma riuscire a far vibrare le corde vocali era già qualcosa. La sua rabbia e la frustrazione erano come il fuoco di una forgia, in cui la sua forza di volontà venne temprata e rimessa a nuovo. Il ringhio divenne un grido, e lottando contro sé stesso Tazandil riuscì a spalancare le braccia e riprendere possesso del suo corpo. Il maleficio cadde come un muro abbattuto da un ariete.
Ora era il suo momento di colpire un avversario in difficoltà. Il guerriero in armatura stava ancora rotolando per spegnere il fuoco che aveva attecchito sul suo mantello. Tazandil gli piantò la spada in una gamba, dandogli un altro motivo per gridare.
L’elementale camminò sul drow prono, schiacciandogli la testa nel fuoco mentre si dirigeva verso la sua prossima vittima.

Zeerith colpì lo sciamano alicorn con un incantesimo che avrebbe dovuto distruggere qualsiasi creatura vivente. La sua idea iniziale era usare il coltello di ferro freddo, quello che aveva fatto infuriare Sulerin. Però il suo avversario aveva una spada, e Zeerith non dava il meglio nel combattimento corpo a corpo. Poteva farlo, ma prima voleva ridurre lo sciamano ai minimi termini, con i suoi incantesimi di morte. Non era la prima volta che tentava una magia di questo genere, e come al solito ottenne solo un effetto parziale. L’alicorn non era indistruttibile, ma era coriaceo. La sua forza interiore sembrava non avere limiti.
Dal canto suo, Raerlan non era contento di come stesse andando il combattimento. Alcuni dei drow erano morti, ma sapeva che Merildil e Solaias non disponevano di infiniti incantesimi di cura. Se uno solo dei suoi amici fosse caduto, quella morte sarebbe stata colpa sua. I più pericolosi fra i drow erano il chierico e il mago: questi due erano ancora in salute e chissà quali frecce avevano al loro arco...
Questo pensiero fu ciò che gli serviva per prendere finalmente una decisione risolutiva. Mormorò un breve incantesimo, pregando che aprire una breccia verso altri Piani con una tale forza non attirasse su di lui attenzioni indesiderate. Dopotutto si trattava di una cosa breve, momentanea.
Non vide arrivare il gigantesco elementale della terra, però lo percepì. La caverna non era abbastanza grande per contenerlo tutto, ma lui era lì. La roccia era intorno a loro. E anche lui, da qualche parte. Vicino.

Una mano grande come un carro si delineò nel terreno. Era fatta di roccia, esattamente come il suolo e le pareti. Scattò verso l’alto così rapidamente che Zeerith si accorse a malapena che il terreno sotto ai suoi piedi stava per muoversi. Il sacerdote venne sbalzato verso l’alto e afferrato al volo dalla mano di pietra. La sommità di una testa smodatamente grande sbucò dalla parete, come il capo di un nuotatore che emerge dall’acqua. Due occhi brillanti di luce azzurra, abissi antichi come il mondo, scrutarono il drow con uno sguardo vacuo che prometteva morte. Poi la mano cominciò a stringere.

Johel non si era mai sentito così frustrato. L’avversario che stava affrontando gli teneva testa rispondendo ad ogni attacco, mimando ogni parata. Sembrava che cercasse solo di infastidirlo, e riuscivano a colpirsi a vicenda solo di striscio. Inoltre c’era un dannato stronzetto che lo prendeva di mira con una balestra, con ineccepibile regolarità. Quando il guerriero drow lo metteva in difficoltà, costringendolo a ritirarsi su una posizione di difesa, il bastardo lo bersagliava di dardi.
È proprio una caratteristica comune a tutti i drow. Pensò, un momento prima di azzardare una rapida serie di attacchi. Era una mossa ardita, ma la fortuna aiuta gli audaci. Riuscì a colpire una delle mani del nemico, recidendogli un dito e facendogli perdere la presa sulla spada. La sorpresa e il dolore furono una distrazione sufficiente; la successiva parata arrivò lenta, insufficiente. La spada magica di Johel scivolò sopra alla lama di fattura drow, trapassò l’armatura di cuoio, affondò nella carne.
Un quadrello di balestra gli graffiò nella spalla, ma venne deviato dalla cotta di maglia.
Sì, comune a tutti i drow. Ti fanno venire voglia di spaccargli la faccia con una mazza.
Johel si vide passare davanti agli occhi il volto scuro del suo amico. Ad un osservatore esterno poteva sembrare che i drow fossero tutti uguali, ma l’elfo dei boschi vedeva le differenze fra loro. Daren non aveva tutto quell’odio e quella malvagità negli occhi.
Tuttavia fu il suo volto che immaginò, quando sfondò il cranio del guerriero con un fendente dall’alto.
Daren è mio amico e a lui non posso farlo. Ricordò, con un moto di fastidio. Ma per tutti i diavoli, sarà meglio che mi sfoghi prima di trovarmelo davanti.

Zeerith non riusciva ad immaginare che potesse andare peggio di così. Aveva provato a dissolvere l’incantesimo di richiamo, ma il mostruoso elementale non era stato bandito. Anzi, i suoi sforzi erano stati ricompensati da un’altra stretta soffocante. Le sue costole stavano iniziando a scricchiolare.
No, decisamente non poteva andare peggio. Poi arrivò Sulerin. Nel bel mezzo del suo momento di umiliazione, arrivò la sua inaffidabile amante con cattive notizie. Lui non la vide, ma udì il suo messaggio magico: un messaggio che poteva venire solo da una breve distanza.
“Le tue guardie sono morte. Daren le ha uccise, è un traditore. Ha preso il prigioniero e vogliono scappare. È alleato degli elfi.”
Zeerith lasciò sedimentare l'informazione, cercando di mantenere la calma e di respirare.
Maledetto. Lo sapevo! Avrei dovuto fidarmi del mio istinto. Il prete di Vhaeraun considerò la sua scomodissima posizione. Qui ho perso il controllo. Devo riprendere in mano la situazione, subito.
Il sacerdote aveva sempre un piano di fuga. Non importa quanto un drow possa essere sicuro di sé, un’uscita di emergenza doveva esserci sempre; perfino gli dèi si preparavano piani di fuga. Zeerith non era un idiota.
L'elementale era così grande che la sua presa sul drow non era perfetta: alcune dita lo stringevano come barre di metallo, altre gli lasciavano un po’ di possibilità di movimento. Le sue mani, soprattutto, potevano ancora agitarsi liberamente. Era per quello che riusciva ancora a fare incantesimi.
Ora gli serviva qualcosa di diverso. Il pollice della mano destra andò a strofinare un anello che teneva all'indice, attivando l'incantesimo che conteneva.
Zeerith scomparve dalla presa di quella mostruosità di pietra. La sua destinazione non era lontana; gli serviva il supporto di Jevan.

Il mago drow non era rimasto in panciolle; si era lanciato un incantesimo per poter vedere le cose invisibili. Era il momento di occuparsi degli elfi incantatori. Sapeva che dovevano avere almeno un mago e qualcuno capace di curarli. La magia l'aveva messo in condizione di poter prendere di mira quei nuovi bersagli; uno gnomo, una femmina ed un elfo che era palesemente un chierico. Quest'ultimo era diventato il suo bersaglio d’elezione: un sacerdote secondo lui era il nemico più pericoloso che ci fosse. Forse la sua scelta era un po’ condizionata dai suoi rapporti con Zeerith.
Jevan era combattuto. Catturare vivo il sacerdote sarebbe stata una cosa furba: doveva sapere molte cose sulla società degli elfi e sulla loro preziosa città nascosta. Però non era una cosa molto saggia. Un mago diventa inutile senza il suo libro e le sue componenti magiche, ma un chierico non smette mai di essere letale.
Il mago scaricò sull’elfo uno dei suoi incantesimi più crudeli: un'illusione che avrebbe mostrato al nemico la sua più grande paura. Alcune persone, sotto l'effetto di quella magia, morivano letteralmente di crepacuore.

Solaias non capì che si trattava di un’illusione. L'oggetto del suo più profondo terrore non aveva un vero nome, era una creatura che probabilmente nemmeno esisteva, ma ne aveva sentito parlare in una storia quando era bambino. Una specie di uomo nero che si nascondeva nei pozzi e nei pertugi, una creatura fatta di ombra e putrefazione, che andava a caccia di notte, afferrando gli incauti e divorandoli. Non era difficile immaginare che i drow potessero evocare una cosa del genere. Quindi, sì, credette all'illusione. Ma la sua fede era più forte. Cercò a tentoni il simbolo sacro del suo Dio, e lo brandí coraggiosamente contro il mostro. Forse non era un non morto, ma Solaias non aveva nient'altro che la fede per combattere la sua terribile paura.
Quella cosa scivolò verso di lui, veloce come un rapace. Solaias si aspettava di essere buttato a terra e dilaniato, invece il mostro gli passò attraverso, come se fosse stato davvero fatto di ombre. Il povero chierico sentì un gelo mortale afferrargli il corpo e scivolare sottopelle, ma non arrivò fino al cuore. Rimase una sensazione superficiale, ma anche così riuscì a fiaccarlo e a farlo star male.
Finalmente riconobbe l'illusione per ciò che era: il malvagio incantesimo di un drow.
Cielo. Non hanno ritegno. Non c'è niente di elfico nel loro animo. Solaias era sconvolto, scosso dai brividi. Queste creature sono perdute, e condanneranno anche noi se gli concediamo terreno...
Il chierico si guardò intorno, ansioso come qualcuno che si è perso nel vuoto. A Myth Dyraalis era considerato un chierico promettente, brillante, benedetto dal favore di Corellon. In questa caverna peró non si riconosceva più. Si sentiva piccolo e spaventato, impotente. Non aveva mai affrontato un vero pericolo prima, non sapeva se avrebbe superato questa prova. I drow erano fra i più antichi nemici del suo dio, Corellon sarebbe stato fiero di lui se fosse riuscito a tenere in vita i suoi compagni, ma Solaias non era sicuro di riuscirci. Il combattimento stava volgendo a loro favore, quasi, ma con i drow non si poteva mai sapere. E poi avevano un mago.

Il mago in questione sibiló di fastidio quando vide che il sacerdote elfo non era morto sul colpo.
Ma che cosa gli costa morire quando lo dico io? Dannati elfi. Bestie cocciute.

Zeerith si materializzò al suo fianco. Per un istante Jevan pensó che fosse lì per rimproverargli il fallimento. Poi il sacerdote parlò, e c'era una nota spaventosamente cupa e disfattista nella sua voce.
“Questa battaglia è persa.” Sussurrò in lingua drow. “Ci ritiriamo verso il complesso centrale, lì ho un po’ di oggetti magici che ci serviranno. Tu dovrai precedermi, vai e uccidi quel guerriero arrivato stamattina. È un traditore.”
Il mago lasció scivolare un'occhiata sulla grotta dove ancora si combatteva. La battaglia era ardua, sì, ma non gli sembrava ancora persa. Doveva decidere rapidamente, e decise di obbedire. Magari Zeerith sapeva cose che lui ignorava.
“Vai!" Lo incitò il prete. "Io e gli altri resisteremo il più possibile, poi ti seguiremo.”

Jevan era ancora invisibile, quindi scivolò quasi indisturbato fra i combattenti, tenendosi attaccato alla parete di pietra.
Un quadrello di balestra passò a meno di un metro dalla sua testa e si conficcò nel braccio armato di un elfo. Poi un rumore orribile, come quello di un ragno che viene schiacciato, lo indusse a voltarsi.
Un elementale della terra, il più grande elementale che avesse mai visto, stava emergendo dalle pareti e aveva schiacciato il balestriere sotto una delle sue enormi mani.
Il drow cominciò a correre, stavolta senza guardare indietro.

La caverna era completamente nel caos, e approfittando di quella confusione Sulerin si sdraiò parallela al suolo e lentamente vi scivolò dentro, lasciando una manina fuori, appena visibile, per segnalare a Zeerith la sua posizione. Poi, come se stesse nuotando nella roccia, si mosse fluidamente in avanti, avvicinandosi alle retrovie dello schieramento elfico.
Il sacerdote restò a guardare con una punta di curiosità mentre Sulerin si univa allo scontro. La battaglia era praticamente persa e l’astuta insoril doveva averlo capito. Perché andarsi ad infilare in mezzo a quel carnaio?
Il drow doveva riconoscere che le tecniche subdole della fata unseelie non la esponevano a grandi rischi. Nascondersi nel terreno grazie alla sua natura incorporea, e poi colpire a tradimento la druida degli elfi, in effetti non era una cosa molto pericolosa. Ciò nonostante, scosse la testa con un sorriso. Sulerin avrebbe voluto uccidere l’alicorn, ma lui era troppo forte per lei. Per l’Abisso, era troppo forte perfino per lui. Quindi la bizzosa fanciulla aveva preso di mira la seconda migliore preda… una druida. Puerile.
Sulerin guardò verso di lui, da sopra la spalla dell'elfa. Gli rivolse il più innocente dei sorrisi, e Zeerith cominció a preoccuparsi.
Gli altri elfi dei boschi si girarono immediatamente verso la loro druida, stupefatti. Il chierico si rese conto che lei era appena tornata visibile, proprio mentre la insoril diventava invisibile ai nemici. A quanto pare Sulerin era stata utile a qualcosa, dopo tutto...
La fata, che lui poteva ancora vedere grazie alla sua vista magica, gli fece l'occhiolino e gli mandó un bacio, poi alzò una mano invocando l'altro incantesimo che aveva appena rubato.
C'era un buon motivo se fino a quel momento nessuno dei due schieramenti aveva utilizzato incantesimi ad area: nel bel mezzo di una battaglia, avrebbero danneggiato sia gli elfi che i drow. Ma a Sulerin non fregava niente. Lei amava portare il caos.
La sua manina diafana si illuminò di una luce violenta che non prometteva nulla di buono.
Una colonna di fuoco invase l'intera caverna, spazzando via la loro tattica e le loro battaglie in punta di spada. E anche buona parte delle loro vite.

Il terribile scoppio di luce scomparve improvvisamente com'era apparso. Zeerith si strofinò gli occhi, solo per scoprire che non aveva più le palpebre, e che anche la maschera magica che copriva metà del suo volto era stata polverizzata. Il tremendo calore l'aveva preso in pieno e solo la sua naturale resistenza di chierico l'aveva salvato dalla morte.
Sia reso grazie a Vhaeraun. Mormorò, cercando di capire cosa ne fosse stato del suo gruppo. Non ne restava nulla, solo cadaveri. Osservò con incredibile distacco che non erano carbonizzati, come pensava, sembrava che fossero stati uccisi più dal semplice potere dell’incantesimo che dal fuoco. Quella perdita non gli fece né caldo né freddo: aveva capito che era questione di pochi secondi prima che i suoi guerrieri venissero comunque sconfitti e uccisi. Per contro, la colonna infuocata aveva danneggiato parecchio la banda degli invasori.
Sulerin mi è stata utile, dopotutto. Potrei ricompensarla per questo. Potrei ucciderla in modo rapido e poco doloroso. Zeerith scrolló le spalle, sapendo che comunque non l'avrebbe fatto. La insoril era scomparsa e al momento non era una priorità.
Il suo piano di fuga era la priorità. Alcune ore prima, quando aveva saputo che gli elfi erano in arrivo, l'astuto sacerdote aveva cominciato a lavorarci. Dopo aver allontanato Daren, perché di lui non si fidava, Zeerith aveva passato un'ora immerso in un rituale che avrebbe consentito a lui, se non ai suoi seguaci, un’estrema via di fuga.
Aveva mentito a tutti, raccontando che si trattava di un incantesimo di potenziamento per proteggerli dall'alta magia elfica. In realtà, quello che aveva fatto era stato legare i loro corpi ad un servizio ultraterreno. Quel rituale richiedeva una precisa componente materiale, per cui Zeerith non aveva potuto portarlo a compimento. Richiedeva di essere lanciato su dei cadaveri. Se entro ventiquattr'ore non avesse pronunciato la formula finale del rituale, tutta la sua fatica e le costose componenti che aveva dovuto sacrificare sarebbero andate sprecate. Tuttavia il chierico avrebbe preferito davvero sprecare quel rituale e tutto ciò che comportava, piuttosto che doverne fare uso, perché pronunciare le ultime parole significava che tutti loro erano arrivati all'ultima spiaggia.
Utilizzò il suo anello magico per spostarsi di nuovo, questa volta nella galleria in cui era fuggito anche Jevan. Verso la sicurezza del loro accampamento.
Zeerith recitò un incantesimo, e sotto i suoi piedi cominciò ad innalzarsi un muro di pietra. Lo fece arrivare fino quasi al colmo della galleria, perché per il momento aveva ancora bisogno di una finestra per poter guardare la grotta dove avevano combattuto.
Gli elfi si stavano ricomponendo, cercando di curarsi con quello che restava della loro magia di guarigione. Zeerith era di nuovo invisibile, l'incantesimo devastante di Sulerin aveva bruciato via il fango che lo ricopriva. Sorrise in modo magnanimo, sapendo che nessuno poteva vedere il suo sorriso. Lasciò che gli elfi dessero fondo a tutti i loro incantesimi di cura. Era molto meglio così.
Non stavano facendo caso al suo muro di pietra, forse l'avevano preso per un tentativo di tenerli lontani, un puerile ostacolo che non avrebbe retto al loro mostruoso elementale.
Il prete non smise di sorridere. Non era per tenerli fuori, era per tenerli dentro.
Quando giudicò che i tempi fossero maturi, scivolò nella meditazione, in cerca di quel filamento del rituale che aveva lasciato sospeso. Eccolo, eccolo. Lo sentiva fremere. Aveva finalmente la sua componente materiale che prima mancava.
Zeerith recitò le ultime fatidiche parole.
I cadaveri dei drow vennero scossi da un sussulto.

Il gruppetto di coraggiosi eroi di Sarenestar stava decidendo le prossime mosse, pensando che ora l'offensiva spettasse a loro. Erano sopravvissuti al più aggressivo incantesimo di Merildil, rubato dalla sua mente e usato contro la sua volontà. Perfino il piccolo Wilhik, che tutti davano per morto, ce l'aveva fatta. Quando si era reso conto di essere diventato inutile, si era ritirato in uno spazio extradimensionale, dove gli incantesimi non potevano raggiungerlo. Un po’ si vergognava della sua mossa codarda, ma i suoi amici avevano capito la sua situazione. Gli elfi avevano solo parole di lode per la sua intelligenza, e lo gnomo si sentì commosso per la loro lealtà.
Pochi istanti dopo, Wilhik si pentì di essere uscito dal suo nido sicuro. Quella sensazione di calore e affetto venne sostituita dalla gelida carezza della paura.
I corpi dei drow si stavano muovendo. Qualche oscura magia stava modificando i cadaveri, li stava come… prosciugando. Poi, quelle cose non più vive cominciarono a rialzarsi. Orbite vuote, pelle secca e tirata sulle ossa, carne compatta e indurita. Wilhik aveva studiato, era uno gnomo di cultura. Nonostante l'assenza di bende, sapeva riconoscere delle mummie quando le vedeva.

Zeerith rise in silenzio e si lasciò cadere giù dal muro. Un altro incantesimo gli permise di erigere un secondo muro, invisibile, appena dietro al primo. Un muro di Forza, virtualmente indistruttibile.
La vendetta era un piatto amaro, perché si vendica solo chi è già stato sconfitto. Ma era sempre meglio di niente.

           

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Capitolo 19
*** 1287 DR: Il loro anello debole ***


1287 DR: Il loro anello debole


Jevan si addentrò da solo nelle gallerie, turbato per quello che si stava lasciando alle spalle. Quell’elementale della terra era il più grande che avesse mai visto, e ovviamente poteva muoversi attraverso la roccia. Avrebbe potuto emergere in qualsiasi momento e schiacciarlo come un insetto. La magia poteva proteggere da molte cose, ma non dalla pressione di una frana.
Devo sperare che Zeerith possa occuparsene. Mi ha ordinato lui di andare...
Il fragore di un’esplosione risuonò in una cacofonia assordante, la sua eco travolse il mago insieme ad una ventata di aria calda.
Oh. Zeerith. Suppose il drow, voltandosi indietro solo per un momento. La caverna del combattimento però era già troppo lontana, dietro una mezza dozzina di svolte, e Jevan non riuscì a vedere nulla.
Quando si voltò a guardare di nuovo in avanti però vide qualcosa. Era arrivato ad uno slargo che si apriva su altre due gallerie, e da quella di destra proveniva una fioca luce.
Jevan si nascose istintivamente dietro a una stalagmite. Era ancora invisibile, ma non sapeva per quanto tempo lo sarebbe rimasto, ormai aveva perso il conto dei minuti che erano passati da quando aveva lanciato l'incantesimo. Rimase immobile ed in perfetto silenzio, cercando di captare ogni minimo rumore. Presto cominciò a sentire un suono ritmico che seguiva la luce. Rumore di passi. Una sola serie di passi, di qualcuno che si sforzava di essere silenzioso ma senza grande successo.
Potrebbe essere l'elfo. Lui ha bisogno della luce perché i suoi deboli occhi non servono a niente nel buio completo. E naturalmente non sa essere silenzioso, non come un drow. Ma il traditore sarà con lui?

Filvendor seguiva il drow in silenzio, facendo conto sulle sue lucine fluttuanti. Stavano attraversando una serie di cunicoli che all’elfo dei boschi non dicevano nulla. Viveva in quella prigione soffocante da mesi, ma non era comunque capace di orientarsi. Di solito veniva trascinato da una caverna all'altra, nella completa oscurità, senza che potesse capire dove fosse o dove lo stessero conducendo. Tranne quando invece lo lasciavano per giorni nella stessa stanza, quella con le catene e gli attrezzi di tortura.
Per un breve istante lo sfiorò il dubbio che il suo “liberatore” lo stesse portando lì. Ma no, aveva ucciso altri due drow, era andato tutto troppo oltre per essere un inganno.
Doveva fidarsi. Non poteva fidarsi della parola di un elfo scuro, ma delle evidenze sì.
Il tratto che stavano percorrendo era in salita, e Filvendor non era al massimo della sua forma fisica, ma non poteva permettersi di restare indietro. Alla fine, affiorarono in una galleria più larga, una in cui si potevano perfino stendere le braccia senza toccare pareti di pietra.
Fu in quel luogo che una pioggia improvvisa di attacchi magici gli si rovesciò addosso.

Daren venne colpito da un flusso di energia magica che gli fece contrarre i muscoli contro la sua volontà, per poi farli rilassare imitando una condizione di profonda stanchezza. Il drow aveva una certa esperienza nel contrastare gli attacchi magici, e sapeva come combattere quella spossatezza innaturale. Concentrò tutte le sue forze su quel compito, e si sforzò di respirare normalmente, tendere e rilassare gli arti come se volesse mandare via un crampo, e alla fine l’ondata di malessere si ritirò. Daren aveva il fiato corto e si sentiva affaticato, ma sentiva di aver tamponato la maggior parte dell’effetto malefico dell’incantesimo.
Ora ne aveva la prova, c’era qualcuno lì con loro; qualcuno capace di magie considerevoli. Purtroppo, questo nemico era invisibile.
Peggio, non era soltanto invisibile agli occhi; riusciva a sfuggire anche alla vista magica di Daren, che sapeva individuare l’aura nera delle creature malvagie.
Un incantesimo per nascondere le proprie inclinazioni morali? Ma come poteva sapere che Daren aveva quel dono? Avrebbe dovuto crederlo un semplice guerriero. Oppure non si trattava di un incantesimo d’inganno?
“Filvendor, sto per farti una domanda un po’ strana. Ti è parso che ci fosse qualcuno… di loro… meno malvagio degli altri?” Domandò, mentre modificava la presa sull’impugnatura della spada corta. Non aveva ancora deciso se assumere una posa difensiva o di attacco. Tentare di colpire un avversario invisibile poteva essere inutile.
Filvendor esitò, ma solo per un secondo. Quella domanda gli aveva riaperto una ferita nel cuore, una che pensava di aver cicatrizzato con l’odio. Se avesse potuto scegliere, non ci avrebbe pensato. Non avrebbe risposto. Ma il tono del drow lasciava trasparire urgenza, un senso di pericolo.
“Io… pensavo che il loro mago fosse… meno crudele. Però mi sbagliavo.” Raccontò, con un nodo in gola.
Forse non ti sbagliavi poi così tanto, si disse il guerriero drow, scuotendo la testa. Le azioni malvagie sono un conto. Le intenzioni malvagie, un altro. Qualsiasi drow sa che per sopravvivere deve incutere paura agli altri, anche ai suoi alleati. Nessuno avrebbe temuto un elfo scuro che mostrasse pietà. Ma perché il mago è qui, se c’è in corso uno scontro fra elfi e drow? Gli elfi sono stati tutti uccisi?
Per il momento mise da parte quella terribile idea. Non aveva certezze su nulla, tranne che sulla presenza di un nemico, che era il suo problema più pressante.
In quel momento il mago invisibile completò il suo nuovo incantesimo. Daren non se ne accorse subito; l’effetto non era diretto contro di lui.

Filvendor emise un verso di stupore, trovandosi improvvisamente prigioniero in un campo di forza invisibile. All’improvviso il mondo intorno a lui assunse una curvatura strana, e l’elfo dei boschi impiegò un istante a capire che cosa fosse successo. Non era il mondo ad essere sbagliato, era il suo punto di vista. C’era qualcosa che distorceva la sua visuale, come una lente. Allungò una mano. Il suo palmo sbatté contro una parete invisibile e ricurva, leggermente elastica.
Era prigioniero.
Il suo verso di stupore arrivò all’esterno in modo distorto e ovattato, ma Daren se ne accorse comunque. Filvendor non poteva vedere con chiarezza la sua espressione, era troppo buio e l’immagine era un po’ distorta, ma gli sembrò che il drow fosse più sorpreso che contrariato.

Daren rinfoderò la spada, in modo da avere la mano libera. C’era una cosa di cui ora aveva più bisogno.
Affondò la mano nella tasca da cintura, trovando un oggetto apparentemente innocuo. La sfera magica aveva l'aspetto di un piccolo panino chiaro, per questo non gli era stato tolto durante la perquisizione: chiunque l'avrebbe scambiato per una riserva di cibo. In realtà si trattava di un gingillo creato su misura e dietro sue direttive, un agglomerato di farina tenuto insieme da un incantesimo. Daren sapeva che pronunciando la giusta parola di comando l'incantesimo si sarebbe ribaltato: anziché tenere compressa la farina, l'avrebbe fatta spargere in un’area molto ampia, ricoprendo come un velo qualunque creatura invisibile entro una certa distanza.
Daren lanciò la sfera verso la direzione da cui aveva sentito dei sussurri, pensando che fosse la voce del mago che preparava il prossimo incantesimo. La “bomba” di farina rotolò e rimbalzò sul terreno irregolare. Prima che la gravità potesse spingerla di nuovo verso di lui, il guerriero pronunciò la parola di comando.

Jevan si accorse troppo tardi della mossa improvvisa del traditore. Riuscì a malapena a nascondersi dietro una stalagmite.
Una precauzione inutile. Non si trattava di una palla di fuoco o di qualche altro incantesimo devastante, ma di un espediente innocuo… di per sé. La sfera esplose come se non aspettasse altro, rilasciando un turbine di vento. Non era abbastanza forte da essere fastidioso o doloroso, ma lo era abbastanza per spargere una polvere bianca in tutta la caverna, anche negli anfratti più nascosti.
Jevan non aveva idea se fosse una sostanza tossica, quindi cercò di trattenere il respiro. Il vento calò quasi subito, ma presto si accorse che si era lasciato dietro un mondo striato di bianco. La sfera trasparente che con cui aveva imprigionato l’elfo era diventata opaca per la polvere, l’altro drow era anch’esso coperto da quella sostanza bianca, e lui… era fregato. Incantesimo innocuo o no, adesso la sua invisibilità era compromessa.
Ora aveva davanti a sé due scelte: impiegare un breve e semplicissimo incantesimo per ripulirsi dalla polvere bianca, ma ormai il guerriero l'aveva visto e se era bravo l'avrebbe colpito comunque… oppure cercare di ucciderlo con un unico incantesimo potente.

Filvendor sbatté una mano contro la parete invisibile, frustrato dalla propria impotenza. Era stato preso prigioniero, le sue possibilità di fuga potevano essere appena sfumate, e ora non riusciva nemmeno a vedere cosa stesse succedendo. La sua manata fece saltar via un po’ di farina dall’altra parte della sfera, ma la visuale era comunque ostruita.
Un momento dopo, all’esterno della barriera esplose il caos.

Daren finalmente poteva vedere la silhouette del mago. Aveva un aspetto strano, alcune parti erano ancora invisibili, mentre la farina si era intrufolata soprattutto fra i capelli e nelle fibre delle vesti. Aveva un aspetto quasi buffo, e allo stesso tempo sembrava un fantasma uscito da un incubo.
Il mago alzò le braccia, disperdendo una piccola nuvola di farina intorno a sé. Una singola parola, roboante come un tuono, e l’aria immota della caverna venne squassata da una tempesta di ghiaccio.
La cosa strana era che non si alzò un filo di vento. Daren se ne rese conto in un angolo della sua mente, quella tempesta era tutto fuorché naturale. Non ci provava nemmeno a sembrare naturale. Pezzi di grandine grossi come biglie si materializzarono appena sotto la volta della caverna e gli piovvero addosso con forza impossibile, come se cadessero da un’immensa distanza.
Daren poteva anche avere un braccio offeso, ma le sue gambe funzionavano ancora molto bene. Uno scatto fulmineo lo portò a ripararsi in una nicchia nella parete, permettendogli di evitare la maggior parte della grandine. Se la cavò con qualche dolorosa abrasione.
Non appena il furioso attacco magico si fu calmato, il guerriero si lanciò di nuovo in centro alla galleria, cercando il mago con lo sguardo. L’insidioso nemico sembrava scomparso nel nulla.
Non può essersi pulito così in fretta, e l’incantesimo non ha generato movimento d’aria. Un altro incantesimo di invisibilità? Daren non era completamente ignorante in materia di incantesimi, dopotutto un tempo aveva un mago per amico. Sapeva che se il drow avesse lanciato un altro incantesimo di invisibilità, questo avrebbe reso invisibile la sua nuova forma, compreso lo strato di farina. Ma sapeva anche che lanciare incantesimi richiedeva una certa concentrazione ed una certa tempistica, e non credeva che il mago avesse avuto il tempo di concentrarsi ed intessere altre magie.
Scrutò il paesaggio cupo e sterile della caverna, con maggiore attenzione. La polvere bianca ricopriva il terreno, ma quel velo immacolato adesso era butterato dai solchi lasciati dalla grandine. Intere macchie erano prive di farina, impossibile distinguere delle impronte. Anche le pareti erano spruzzate di bianco, cosa che permetteva al mago di mimetizzarsi discretamente… ma non in modo perfetto. Ora che Daren sapeva cosa cercare, riuscì a cogliere la forma immobile del drow.
Un buon tentativo, non c’è che dire, pensò mentre gli si lanciava addosso con due balzi. La sua spada corta sbatté contro la roccia, ma prima sentì che riusciva a tagliare qualcosa, almeno con uno dei suoi due fili. La lama si macchiò di sangue. Aveva colpito il mago. La sua forma invisibile sporcata di bianco cominciò a tingersi anche di rosso, dove il sangue toccava e impregnava la farina. Daren capì che doveva averlo colpito al fianco, ma non abbastanza gravemente. Il mago era riuscito a schivare il colpo, che altrimenti sarebbe stato letale.

Jevan fece un passo indietro, riconsiderando la sua strategia. Aveva scaricato uno dei suoi incantesimi più letali su quel traditore, e non era servito quasi a niente. Se non avesse già sostenuto uno scontro con gli elfi, avrebbe potuto anche fare appello a magie più potenti, ma ormai restavano ben pochi colpi nel suo arsenale.
Era tempo di tentare qualcosa di più sofisticato. I guerrieri possono essere bravi a incassare i colpi o perfino a schivarli, ma sono quasi sempre indifesi davanti alla magia che controlla la mente.

Filvendor non aveva idea di che cosa fosse successo all’esterno della sua bolla protetta. Lo scoprì fin troppo presto, quando il mago dissolse l’incantesimo che lo teneva prigioniero. Adesso era di nuovo visibile, anche se in parte ancora coperto di farina.
L’altro drow era alle sue spalle. Non aveva rinfoderato la spada, ma se ne stava lì fermo come se all’improvviso non fossero più nemici.
“È finita, elfo.” Gli disse il suo carceriere, parlandogli in lingua comune per essere sicuro che capisse tutto. “Arrenditi senza darmi problemi. Dirò a Zeerith che non volevi fuggire, che questo infiltrato aveva cercato di rapirti per i suoi scopi. Non ci saranno conseguenze per te, ma solo se ti arrendi ora.”
Filvendor non sapeva cosa pensare. Ovviamente non si fidava delle sue promesse, non più, dopo il suo ultimo inganno. Però il mago sembrava... nervoso. Aveva praticamente ammesso che il guerriero drow non era uno dei loro. Perché? Sarebbe stato così facile distruggere ogni speranza dell’elfo. Se gli avesse lasciato credere che Daren era davvero un impostore, e che questa fuga era stata solo un altro inganno, Filvendor avrebbe perso ogni fiducia ed ogni speranza. Invece il mago stava… patteggiando?
“Se invece facessi resistenza?” Domandò lentamente, sfoderando i due pugnali che Daren gli aveva dato.
Jevan sospirò, un suono carico di irritazione. Era il sentimento più genuino che l’elfo gli avesse mai visto esprimere.

È sempre del tutto inutile essere gentile con te, vero, maledetto darthiiri? Non capisci mai quando devi fermarti. Benissimo allora. Ti fermerò io.
Jevan non perse tempo in minacce. Iniziò a muovere le mani fino a formare complicati arabeschi, sciorinando una formula in una lingua sconosciuta.
Filvendor si rese conto che il drow stava per lanciare un incantesimo e si gettò alla carica, ma l’altro terminò la sua formula un attimo prima che riuscisse a raggiungerlo. Il ranger perse il controllo sul proprio corpo, restando istantaneamente paralizzato. Lo slancio della corsa lo fece sbilanciare e cadere in avanti. Uno dei pugnali sbatté contro la roccia e scivolò via dalla sua presa.
Adesso non hai più nessuna scelta. È forse meglio?” Lo punzecchiò il drow. “Non so più cosa dirò a Zeerith. Immagino che dipenderà da te. Da quanto sarai disposto ad essere servile con me.”

Daren decise che aveva sentito abbastanza.
Quando il mago gli aveva imposto un incantesimo di dominazione mentale, aveva finto di esserne soggiogato. Non era un incantesimo di controllo diretto, il mago non aveva modo di leggere i suoi pensieri o di sapere se Daren fosse effettivamente al suo servizio; poteva solo dargli un ordine, un singolo ordine, e poi doveva basarsi sul comportamento della sua vittima per sapere se l’incantesimo avesse funzionato.
Daren glie l’aveva lasciato credere. Il comando era piuttosto semplice: proteggimi. Quindi, in assenza di minacce dirette, il guerriero aveva chinato il capo e si era messo accanto al suo nuovo protetto. Proprio come una brava guardia del corpo.
Il suo sguardo vacuo era sempre stato molto convincente, si era esercitato per anni a fingere di essere sotto dominazione mentale. Un espediente che si era rivelato molto utile con le sacerdotesse, ai tempi della sua gioventù. Aveva messo in piedi quell’inganno per un unico motivo: voleva vedere cosa avrebbe fatto il mago. Voleva vedere come si sarebbe comportato con Filvendor.
Ora l’aveva visto.
Forse l’elfo aveva ragione, forse era meno crudele degli altri, ma i decenni passati a vivere in Superficie avevano modificato il punto di vista di Daren, avevano elevato la soglia di ciò che considerava moralmente accettabile. E quel tipo di ricatto non lo era. Non più.

Nella cultura drow, non esiste il concetto di stupro. O meglio, esiste, ma è una possibilità talmente remota da essere inimmaginabile. Quando qualcuno si impone su una persona di rango più elevato, come un maschio su una femmina, allora è stupro. A meno che lei non sia una rinnegata, o la progenie di una razza inferiore. Quando invece una persona - un drow - si impadronisce di una creatura di rango meno elevato, o addirittura priva di rango… allora è solo nel suo diritto. Non è considerato un crimine, non è considerato nemmeno strano. Quello che il mago aveva fatto a Filvendor, quello che si prefiggeva di fargli ancora, era una cosa comune quanto le torture, normale come respirare.
Daren questo lo capiva, perché era un drow. Ma non lo accettava. Perché lui sapeva cosa volesse dire, essere quella creatura priva di rango. Qualsiasi maschio drow lo sapeva, se aveva mai attirato le attenzioni di una femmina.
Perché ogni violenza subita doveva generare desiderio di emulazione? Perché il suo popolo era così incapace di empatia?
Daren non aveva una risposta a questo. Era un guerriero, non un filosofo.
La sua spada si sollevò in perfetto silenzio. Il mago gli dava le spalle. Un errore che tutti commettono una volta sola.

           

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Capitolo 20
*** 1287 DR: Il loro addio ***


1287 DR: Il loro addio


Daren sollevò la spada, prendendosi tempo per studiare l’avversario e colpirlo in un punto vitale. I maghi sono pericolosi, era meglio farla finita con un unico colpo netto.
Qualcosa però intervenne a fermare la sua mano. In quel momento, la sua visione periferica colse l’immagine di qualcosa che si muoveva, nella stessa galleria da cui erano arrivati lui e Filvendor. Anche il mago vide qualcosa e si voltò di scatto. Temendo di essere visto in atteggiamenti sospetti, Daren si mosse velocemente mettendosi fra il mago e le creature che stavano uscendo dal cunicolo: dopotutto si supponeva che avesse il compito di proteggere l'altro drow.
Quello che vide un momento dopo lo fece impallidire, per quanto possibile. I due guerrieri, quelli che aveva ucciso… stavano emergendo dal corridoio.
Ma sono morti. Come…?
Poi si accorse che il loro aspetto era tutt'altro che salubre. Il volto appariva rinsecchito, e anche le magre braccia che si tendevano verso di loro, come se cercassero disperatamente il calore dei viventi.
Daren venne soverchiato da una sensazione di orrore. Non era paura, lui non era più in grado di provare paura. L'aura soprannaturale delle mummie gli stava scatenando ribrezzo, non panico.
Gettò una fugace occhiata al mago. Non sapeva se questi non-morti rappresentassero un pericolo per lui. Avrebbe dovuto saperlo? Se fosse stato davvero sotto dominazione mentale, l'avrebbe saputo per istinto? Questa sgradita sorpresa rischiava di far saltare la sua copertura?
Il mago drow gli venne incontro, togliendogli ogni dubbio: la sua espressione non era meno disgustata di quella di Daren, anzi… sul suo volto passarono brevemente la paura, la sorpresa, l'indignazione. Alla fine rimase soltanto rabbia.
“Zeerith.” Sputò quel nome con disgusto, poi alzò entrambe le mani verso i mostri in avvicinamento. Cinque dardi di energia magica saettarono dai suoi palmi verso la mummia più vicina, colpendola in pieno petto e bruciacchiando un po’ la sua armatura. La mummia barcollò sul posto, ma poco dopo riprese la sua lenta avanzata.
Daren comprese il messaggio implicito. Quei non-morti non erano stati richiamati dal mago, e non erano nemmeno sotto il suo controllo. Sollevato di poter combattere quelle mostruosità, alzò la spada e si preparò alla battaglia.
“Aspetta!” il mago lo fermò prima che potesse fare un passo.
La sua ossuta mano nera afferrò la spalla ferita del guerriero, ma Daren non provò dolore a quel contatto: un’inaspettata energia risanatrice cominció a fluire dal palmo dell'incantatore.
Daren avvertí un leggero formicolio mentre i tessuti che erano stati recisi dalla spada si riallacciavano per restituirgli l'uso del braccio.
Come è possibile? Questo tizio è anche un sacerdote, oltre che mago? Perché i maghi non hanno accesso al potere della guarigione. Daren era perplesso dall'intera vicenda; non era certo di capire i poteri di questo mago e nemmeno le sue motivazioni. Però non poteva perdere tempo a interrogarsi sulla sua fortuna. C'erano due morti da ri-uccidere.

Jevan non era molto sicuro della sua decisione. Guarire il traditore era stato un azzardo, ma d'altro canto il mago non voleva che quelle mummie arrivassero facilmente a lui. Quando il guerriero si lanciò con furia sui due non-morti, mulinando le due spade corte per evitare di essere toccato, Jevan capì di aver fatto la scelta giusta. La tecnica del traditore era ammirevole, riusciva a colpire quei relitti pur restando sulla difensiva. Forse era forte quanto il loro Kismet, sempre che il vecchio combattente fosse ancora vivo.
Non importa, è comunque condizionato dal mio incantesimo. Pensa di dovermi proteggere, e la mia cura temporanea smetterà di avere effetto molto prima dell'incantesimo di suggestione.
Se solo potessi usare questo guerriero anche per uccidere quel bastardo di Zeerith.

Jevan richiamó una scarica di energia per friggere una delle due mummie. Il guerriero non ce l'avrebbe fatta da solo contro due di quei mostri. Chiuso fra due fuochi, era già stato colpito una volta.
Se queste cose sono davvero mummie, come credo… Daren è stato toccato, quindi è già morto. A meno che non abbia una tempra davvero forte. Devo finire queste creature prima che arrivino a me. Lo devo fare… anche per loro. Perché possano andare oltre.
Quel bastardo di Zeerith. Non aveva il diritto di farlo. È il nostro sacerdote, il nostro intermediario con Vhaeraun. Le nostre anime appartengono al nostro dio, non a lui. Ci ha ingannati promettendo magie di protezione, e invece ha vincolato i nostri spiriti a dei corpi morti, assoggettandoci tutti al suo egoismo.
Che Vhaeraun lo maledica. Ha osato derubare un dio. Che possa marcire fra la anime perse dell'Abisso.

Daren stava svolgendo bene il suo lavoro, bloccando i due guerrieri morti sulle loro postazioni. Sembrava determinato a non lasciarli passare. Jevan continuò a muovere le mani per automatismi, pescando nella sua memoria gli incantesimi basilari che gli erano rimasti. Fra un incantesimo e l'altro, trovò il tempo di strapparsi dal polso la “benda di protezione” che Zeerith aveva dato anche a lui. Non prevedeva di morire, ma non voleva tenere addosso l’empia magia di quel traditore.
Appena in tempo.
Jevan forse si era dimenticato dell’elfo prigioniero, ma Filvendor non si era certo dimenticato di lui.

L'elfo dei boschi era caduto a terra sotto l'effetto dell'incantesimo paralizzante, e inizialmente non era riuscito a fare nient'altro che logorarsi per la propria incapacità. Poi, quando pensava che ormai fosse tutto perduto, erano comparsi due nuovi nemici. Filvendor non era mai stato così contento di vedere dei morti che camminano, ma dopotutto questi erano drow. Li preferiva comunque da non-morti che da vivi.
Questo imprevisto gli diede un attimo di respiro e deviò l’attenzione di Jevan da lui. Chissà, forse l’indebolirsi della concentrazione del mago aveva indebolito anche l’incantesimo che imprigionava l’elfo. Filvendor non sapeva nulla di magia arcana, ma aveva bisogno di crederlo. Cercò di concentrare tutte le sue forze per rompere quel legame, e alla fine miracolosamente ci riuscì. Oh, la liberazione di poter di nuovo muovere gli arti! Il suo istinto era quello di rialzarsi subito, ma fermò le sue mani prima che potessero poggiarsi a terra. Non era il momento di farsi scoprire stupidamente.
Con movimenti lenti e molta cautela, sporse una mano per recuperare il pugnale che aveva perso.
Filvendor strinse la presa sull’impugnatura del coltello, assaporando la sensazione di essere di nuovo armato, di nuovo capace di difendersi. Era la cosa che gli era mancata di più. In quei mesi la cosa peggiore non era stata il dolore, o la paura della morte; era stata il sentirsi così indifeso. Così senza speranza.
Aveva dovuto elemosinare ogni minimo gesto di pietà da Jevan, e ora quella cosa doveva finire.
Filvendor fissò gli occhi sulla schiena del mago, dalla sua scomoda posizione sul pavimento. La sua vista all’improvviso si fece sfocata, e l’elfo si rese conto di avere gli occhi velati dalle lacrime. Non ne capiva il motivo… non era triste, né spaventato. Era soverchiato. Emozioni sconosciute gli bloccavano il respiro e lui non sapeva se fossero positive o negative. L’ansia di fallire era la più bruciante di tutte, ma non spiegava le lacrime. Forse perché… il momento era finalmente arrivato e ora il cambiamento lo spaventava. Forse in realtà non voleva uccidere Jevan, ma sapeva di doverlo fare.
Se fosse stato uno qualsiasi degli altri, non avrebbe esitato. Jevan però era quello che gli aveva dato speranza. Poi l’aveva infranta, ma comunque Filvendor sapeva che sarebbe impazzito molto prima se non fosse stato per il mago. Se non fosse stato per i suoi sporadici atti di clemenza, che gli comunicavano “tu sei un essere senziente e io lo so”.
Era per questo che doveva ucciderlo. Se voleva lasciare quel luogo, doveva recidere tutti i legami, anche mentali. Non voleva ripensare a lui, mai più. Ora doveva uscire e rifarsi una vita. Non voleva nemmeno ritrovarsi fra cinque anni a sfiorare il pensiero di come sarebbe potuta andare, se… se Jevan non fosse stato un bugiardo, o forse un codardo, o soprattutto un drow.
Doveva ucciderlo, e uccidere quella parte di sé che non voleva chiudere con lui.
Strinse entrambi i pugnali come se fossero la fune che lo teneva sospeso su un precipizio. Il momento era arrivato, era normale avere paura del cambiamento, ma lui doveva trovare la forza di andare oltre.
Il mio nome è Filvendor. Sono un figlio del clan Gysseghymn. Io sono un guerriero. Io non ho paura di vivere.
Si alzò di scatto, mentre il mago era concentrato sulle parole di un nuovo incantesimo. Dalle sue labbra nere uscì soltanto un gorgoglio insanguinato.

Daren era grato al mago per i suoi incantesimi, perché le spade non sembravano avere grande effetto su quei non-morti. Alla fine sarebbero caduti, sì, come cadono tutte le creature che hanno un corpo fisico da trafiggere… ma ci stava volendo più del solito.
Un’ultima sequela di dardi incantati polverizzò un braccio a una delle due mummie, e quella ruggì per la furia. Daren non se ne curò. Trapassò il cranio del mostro con una delle sue spade, poi lasciò la presa sull’impugnatura per sbilanciarsi nella direzione opposta e tagliare la testa al secondo cadavere.
Recuperò in fretta le sue armi e si voltò; doveva decidere cosa fare con Jevan. Ovviamente era necessario ucciderlo, perché non poteva lasciarlo tornare alla sua città seguaci di Vhaeraun e riferire che gli elfi avevano un alleato drow. Daren aveva una mezza idea di indagare la cosa; se i drow fossero stati informati su di lui, sarebbe stato impossibile farlo.
Inoltre, be’, Jevan era un nemico. Nonostante avessero fatto fronte comune contro le mummie, nonostante il misterioso motivo che l’aveva spinto a volerle distruggere anziché sfruttarle, restava un nemico.
Però in tutta onestà Daren non era molto felice all’idea di doverlo uccidere a sangue freddo. Il mago era un bastardo, ma era figlio della sua cultura, e non era peggiore di molti altri. Forse l’avrebbe affrontato apertamente, lasciandogli la possibilità di difendersi. Sarebbe stato più giusto. Meno… a sangue freddo. Gli avrebbe dato una scusa per fare quello che doveva fare comunque.
Era un desiderio ipocrita e lo sapeva, ma nessuno è perfetto.
Quindi, si voltò verso il mago, ancora con le armi in pugno. E provò un sollievo ancora più ipocrita quando vide che Filvendor si stava già occupando del problema.

Filvendor aveva dimenticato che l’altro drow probabilmente era sotto controllo mentale. Non aveva pensato che potesse intervenire in difesa di Jevan.
Daren alla fine intervenne, con un discreto colpo di tosse.
“Filvendor… ehi… Filvendor. Penso che sia morto.” Gli fece notare, dopo una dozzina di coltellate. “Mi spiace interrompere il tuo… momento?... ma ora devi tornare in te. Non sappiamo dove siano gli altri elfi e nemmeno se ci siano ancora dei nemici.”
“Oh, uno c’è.” Intervenne una voce maligna, parlando in lingua drow. Una voce carica di rabbia, disprezzo e anche una punta di divertimento.

Zeerith sfoggiava un sorrisetto che forse era una paralisi da stress. Il suo sguardo era quello di un pazzo, quello di qualcuno che non ha niente da perdere.
Daren però non lo sapeva. Imprecò, sfoderando in fretta la spada bastarda, la sua migliore alleata contro un nemico di quel calibro. E intanto si chiese come mai Zeerith fosse solo. Gli altri drow stavano combattendo contro gli elfi? Erano così certi di vincere che il sacerdote li aveva lasciati senza supporti magici? Oppure i suoi alleati erano stati presi prigionieri?
Alle sue spalle, in lontananza, rimbombò il suono di qualcosa di enorme che picchiava contro la roccia. Zeerith ignorò quella distrazione e puntò un dito contro il drow traditore, ululando le parole blasfeme di un incantesimo di morte.

           

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Capitolo 21
*** 1287 DR: L'Inganno ***


1287 DR: L'Inganno


Solaias e Merildil si prodigarono in cure magiche fino a dare fondo a tutti i loro incantesimi impregnati di energia positiva, come il malvagio Zeerith aveva previsto. Raerlan si unì a loro, dimostrando un’inaspettata competenza nelle arti della guarigione. Non aveva a disposizione incantesimi eccezionali, ma fu in grado di dare il suo contributo.
“Dove hai imparato l’arte della guarigione?” Gli domandò Solaias, genuinamente curioso.
Raerlan stava per rispondergli nel solito modo vago e superficiale, ma qualcos’altro catturò improvvisamente l’attenzione generale. Wilhik fu il primo ad accorgersene e ad avvertire tutti con un grido.
I sei cadaveri drow si rialzarono lentamente, sotto gli sguardi terrorizzati degli elfi.
Raerlan sospirò fra i denti, al colmo della frustrazione. Perché uccidere i nemici una volta non era mai sufficiente?

I drow erano rimasti laddove erano caduti, ma da allora gli elfi si erano spostati in direzione della nuova parete di roccia. L’incantatore che secondo Raerlan era il loro capo era fuggito e aveva creato quell’ostacolo, per non essere seguito. Ora gli elfi stavano iniziando a comprendere che quella parete non serviva solo a non farsi inseguire, ma anche a bloccarli lì in quella grotta con i non-morti.
“C-Credo che siano mummie.” Li avvertì lo gnomo, portandosi nelle retrovie.
Solaias non aveva molta esperienza in fatto di mummie, ne aveva solo letto sui libri, ma concordò con quella valutazione. Le abominevoli creature incutevano terrore solo a guardarle, e quel terrore aveva qualcosa di innaturale, non era soltanto l’ovvia avversione che qualsiasi vivente avrebbe per un non-morto.
I ranger di Sarenestar però erano guerrieri ben addestrati, profondamente consapevoli che la loro sopravvivenza era appesa a un filo, e non potevano permettersi di avere paura. L’unica a cedere al panico fu Pilindiel, ma la povera ragazza aveva subito lo shock di una mutilazione solo pochi minuti prima; anche senza che i drow si rialzassero dalla morte, la sua sanità mentale stava già vacillando sull’orlo di una crisi di nervi. Adesso, davanti a quella scena carica di orrore, la guerriera perse il controllo sul suo corpo e non riuscì a fare altro che ritirarsi contro la parete artificiale, tremando come una foglia.
Per fortuna le mummie erano lente e impacciate, mentre gli elfi erano ancora in grado di reagire con prontezza. Una pioggia di frecce e colpi di spada accolse l’avanzata di quei mostri non-morti, ma divenne subito ovvio che le armi facevano fatica a scalfire la carne dura e coriacea.
Gli incantesimi di Merildil e Wilhik si rivelarono un po’ più utili. Lui invocò il potere del fuoco e scaricò una fiammata dalle mani, investendo in pieno un nemico che si stava avvicinando troppo. Merildil si inginocchiò a terra e toccò il pavimento di roccia, facendo appello al suo controllo sugli elementi per plasmarla secondo il suo volere. La pietra sotto i piedi delle mummie ondeggiò per un istante, poi dieci sottili stalagmiti si innalzarono dal terreno, formando una gabbia intorno a uno di quei mostri.
Nel frattempo, Raerlan pronunciò una breve frase in terran, la lingua degli elementali della terra, comandando al suo alleato elementale di attaccare. L’incantesimo che aveva usato per evocarlo era molto potente e quindi era ancora attivo, forse per pochi secondi, ma quel gruppetto di eroi aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. Il gigantesco umanoide di pietra emerse in parte dalla parete della grotta, sfondando due mummie con i suoi due pugni colossali. Il colpo fece tremare tutta la caverna, per un istante le stalattiti vibrarono in modo preoccupante. Quando risollevò le mani per guardare cosa ne fosse stato dei nemici, le due mummie si rialzarono con caparbietà. Avevano chiaramente molte ossa rotte, ma ormai erano incapaci di sentire dolore. Avevano un solo obiettivo: raggiungere le loro compagne che già stavano impegnando i guerrieri corpo a corpo.
Pilindiel venne colpita dall’artigliata di una mummia, ma la ferita non sembrò riscuoterla dal suo stato di inutile panico. Nelaeryn si accorse del pericolo che l’amica stava correndo, e rinunciò ad un facile attacco per fare invece una pericolosa manovra che lo portò a trovarsi accanto a lei. Forse sarebbe morto, ma traeva un po’ di conforto dal pensiero che sarebbe morto facendo la cosa giusta. Ora avrebbe dovuto fronteggiare due mostri anziché uno solo, e uno riuscì a colpirlo facendo leva su questo vantaggio tattico.
Raerlan non era rimasto con le mani in mano; sapendo che le mummie sono portatrici di una tremenda malattia magica, aveva usato un semplice incantesimo di divinazione per individuare il contagio prima che potessero manifestarsi i sintomi. Grazie a questo incantesimo vide che Nelaeryn era stato appena contaminato, e anche il coraggioso Tazandil. Johel e Pilindiel, nonostante fossero stati colpiti a loro volta, avevano resistito e rigettato il contagio. L’alicorn sapeva di dover trattare quella malattia come una maledizione, non come un morbo naturale. Nelaeryn era il più vicino, quindi si fece strada fino ad arrivare accanto a lui e lo toccò sulla spalla, infondendogli la sua magia di protezione. Il potere di divinazione era ancora attivo nei suoi occhi e gli rivelò che era riuscito nel suo intento, l’incantesimo di Rimuovi Maledizione aveva soffocato sul nascere la terribile Putrefazione della Mummia. Nelaeryn non sapeva cosa aveva rischiato, ma lo ringraziò con un cenno del capo per qualunque cosa avesse fatto.
Non molto lontano da loro, il sacerdote Solaias frugò sotto le vesti ed estrasse il suo simbolo sacro con orgoglio e convinzione. Attraverso quel simbolo, sapeva di poter incanalare la forza della sua fede, ma solo se la sua fiducia in Corellon fosse stata sincera e perfetta. Solaias pregò con tutto il suo animo, sapeva che il suo dio non l’avrebbe abbandonato. Il medaglione brillò per un attimo di luce celestiale, e le due mummie più vicine a lui si ritrassero gridando. Fu l’esitazione di un attimo, poi si voltarono nella direzione opposta e corsero via al massimo della loro velocità, risalendo verso il condotto da cui gli elfi erano arrivati.
La Superficie! La nostra foresta! Pensò Solaias in un momento di panico. Ma non aveva tempo di pensarci adesso; la Superficie era lontana molte ore di cammino, e forse le mummie non erano nemmeno abbastanza intelligenti da orientarsi in quei cunicoli. I suoi amici invece avevano bisogno di lui, subito.
Johel e Tazandil continuarono a combattere come furie, coprendosi le spalle l’un l’altro. Nessuno dei due voleva che all’altro succedesse qualcosa. Il combattimento li aveva portati vicino a Merildil e si erano posizionati davanti alla druida per farle scudo, in modo che le mummie non arrivassero direttamente a lei. Un non-morto stava per gettarsi su Tazandil con il chiaro intento di morderlo, ma il gigantesco monolito elementale lo afferrò a mezz’aria e lo stritolò in una mano possente. Con l’altra, gettò di lato un’altra mummia con un forte schiaffone, mandandola a sbattere contro una parete. Per un momento la mummia giacque a terra come un sacco pieno di ossa, ma poi ricominciò a strisciare verso gli elfi, con testardaggine.
Una seconda preghiera del sacerdote richiamò nuovamente il potere di Corellon Larethian, incutendo il sacro timore anche nelle ultime due mummie. La prima abbandonò ogni velleità di attaccare Johel e scappò nella stessa direzione delle altre. La seconda, quella che si trascinava a terra, invertì la direzione e strisciò via alla massima velocità che le ossa rotte le consentivano.
Restava una sola mummia davanti a loro, quella intrappolata nella “gabbia” creata da Merildil. La cosa si agitava in modo spasmodico, cercando di forzare quelle sbarre di pietra o di arrampicarsi, ma senza successo. Qualche semplice magia di fuoco pose fine per sempre alla sua esistenza.

“Non riesco a credere che ce l’abbiamo fatta.” Sospirò Johel, quando le urla della mummia si spensero e tornò la calma.
“Non ce l’abbiamo ancora fatta.” Lo corresse Raerlan, mentre dava fondo alle sue capacità per estirpare la maledizione della mummia dal fisico di Tazandil. “Solo due mummie sono state distrutte, quattro sono state scacciate, e sebbene siamo tutti debitori verso il nostro chierico… potrebbero ancora tornare. Inoltre questa caverna si è riempita di fumo e presto finiremo l’aria respirabile. Dobbiamo trovare il modo di proseguire.”
Lo disse senza staccare il contatto visivo con gli occhi di Johel, ma nel suo sguardo c’era solo determinazione. Raerlan capì che non era lui, quello da convincere. L’alicorn non era altrettanto sicuro degli altri. Gli incantatori avevano quasi esaurito le risorse magiche, Nelaeryn e Pilindiel stavano discutendo a bassa voce in un angolo e sembrava che fossero in disaccordo su qualcosa. Tazandil… era un’incognita. Avrebbe dato la precedenza alla missione? Oppure alla sicurezza dei suoi?
“Ormai siamo arrivati fin qui e abbiamo ucciso quasi tutti i drow.” Il capo della spedizione prese la parola. “Alcuni di essi, addirittura due volte. I nostri dèi saranno molto soddisfatti di noi, ma non abbiamo ancora salvato il prigioniero.” Tazandil lasciò correre il suo sguardo di pietra su tutti i presenti, come per sfidarli a tirarsi indietro.
Fu Pilindiel a prendere la parola per prima.
“Mi vergogno della paura che mi ha paralizzata alla vista di quei non-morti. È stata una mancanza, indegna di me. Voglio fare ammenda. Voglio uccidere i drow che sono rimasti e liberare il nostro cugino del clan Gysseghymn. Un tempo era il mio clan.”
Nelaeryn le rivolse uno sguardo scuro e Raerlan comprese che era lui a volere che si ritirassero, non lei. Ma da quello sguardo capì anche che l’avrebbe seguita.
Merildil si avvicinò all’ostacolo che bloccava loro la strada. Appoggiò la mano sulla roccia, e cercò al tatto il punto in cui quel liscio muro di pietra si trasformava nella parete frastagliata e naturale della grotta.
“Questo è il mio ultimo incantesimo di controllo sulla roccia. Se dovessero rinchiuderci in una prigione come questa, non potrei scavare un passaggio per uscire.” Avvertì tutti, come per chiedere conferma.
Tazandil non esitò un istante. Annuì, avallando la sua scelta.
Merildil recitò un canto druidico e la roccia si aprì davanti a lei come se fosse stata materia fluida e senziente. Un breve corridoio, largo a malapena per far passare un elfo girato sul fianco, aprì la strada girando intorno al muro di pietra artificiale e al muro di Forza che gli stava dietro.


Altrove, quasi nello stesso momento

Zeerith era stanco di sprecare incantesimi. I suoi malefici migliori erano già stati spesi nella battaglia contro gli elfi, e molti di essi non erano riusciti a penetrare le difese dello sciamano alicorn.
Daren era un drow quindi era benedetto da una simile resistenza alla magia, questo Zeerith lo sapeva bene. Aveva deciso di tentare comunque, ma il guerriero traditore si era scrollato di dosso i suoi incantesimi senza esserne affetto, proprio come il chierico temeva. Era il momento di sfoderare armi più barbare. Una spada è una spada, dopotutto, e il filo di un'arma di adamantio si fa beffe di qualunque resistenza innata.

Filvendor restò in un angolo, in disparte rispetto al furioso combattimento dei due drow. Il povero elfo si rigiró i pugnali nelle mani, incerto. Avrebbe voluto contribuire. Avrebbe voluto uccidere il sacerdote drow, che sospettava essere il loro capo. Quante volte quel crudele mostro lo aveva interrogato e torturato? Ma Filvendor ne aveva paura. Zeerith era quello che gli incuteva più paura di tutti, e adesso si stava rendendo conto che il suo terrore era pienamente giustificato. Il chierico era molto bravo con la spada, quasi quanto lo era con i suoi incantesimi corrotti. L'altro drow, quello che quasi sicuramente era venuto a liberarlo, stava riuscendo a tenergli testa. Un'impresa che a Filvendor sembrava incredibile. I due elfi scuri erano ben al di sopra della sua portata, adesso se ne rendeva conto, e se uno dei due avesse preteso di prenderlo prigioniero c'era ben poco che il ranger avrebbe potuto fare. Questa consapevolezza gli faceva digrignare i denti per la frustrazione e la rabbia. Gli faceva desiderare di diventare il miglior guerriero del mondo per essere in grado di distruggere chiunque minacciasse la sua libertà. No… era di più. Voleva essere il migliore in modo che non fosse possibile, per nessuno, prenderlo prigioniero o sottometterlo ancora. Non importa quali fossero le vere intenzioni di... di chiunque avrebbe incontrato da quel momento in poi. Nessuno sarebbe più stato in grado di sconfiggerlo. Avrebbe trattato ogni estraneo come un potenziale nemico e…
Filvendor scosse la testa, rendendosi conto di dove il flusso dei suoi pensieri lo stesse conducendo. Quella non era vita. Non per un elfo. Cercare la perfezione in modo maniacale solo per paura, difendersi anche da ciò che non era un pericolo, non era vita per un elfo.
Ma forse lo era per un drow. Quella realizzazione lo colpì all'improvviso come una scarica elettrica. Forse questo era il motivo per cui quei due erano così bravi ad uccidere, e seguendo il loro esempio per paura sarebbe diventato qualcosa di simile ad un drow. Filvendor scosse la testa, di nuovo. C'era un tempo in cui la sua vita aveva un senso. Aveva avuto qualcos'altro, prima del dolore e della paura. Una famiglia, un clan, la vera felicità e completezza. All'epoca si era addestrato come ranger perché voleva proteggere il suo clan, ma non era mai stato un fanatico della perfezione.
Ora rammentava quell'equilibrio dell'anima come un qualcosa di lontano, perduto, un tiepido e malinconico ricordo.
Filvendor si rannicchiò contro la parete di roccia della grotta, per tenersi lontano il più possibile dallo scontro. Non era più tanto sicuro di voler partecipare. Traeva un po’ di conforto dall'aver ucciso almeno il mago; Daren non avrebbe potuto affrontare entrambi contemporaneamente. Nessun guerriero potrebbe.
In quel momento, il mago emise un rantolo.
Filvendor udì quel rumore raccapricciante in un momento di pausa nel cozzare metallico delle armi. Un brivido gelido gli corse lungo la schiena. Il mago drow era sdraiato supino, e una grossa macchia di sangue si era allargata sotto il suo corpo. Il suo torace era martoriato dai solchi dei pugnali, eppure… si alzava e si abbassava ancora.
Non è un non-morto. Filvendor si costrinse a ragionare lucidamente. Altrimenti non dovrebbe respirare. Ma come può essere ancora vivo?
Di nuovo quel rantolo gorgogliante. L'elfo capì che Jevan stava cercando di respirare, ma i suoi polmoni erano pieni di sangue. Al collo portava un amuleto d'argento con una pietra nera, e quella pietra stava emettendo dei tiepidi impulsi di luce.
Forse è quell'oggetto che lo tiene in vita, nonostante le ferite. Ma potrà salvarlo anche dal soffocare nel suo sangue?
Filvendor si fece forza e si chinò sul corpo del mago. Non gli piaceva guardarlo, non era fiero dello scempio che aveva fatto, ma di certo non era pentito. Il mago non doveva e non poteva vivere. Il ranger chiuse le dita intorno al piccolo amuleto magico, avvertendo sulla pelle il pizzicore del dweomer in azione. Nonostante fosse ancora vivo, il drow non sembrava cosciente.
Se questo talismano può curarlo, devo sottrarglielo. Decise Filvendor. Se invece non può impedirgli di soffocare... forse il mago merita una morte più rapida.
In ogni caso sembrava che restasse una sola cosa da fare. L'elfo dei boschi mise una mano sotto la testa di Jevan, sollevandola quel tanto che bastava perché il ciondolo potesse essere sfilato. Una parte della sua mente realizzò che era questo il momento in cui lo stava uccidendo, non le coltellate. Sollevare il capo del drow svenuto e sottrargli una catenina sembrava un gesto così innocuo, quasi gentile, eppure era una condanna a morte. Ironico, si rese conto. Ironico e molto coerente.

Nel momento in cui Filvendor sfilò il talismano dal collo di Jevan, accaddero due cose: il mago morì sul colpo, e il suo incantesimo su Daren si estinse insieme a lui.

Il chierico portò un affondo dritto sotto il mento di Daren, aspettandosi una parata. Era solo una manovra di disturbo, per portare la grande spada del nemico in una posizione da cui gli fosse scomodo attaccare. Quella doveva essere la prima di molte mosse per costringere il traditore a stare in difensiva.
Invece accadde qualcosa di inaspettato: il guerriero perse la forza nel braccio destro, mentre una terribile ferita sotto la spalla si riapriva come uno squarcio, con uno spruzzo di sangue. Era come se un avversario invisibile l'avesse colpito, ma Zeerith sapeva che non c'era nessun altro con loro.
Daren perse la presa della mano destra sull'elsa della bastarda, il dolore improvviso lo distrasse dal combattimento e il braccio sinistro da solo non riuscì a sollevare la parata abbastanza velocemente.
La spada del sacerdote gli trapassó la gola, senza incontrare resistenza.

In quell'istante, Raerlan e Tazandil sbucarono per primi dall'imboccatura della galleria, in tempo per assistere alla morte istantanea del loro amico. Raerlan di lasciò sfuggire un urlo di orrore, che suonó più sincero di tutte le sue parole artefatte dalla magia.
Allertato da quel grido, Zeerith ritrasse la spada, lasciando che l'inutile cadavere del traditore cadesse a terra. Si ritrasse in un angolo della grotta, il punto più difendibile che riuscì a trovare, e si preparò a combattere contro questi due superstiti.

           

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Capitolo 22
*** 1287 DR: La loro giustizia ***


1287 DR: La loro giustizia


Raerlan si gettò in avanti, ignorando il sacerdote drow, la carica di Tazandil e la possibilità di essere colpito da qualche incantesimo. Non gli importava.
Aveva orchestrato quella missione coinvolgendo i suoi amici, e ora uno di questi amici era morto. Una parte di lui era sempre stata consapevole dei pericoli, ma Raerlan non era tipo da accettare le sconfitte e le perdite. Non questa perdita. Non così, prima del tempo.
Raggiunse il corpo di Daren con poche falcate, la sua vista soprannaturale già scandagliava l’area in cerca di ciò che era invisibile agli occhi dei profani: uno spirito.
Ce n’era più di uno. Troppi morti in quegli ultimi minuti, la caverna risuonava dei loro tenui lamenti. I tre spiriti erano drow, ma Raerlan non riconobbe il suo amico.
L’anima di Daren iniziò in quel momento a staccarsi dal suo cadavere. L’alicorn gli fu addosso in un attimo.
“Oh, no che non lo fai! Non vai da nessuna parte!”
Poggiò una mano sul torace incorporeo e premette per spingerlo verso il basso, di nuovo nel suo corpo. Rientrava fra i suoi poteri, come sciamano, poter toccare fisicamente le creature intangibili. Lo spirito era troppo sorpreso e confuso per fare resistenza, e Raerlan riuscì a farlo tornare al suo posto. Un flusso di magia di guarigione sigillò la riunificazione di corpo e anima, curando la ferita mortale sul collo del drow.
Raerlan mantenne la mano sul petto del suo amico finché non sentì, anche attraverso lo strato dell’armatura leggera, che il cuore aveva ripreso a battere e i polmoni reclamavano di nuovo aria. Daren non aveva ancora ripreso conoscenza, ma Raerlan aveva terminato i suoi incantesimi di guarigione. Purtroppo avrebbero dovuto fare a meno di lui, per un po’.
Lo sciamano si rialzò in piedi, con il cuore che ancora galoppava per l’adrenalina. Si accorse che gli spiriti dei drow morti di recente non si erano mossi dalle loro posizioni. Adesso decise di prendersi un momento per guardarli meglio, potevano rappresentare un pericolo?
Due erano vestiti da guerrieri, in piedi laddove i loro corpi non-morti erano caduti. Le mummie talvolta si disgregano in polvere quando vengono distrutte, ma i loro cadaveri erano troppo recenti perché questo accadesse. Entrambi guardavano con odio lo scontro fra Tazandil e il sacerdote, ignorando completamente Raerlan. Il terzo drow indossava le vesti fluenti di un mago. Il drow defunto lo guardò con occhi vacui, e con tutta calma gli indicò a gesti i suoi due compagni morti e poi un elfo rannicchiato in un angolo - un elfo ancora vivo, si rese conto Raerlan. Poi gli voltò le spalle e si addentrò nei tunnel, sparendo nell’oscurità. In qualche modo, l’alicorn sapeva che quell’anima era passata oltre, verso l’Aldilà promesso dal suo dio o dalla sua dea. Ma cosa aveva cercato di dirgli? Cosa potevano avere in comune due drow morti ed un elfo vivo?

In un primo momento, Zeerith si era sentito sollevato che solo il guerriero elfo avesse deciso di attaccarlo, mentre il pericoloso sciamano sembrava troppo sconvolto dalla perdita del suo alleato per combattere. Quell’elfo però era maledettamente abile. Era sicuramente il capo dei guerrieri, e quindi doveva essere anche più capace della loro spia drow, perché nessuno avrebbe affidato una missione così delicata ad un alleato su cui non aveva controllo. Con questa consapevolezza in mente, Zeerith affrontò quel nuovo combattimento con prudenza, pensando che se avesse giocato bene le sue carte avrebbe potuto uccidere questo elfo e sopravvivere. All’inizio il suo piano era stato quello di ritornare alla sua comunità ai piedi dei monti. Però ormai la missione della ricerca di Allsihwann era fallita, e per di più il loro intero gruppo era stato devastato. Come se non bastasse, avevano rivelato agli elfi la loro presenza, e questo poteva essere ancora più pericoloso per i tre piccoli villaggi dei profughi vhaerauniti. Con la città di Guallidurth nel sottosuolo, ricettacolo delle più fanatiche sacerdotesse di Lolth, e ora gli elfi della foresta di Mir che erano a conoscenza della loro esistenza, si poteva ben dire che quei pochi drow che seguivano le vie del Signore dell’Ombra sarebbero stati chiusi fra due fuochi.
Forse tornare a Dallnothax, la sua cittadina sotterranea, non era più un’opzione. Non per portare notizie così catastrofiche. Zeerith era un fedele seguace di Vhaeraun, o almeno si riteneva tale, ma il concetto di lealtà gli era del tutto estraneo.
Parò un altro fendente del micidiale guerriero elfo, pianificando il suo contrattacco. Prendendosi il suo tempo, Zeerith era convinto di farcela. Era un drow, quindi maestro negli inganni. Prima che potesse cominciare la sua sequela di affondi e finte, però, un altro gruppo di elfi si riversò nella piccola caverna.
Ma come, sono tutti vivi? Come sono sfuggiti alle mie mummie? Zeerith vide la sua accurata pianificazione infrangersi a terra insieme ai suoi sogni di grandezza. Quel misero gruppetto aveva distrutto sei mummie?
Il sacerdote capì che era il momento di anticipare la fuga.
Avrebbe potuto fuggire anche prima, quando si trovavano nella caverna della battaglia; da lì, molte vie si dipanavano verso il Buio Profondo, e perfino verso la Superficie. Però aveva scelto di tornare nel complesso principale del loro accampamento, per recuperare alcuni oggetti di valore prima di scappare. La vita del reietto poteva essere ardua, senza un buon bagaglio di magia e di risorse economiche. Zeerith sfiorò il suo anello del teletrasporto e scomparve in un istante. Il colpo di spada di Tazandil, che altrimenti gli avrebbe trapassato il cuore, sbattè contro la parete di roccia strappando uno zampillo di scintille.

Zeerith si ritrovò nella relativa sicurezza della sua stanza, appena a poche centinaia di metri dalle lame mortali degli elfi. Raccattò in tutta fretta quello che poteva servirgli per darsi alla macchia: oggetti magici, gemme, abiti di scorta. Ficcò tutto nel suo vecchio zaino magico da viaggio e raccolse, come ultima cosa, una manciata di mappe del sottosuolo.
Erano carte imprecise, vecchie di secoli, risalenti a quando i drow abitavano stabilmente sotto la foresta di Mir o perfino sulla Superficie, prima che gli elfi li scacciassero. L’intero sottosuolo di quella regione era attraversato da una rete di gallerie, in parte naturali e in parte scavate dagli stessi elfi scuri, che collegavano la zona alle grandi caverne delle montagne e agli strati superiori del Buio Profondo.
Il problema era che, nel sottosuolo, la magia di teletrasporto aveva grandi limiti. Zeerith aveva già usato il suo anello magico tre volte, gli rimanevano solo due utilizzi per quel giorno e ciascun “salto” non poteva portarlo più lontano di un miglio. Inoltre era sempre meglio conoscere già la propria destinazione, altrimenti avrebbe rischiato di ritrovarsi in luoghi sconosciuti, disperso nel pericolosissimo Buio Profondo.
A malincuore, il sacerdote drow decise di tornare nella grotta dove avevano teso l’imboscata agli elfi; quello era un ampio crocevia da cui partivano molte strade, e Zeerith non stava riuscendo ad orientarsi con le sole mappe. Era un drow di fede, non un esploratore.
Indossò i suoi stivali da viaggio più comodi, un piwafwi nero come le ombre per mimetizzarsi nelle gallerie, e si mise in marcia. Voleva evitare di incappare di nuovo negli elfi, sì, ma non era disposto a sprecare un altro teletrasporto per arrivare a quella caverna. Ci sarebbe arrivato a piedi, usando cunicoli stretti e segreti che i suoi nemici non conoscevano. Avrebbe impiegato un po’ più di tempo, ma ormai non aveva importanza.

Nel frattempo, il gruppetto dei valorosi eroi di Sarenestar si era finalmente riunito, e stavano facendo la conta dei morti e dei feriti.
Merildil aveva un livido che si stava gonfiando su un sopracciglio ostruendole la visuale dall’occhio sinistro, Johel era stato morso da una mummia ma non sembrava che la ferita fosse infetta, e Pilindiel aveva perso una mano durante le prime fasi del combattimento. A parte questo, miracolosamente, erano tutti interi. Solaias si era avvicinato al povero Filvendor per prestargli il primo soccorso, e il ranger sconvolto l’aveva praticamente abbracciato, mormorando frasi spezzate di ringraziamento. Ma almeno fisicamente stava bene. Stavano tutti abbastanza bene.
A parte Daren, naturalmente, che era ancora svenuto a terra con una spalla gravemente ferita e un taglio sul collo a malapena rimarginato.
“Questo imbecille è ancora vivo?” Domandò Johel avvicinandosi all’amico. Il suo tono voleva essere sprezzante, ma una nota nella sua voce tradiva la sua preoccupazione.
“Sì.” Gli confermò Raerlan. “L’ho guarito prima che potesse esalare l’ultimo respiro, ma è ancora in condizioni precarie e abbiamo tutti esaurito la magia di guarigione.”
“Posso fare qualcosa.” S’intromise la druida. “Non ho più incantesimi di cura, ma possiamo bendare le sue ferite in modo che non si riaprano, e poi posso infondergli un po' di energia che lo risvegli e gli dia la carica, anche se sarà una misura temporanea.”
“Non funzionerebbe.” La fermò Johel. “Ho capito cosa intendi fare, ma Daren indossa già un oggetto magico che replica lo stesso effetto. Ho imparato che due incantesimi identici creano un effetto ridondante, e quindi inutile.”
Merildil si tirò indietro, con espressione dispiaciuta. “Hai ragione, è così. Ma allora non possiamo aiutarlo, tranne curando le ferite con metodi mondani. Forse ho un po’ di unguento che velocizzerà il processo di guarigione, ma parliamo comunque di ore… e ti confesso che non mi piace la prospettiva di rimanere qui per ore, con quattro mummie ancora in giro da qualche parte, e un chierico crudele che potrebbe pregare per avere nuovi incantesimi, o recuperare delle pergamene, ed esserci addosso prima che riusciamo a raggiungere la Superficie.”
Johel stava per dirle che capiva il suo punto di vista e che avrebbero dovuto chiedere a Tazandil di prendere una decisione, ma il suo discorso venne interrotto sul nascere quando una mano gli si posò su un piede. Abbassò lo sguardo, incredulo; era stato Daren. Il suo amico a quanto pare era cosciente, anche se aveva gli occhi socchiusi. Sembrava che solo muovere il braccio gli fosse costato un’immensa fatica, perché esitò qualche secondo prima di muoversi ancora. Sollevò di poco la mano sinistra, l’unica su cui aveva controllo, e piegò le dita in un gesto che era chiaramente intenzionale.
Johel lo guardò senza capire. Daren deglutì a vuoto e ripetè il gesto, e l’elfo capì che l’amico non riusciva a parlare. Il ranger sapeva che i drow avevano un linguaggio gestuale, ma non si era mai curato di impararlo, e ora rimpiangeva la sua pigrizia. Daren stava ripetendo il gesto, come se fosse molto importante, o come se non riuscisse ad articolare nient’altro.
“Sta dicendo di andare via.” Intervenne una voce timida e tremante.
Gli elfi si girarono all’unisono verso la fonte di quella voce. Era Filvendor. Si allontanò dal chierico per fare qualche passo verso di loro, tenendo gli occhi bassi per abitudine.
“Io… non ne sono sicuro, ma quando uno dei capi faceva questo gesto, gli altri si inchinavano e andavano via.”
Oppure lo dici solo perché vuoi uscire. Si disse Johel, ma una parte di sé temeva che l’ex prigioniero avesse detto solo la verità.
“Posso aiutarvi.” S’intromise il mago gnomo. “Prima ho lanciato un incantesimo che mi permette di capire qualsiasi linguaggio, parlato o scritto. È logico pensare che funzionerà anche per la comunicazione gestuale.”
Johel gli fece spazio, titubante. Avrebbe preferito non avere conferma dei suoi sospetti.
Daren sentì i passetti nervosi dello gnomo che si avvicinava. Nonostante fosse un creaturina leggera, i suoi piccoli piedi sbattevano sulla roccia con un rumore più che evidente per le orecchie di un elfo. Sollevò di nuovo la mano, stancamente, come se fosse ancora più faticoso di prima.
“Sta dicendo… Andate via.” Tradusse lo gnomo, mentre Daren parlava a gesti. “Parola parziale… deve uscire… parola parziale… oh, ti servirebbero entrambe le mani, vero? Ah, elfo!” Capì, quando Daren indicò nella generica direzione di Filvendor, e lo gnomo comprese che la parola per cui servivano entrambe le mani era elfo di Superficie. “Dunque… andate via, levatevi da… ma che villano ingrato!… portate via l’elfo, qui pericolo, andate via, deve… vedere… no, rivedere… lo schifo? Lo schifo che sta in alto?”
“La Superficie?” Tentò Johel.
“La luce.” Comprese Filvendor, all’improvviso. “La parola luce in drowish è quasi una parolaccia.”
Daren annuì con un gesto impercettibile, poi sembrò rilassarsi ora che il suo messaggio era stato recepito. Chiuse gli occhi, con un tenue sorriso, e Johel raggelò pensando che fosse morto. Ma no, respirava ancora. Era solo svenuto.
“Merildil, pensi che possiamo muoverlo?” Tentò Johel, rivolgendosi alla zia con tono di supplica.
“Assolutamente no.” La risposta fu pacata ma categorica. “Non se vuoi che arrivi in Superficie vivo.”
“Allora resterò con lui.” Stabilì Johel.
“No.” L’imperativo categorico giunse con una specie di eco.
Gli elfi si guardarono l’un l’altro. Tazandil e Raerlan avevano parlato contemporaneamente.
L’anziano ranger sembrava sorpreso di essere d’accordo con l’alicorn, per una volta. Così sorpreso che perse l’occasione di parlare per primo.
“No perché sarebbe inutile.” Riprese lo sciamano. “Tu non sei un guaritore, e anche se le sue ferite si rimargineranno col tempo, non sei in grado di aiutarlo a recuperare l’uso del braccio o prevenire infezioni. Ha più senso che rimanga io.”
“No perché è pericoloso.” Rincarò Tazandil, in tono di minaccia. “Nessuno dei miei sottoposti resterà un minuto di più in questo sotterraneo. La vostra vita è una mia responsabilità. Tornerete tutti in Superficie.”
“Ma…” Cominciò ad obiettare suo figlio.
“E resterò io.” Concluse il vecchio ranger. “Insieme a Raerlan, visto che mi servono le sue arti di guarigione ed è colpa sua se siamo scesi quaggiù con così poco preavviso.”
Dicendo questo, Tazandil si girò a fronteggiare l’alicorn e gli scoccò uno sguardo penetrante. Raerlan intuì che doveva esserci un altro motivo se l’elfo voleva restare da solo in sua compagnia. Forse voleva fargli una ramanzina, o peggio, aveva delle domande.
“Va bene, ma come facciamo se il chierico dovesse tornare? E quei non-morti?” Intervenne Solaias. “Io posso provare ad allontanarli e farli fuggire con il potere del sommo Corellon, ma non sono che un ricettacolo fallibile del Suo potere, e non sono abbastanza potente da distruggere le mummie. Posso solo tenerle a distanza per un po’, e la traversata per la Superficie richiede ore di cammino.”
Solaias guardò Tazandil, come se si aspettasse una risposta risolutiva. Il vecchio ranger sapeva che quel problema era reale, e la sua prima reazione sarebbe stata “non dividiamo il gruppo”, ma la verità era che senza magia avevano poche speranze contro dei non-morti, anche coniugando gli sforzi di tutti.
“Ho ancora una pergamena di Teletrasporto.” Rivelò Wilhik, ansioso di aiutare. Durante il combattimento si era sentito abbastanza inutile, e non vedeva l’ora di fare la sua parte. “Ammetto che è un incantesimo un po’ troppo potente per me, ma ho già lanciato incantesimi potenti dalle pergamene, e mi sono riusciti tutti. L’unico problema… è che posso portare con me soltanto tre persone.”
L’annuncio fu accolto da un silenzio pensieroso.
“Filvendor dovrebbe andare.” Propose Solaias. “Fra tutti è il più traumatizzato, e a ragione… è fisicamente indebolito dalla lunga inattività, e da chissà che altro, quindi in caso di combattimento non avrebbe molte possibilità. Inoltre, non so da quanto tempo sia qui, ma il drow ha ragione: deve rivedere la luce.” Dicendo questo, spostò lo sguardo da Wilhik al povero elfo, che lo ricambiò con uno sguardo colmo di lacrime e di gratitudine.
Tutti gli altri mormorarono la loro approvazione, ma fu un po’ più difficile stabilire chi altri sarebbe dovuto andare. Merildil era la moglie del capoclan e quindi la sua sicurezza era importante, ma era anche un’incantatrice potente che sarebbe stata molto utile una volta che avesse riposato per recuperare gli incantesimi. Solaias era necessario in caso rincontrassero le mummie. Pilindiel non intendeva partire senza Nelaeryn, e la cosa era reciproca. Daren non sarebbe sopravvissuto allo stress di un simile incantesimo.
Alla fine, nonostante le proteste della druida, decisero che sarebbero partiti Merildil e Johlariel, perché la foresta di Sarenestar è pericolosa anche in Superficie, e non era il caso di lasciare un mago ed un ranger traumatizzato completamente privi di protezione.

I tre elfi e lo gnomo sparirono con uno schiocco sonoro, che ricordava il rumore di una bottiglia che viene stappata. Tazandil entrò in tensione, pensando che quel rumore potesse attirare troppo l'attenzione. Dopo alcuni secondi però non era ancora accaduto nulla.
“Dobbiamo stare in allerta.” Tazandil si mise al comando, assumendosi la responsabilità di coordinare le azioni degli altri e i loro compiti. Per la sua esperienza, avere un capo risoluto di solito tranquillizzava le persone. “Solaias, fai la guardia a questo cunicolo.” Gli intimò, indicando la direzione da cui erano arrivati. “Raerlan, tu aiutami a spostare questi schifosi cadaveri, poi terrai d'occhio la galleria più stretta, ed io quella che rimane.”

Rimasero in perfetto silenzio per quasi un minuto, prima che dalla galleria che Solaias stava controllando giungesse un urlo raccapricciante.
Il primo istinto di tutti fu correre a vedere cosa fosse successo, ma Tazandil impose a Nelaeryn di restare indietro a sorvegliare la “loro” grotta e il loro alleato privo di sensi. Poi tutti gli altri si addentrarono di corsa giù per quel cunicolo, estraendo le armi. Si stavano lasciando alle spalle la tenue luminescenza delle luci danzanti di Daren, quindi Solaias lanciò un semplice incantesimo di luce sul suo simbolo sacro, in modo che potessero vederci contrastando l'oscurità completa.
Quando arrivarono all’altro capo della galleria, dove Merildil aveva dovuto aprire un passaggio nella roccia, Raerlan ci si incuneó per primo. Non sapeva cosa avrebbero trovato all'altro capo ma si sentivano rumori di battaglia. Se la situazione fosse stata troppo pericolosa, aveva tutta l'intenzione di difendere i suoi compagni con ogni mezzo.
Quello che vide quando riuscì a sbucare dall'altra parte, per un momento lo paralizzò sul posto.
Il sacerdote drow si trovava in quella caverna, e anche le mummie. Probabilmente, non sapendo dove andare, erano tornate nel luogo della loro morte. Lì il chierico le aveva trovate, e magari pensava anche di poterle utilizzare per attaccare gli elfi o coprire la sua fuga.
Contrariamente ad ogni previsione, il prete stava dimostrando di non avere alcun controllo su quelle creature, che anzi, lo stavano attaccando.
Solaias era immediatamente dietro a Raerlan, e quando arrivò alle sue spalle portando con sé la fonte di luce, l'alicorn riuscì a vedere un po’ meglio.
I due spiriti dei drow morti. Avevano lasciato la grotta degli elfi quando Zeerith era scappato con la magia, e adesso eccoli qui. Raerlan poteva vederli girare intorno alle quattro mummie, ogni tanto infilavano le mani incorporee in quelle teste non-morte. Raerlan era uno sciamano da innumerevoli secoli, ma non aveva mai visto spiriti con un tale potere. Non capiva come, ma in qualche modo con la loro influenza stavano impedendo ai loro compagni mummificati di cadere sotto l'influenza magica del chierico. Zeerith cercava di brandire il suo simbolo sacro (be’, sacrilego), ma nessun potere, nessun afflato di vera fede stava scaturendo da esso. Presto un piccolo capannello di elfi si era radunato a debita distanza per assistere a quello spettacolo impressionante, anche se loro non potevano vedere gli spiriti.
Una delle mummie attaccó con un’artigliata, strappando un brandello di carne dal polso del sacerdote e facendo saltare la catenina con il simbolo di Vhaeraun. I due spiriti dei drow morti sorrisero con cupa soddisfazione, e Raerlan capì. Era Zeerith che stavano guardando con odio, qualche minuto prima. Non Tazandil. E ora stavano facendo in modo che le mummie si rivoltassero contro il loro Signore? O le stavano solo rendendo libere di scegliere?
Il malvagio chierico sollevò una mano verso l'alto, e Raerlan vide che con il pollice stava per sfregare l'anello che aveva al dito medio. L'alicorn non sapeva a cosa servisse quell'anello, ma di sicuro era magico, e di sicuro il prete andava fermato.
Lo sciamano annaspó in cerca di una freccia, mentre con la mano sinistra metteva in posizione l'arco. Non fece mai in tempo a tirare, e forse non avrebbe fatto in tempo comunque.
La mano di Zeerith venne trapassata da una freccia, prima che potesse fare uso della magia dell'anello. Il chierico gridò di dolore e istintivamente si portò la mano al petto, perdendo la sua unica occasione di fuga. Le mummie gli furono addosso in un attimo, e Raerlan chiuse gli occhi orripilato mentre quella mano offesa gli veniva strappata via dal braccio. Il drow urlò di nuovo.
Raerlan si voltò per congratularsi con Tazandil per quel colpo da maestro, ma il ranger non aveva ancora nemmeno incocciato la freccia.
Pilindiel era accanto a loro, in equilibrio sulla mano sinistra, il moncone della destra appoggiato a una stalagmite per mantenere l'equilibrio. Si era tolta gli stivali, anzi, non erano nemmeno in vista, doveva esserseli tolti da tempo. A testa in giù, la schiena incurvata elegantemente come una contorsionista, il piede sinistro reggeva l'arco ancora vibrante e quello destro era sollevato a mezz'aria, dopo aver scoccato una freccia con precisione da cecchino.
Mentre il drow veniva sommerso dagli abomini che lui stesso aveva creato, la giovane ranger si rimise in piedi con una mossa fluida e naturale, poggiando a terra il piede destro e sollevando il sinistro per passarsi l'arco nell'unica mano che le restava.
Le ultime urla di Zeerith si spensero con una nota di disperazione molto soddisfacente. Solaias era pronto a fare appello ai suoi poteri clericali, ma alla fine non ce ne fu bisogno. Venendo a mancare il loro creatore, le mummie caddero a terra come sassi, tornando ad essere cadaveri inanimati.
Soltanto Raerlan vide i loro spiriti emergere da quei corpi profanati, afferrare lo spirito di Zeerith, strapparlo a forza dal suo cadavere e poi portarselo via. Per dove, l'alicorn poteva solo immaginarlo. Quantomeno i drow non mostravano più alcun interesse per gli elfi, e questo era un bene.

Il gruppetto rimase in silenzio alcuni secondi, a guardare quei corpi immobili come se ciascuno si aspettasse nuovi terribili colpi di scena. Alla fine divenne chiaro a tutti che era davvero finita.
“Pilindiel. Ricordo chiaramente di averti proibito più di cent'anni fa di usare l'arco con i piedi.” Commentò Tazandil, ma per una volta il suo tono non riusciva ad esprimere rimprovero. “Non è dignitoso né serio.”
“Ed io non avrei mai contestato un tuo ordine, capo.” Ribatté lei, in tono modesto. “Ma erano più di cent'anni che aspettavo un'occasione per dimostrarti che ti sbagli.”
Il vecchio ranger sospirò, passandosi una mano sul viso.
“Sembra che questo sia un momento storico che mi impone di rivedere molte delle mie convinzioni.” Riconobbe lui. “Accetto la tua dimostrazione, ma quando torneremo a Myth Dyraalis andrai in un tempio e ti farai ricrescere la mano.”
Pilindiel scrollò le spalle ma annuì con un sorriso. Certo che voleva farsi ricrescere la mano. Aveva la sensazione che finalmente Nelaeryn avrebbe trovato il coraggio di chiedergliela, quindi era meglio averle tutte e due.

           

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Capitolo 23
*** 1287 DR: La loro pace ***


1287 DR: La loro pace


Pilindiel e Nelaeryn si appartarono in un’alcova della grotta, per riposarsi dopo le fatiche e i tremendi pericoli della giornata. Entrambi invidiavano un po’ i loro compagni che erano già saliti in Superficie, ma capivano l’importanza di mettere in sicurezza il prigioniero e la loro migliore druida. Restava un solo posto vuoto per il viaggio magico di Wilhik, e nessuno dei due voleva partire senza l’altro. Alla fine Tazandil aveva praticamente costretto Johel ad andare, e i due giovani ranger erano rimasti giù, agli ordini del loro capo. Erano entrambi fieri di quello che avevano fatto, ma passare tante ore in quelle caverne oscure stava logorando i loro nervi.
“Mi sembra così strano che stiamo qui ad aspettare che un drow si risvegli.” Sussurrò Nelaeryn, ad un soffio dall’orecchio dell’amica. Non voleva attirare l’attenzione di Tazandil con le sue rimostranze, e non voleva nemmeno disturbare la meditazione del loro sacerdote Solaias.
“Capisco come ti senti.” Mormorò lei in risposta. “Ma ricorda che è un amico di Johel, e che è sceso quaggiù per salvare Filvendor. Io approvo le sue azioni. Un tempo appartenevo anch’io al clan Gysseghymn, penso che potrebbe essere un mio lontano cugino. E nessun elfo merita di stare in questo posto orribile.”
“Quello che dici è vero, ma si è davvero infiltrato fra questi drow per aiutare Filvendor? E se avesse avuto qualche motivazione recondita?”
“Non era un alleato di questi drow.” Gli fece notare lei. “Lo hanno quasi ucciso, sarebbe morto se Raerlan non l’avesse curato, e ancora adesso le sue condizioni sono precarie. Come puoi dubitare?”
Nelaeryn si appoggiò con la schiena alla parete di pietra, vinto dalla stanchezza, ma se ne pentì subito: la roccia era fredda e umida, anche attraverso gli strati del mantello e degli abiti.
“Hai ragione, in realtà non dubito di lui. È soltanto che odio questo posto e vorrei andarmene subito, e mi sembra innaturale dover stare qui per un drow.”
“Nemmeno a me piace stare qui.” Sibilò lei. “Ma resterei per un elfo amico, resterei per un elfo sconosciuto, resterei per uno degli gnomi di Myth Dyraalis, resterei per qualunque creatura dal cuore buono o per chiunque non si sia dimostrato un nemico. Nessuno merita di essere abbandonato in un posto del genere, tranne coloro che ci farebbero del male.”
“Ora mi fai sembrare un mostro e un razzista.” Ribatté lui. “Ma non è così. Sto solo dicendo… è un drow. Per lui è naturale vivere nel sottosuolo. Sarebbe come abbandonare un pesce in mare.”
“Ma non dire idiozie!” Sibilò lei. “Il sottosuolo è pericoloso per chiunque, soprattutto per una persona ferita e svenuta. Se fosse in salute ti potrei dare ragione, ma il tuo discorso adesso non ha senso.”
Nelaeryn sapeva che l’elfa aveva ragione, ma in quel momento covava un fastidio troppo grande e irrazionale per poter riflettere lucidamente.
“Tu parli in questo modo perché lui ti piace.” Sbottò infine.
Pilindiel sollevò la testa dalla spalla di Nelaeryn, interrompendo quel contatto intimo.
“Prego?”
Il giovane elfo girò il capo per evitare il suo sguardo.
“Be’, abbiamo sentito tanto parlare di lui. Johel ne parlava sempre. È normale che ti abbia suscitato curiosità, e poi ha quell’aspetto esotico, e…”
“E quindi tu pensi che io sia scesa quaggiù, correndo pericoli mortali, per fare colpo su un completo sconosciuto solo perché ha un aspetto esotico.” Pilindiel tirò le fila, con voce glaciale.
Nelaeryn aveva la sensazione di stare scivolando lungo una china pericolosa.
“Uhm, no. Non insinuerei mai una cosa del genere. So che hai un cuore buono e sei molto coraggiosa, lo hai fatto per liberare Filvendor, per aiutare Johel…”
Tu l’hai fatto per aiutare Johel, e per dimostrare di essere all’altezza dei grandi ranger del passato. L’hai fatto per generosità, sì, ma anche per baldanza, coraggio, follia. Io ho accettato questa missione per tenerti d’occhio, perché conosco il carattere del mio amico Nelaeryn e so quanto può diventare imprudente. Non ti avrei mai lasciato affrontare una simile sfida da solo.”
Il ranger venne scosso da un tremito improvviso e si girò a guardarla negli occhi, incredulo.
“Lo hai fatto per me? È per me che ti sei messa in pericolo e hai perso una mano?” Cercò una conferma negli occhi brillanti di lei, e vide soltanto sincerità e affetto. “Santo cielo, Pilindiel, se avessi saputo che ti avrei trascinata in un simile inferno io non avrei accettato.”
Lei sorrise e gli poggiò un pugno contro la spalla, in un gesto scherzoso.
“Che sciocco bamboccio. Sei sempre stato sciocco. Io so fare qualsiasi cosa molto meglio di te!” Lo prese in giro lei, facendo riferimento alla loro eterna rivalità. “Se c’è un pericolo all’orizzonte, la cosa più saggia che possiamo fare è affrontarlo insieme.”
Lui si appoggiò di nuovo contro la parete di roccia, ma questa volta non badò al freddo. Quando Pilindiel posò di nuovo la testa alla sua spalla, dimenticò anche di trovarsi in una caverna.
“Non pensavo che lo avrei detto prima di te.” Cominciò, dopo essersi schiarito la voce. “Volevo conquistarti e fare in modo che fossi tu a dirlo, nella mia mente questa era la nostra competizione definitiva. Ma adesso non ha importanza, anzi, sembra una cosa così sciocca. Ti amo, Pilindiel.” Mormorò, stringendola a sé portando il braccio destro attorno alle sue spalle delicate.
“Non l’hai detto prima di me.” Protestò lei, ricambiando l’abbraccio. “Io te l’ho detto un momento fa, ma sei troppo testa di legno per capirlo.”

Tazandil sapeva che i suoi due giovani ranger non stavano esattamente montando la guardia, né stavano usando il loro tempo per riposare e recuperare le forze, ma per quella volta decise di lasciar correre. Aveva chiesto loro davvero un grande sforzo, avevano accettato una missione potenzialmente suicida, meritavano una ricompensa.
D’altra parte era improbabile che altri pericoli sbucassero dalle gallerie: se lui fosse stato un drow (e per quanto odiasse anche solo il pensiero ipotetico, era un ragionamento necessario), be’, se fosse stato un drow avrebbe prima di tutto messo in sicurezza il proprio accampamento. Era improbabile che qualche pericolosa creatura selvaggia reclamasse quelle gallerie così presto.
Solaias stava meditando, o forse pregando, e soltanto il vecchio ranger e Raerlan erano rimasti a fare la guardia. In realtà non si stavano nemmeno impegnando a fondo, erano seduti in centro alla grotta dando le spalle l’uno all’altro per poter guardare in direzioni diverse. Sarebbe stato meglio allontanarsi un po’ nei cunicoli, per fare la guardia, ma nessuno di loro era ansioso di dividere il gruppo.
La loro vicinanza aveva anche un risvolto positivo: potevano parlare.
“Era morto, vero?” Sussurrò Tazandil ad un certo punto, rompendo il silenzio. “Quella spada gli ha trapassato il collo. Forse gli ha anche spezzato la spina dorsale. Quindi dimmi come diavolo fa ad essere ancora vivo.”
Raerlan sospirò. La sua magia seelie poteva depistare la mente di Tazandil dai dubbi che riguardavano lui stesso, non qualcun altro. Il ranger era un guerriero esperto, era ovvio che avrebbe riconosciuto un colpo letale.
“Sì, era morto.” Ammise dopo un momento. “Non l’ho guarito, avevo già speso tutta la mia magia curativa. L’ho riportato in vita, costringendo la sua anima a restare nel corpo. Una simile azione, costringere qualcuno a vivere, ha l’effetto di guarire per necessità qualsiasi ferita mortale.”
Tazandil non disse nulla, per un lungo momento. Non commentò le scelte dell’alicorn, perché in realtà le approvava, o almeno approvava questa scelta.
“Come hai fatto?” Chiese soltanto. “Sei un chierico?”
“Uno sciamano.” Rispose stringatamente lui.
“E perché non l’hai detto? Non pensi che dobbiamo essere a conoscenza delle risorse dei nostri alleati?”
“Sono un vostro alleato?” Ritorse Raerlan. “Dopo tutti questi anni, speravo di essere uno di voi.”
Uno di noi non conserverebbe simili segreti. Uno di noi ci avrebbe detto subito della scomparsa di Filvendor.”
“Io stesso non l’ho saputo subito.” Raerlan aveva la risposta pronta. “Soltanto pochi mesi fa. I miei poteri mi permettono di vedere gli spiriti e conversare con loro. È stata la moglie defunta di Filvendor, la povera Visne, a trovarmi e a chiedermi aiuto per suo marito. La mia grande mancanza è stata quella di non girovagare abbastanza per la foresta di Sarenestar, e di non capitare prima nelle vicinanze della grotta dei drow.”
“Ma anziché dircelo subito, hai aspettato che Daren tornasse nei pressi della foresta.”
“Oh, sì. Ho anche fatto in modo che ci entrasse, a dire il vero.” Ammise lui con tutta tranquillità.
“Questo ha un senso, se il tuo proposito era farlo scendere quaggiù.” Riconobbe Tazandil. Non gli piaceva scoprire che uno dei suoi ranger fosse un simile manipolatore, ma il suo ragionamento almeno era coerente. “Ma perché lui?”
“Perché è un drow.”
“A parte l’ovvio, Raerlan.” Protestò il vecchio ranger, spazientito.
“No, sul serio. Solo per questo. Pensaci, Tazandil. Un gruppo di elfi sarebbe sceso quaggiù, avrebbe attaccato frontalmente, forse alla fine avrebbe sventato la minaccia dei drow, ma non prima che loro riuscissero a uccidere l’ostaggio. Un drow invece aveva la possibilità di infiltrarsi, arrivare a Filvendor e liberarlo dall’interno, e nel frattempo avrebbe potuto indagare le ragioni che hanno spinto un gruppo di drow a soggiornare sotto la nostra… sotto la vostra foresta per mesi, senza fare sortite o massacri.” Tirò le fila, conducendo Tazandil passo passo lungo i sentieri del suo ragionamento. “Daren conosce sia la lingua che la cultura drow, era la persona migliore per indagare un simile comportamento.”
Tazandil rimase in silenzio per molti minuti, riflettendo sulle parole dell’alicorn.
“Detesto doverlo ammettere, ma hai maledettamente ragione.” Riconobbe infine. “Ma a Filvendor non hai pensato? Ha subito inutili torture per mesi…”
“Anziché essere ucciso in un goffo tentativo di salvataggio.” Gli ricordò Raerlan.
“Io credevo di essere pragmatico.” Lo interruppe l’elfo dei boschi, con voce dura. “Credevo di essere un capo, uno che sa sempre qual è la cosa giusta, capace di fare dei sacrifici per una causa più alta. Ma non so se sarei stato capace di un ragionamento lucido come il tuo, con uno dei nostri elfi in mano a dei crudeli drow. E adesso non so cosa pensare. Non so se ti ammiro per la tua lungimiranza, o se ti disprezzo per la tua mancanza di empatia.”
Raerlan sorrise, un sorriso triste, ma Tazandil non poteva vederlo.
“Non te l’ho detto, Tazandil, perché so di poter reggere questo peso. Non c’è stato giorno in cui non mi sia tormentato per il fato di Filvendor, ma volevo che rimanesse una mia responsabilità, una mia colpa. Non era giusto caricarti con il fardello della conoscenza, quando non c’era nulla che tu potessi fare per risolvere la situazione.”
“Potevamo tentare!”
“E morire. O veder morire Filvendor.”
“Ma sarebbe stata la cosa giusta.” Ribatté Tazandil. “Questi sono drow.
“Sarebbe stata la cosa giusta.” Convenne Raerlan. “Giusta per i nostri cuori e la nostra morale. Ma sarebbe stata fallimentare. I tempi non erano maturi e sarebbe finita in un bagno di sangue. Odiami per quello che ho fatto, e anche per le mie menzogne, se vuoi, ma io ho agito sempre nell’interesse della foresta, della comunità.”
Tazandil deglutì, sapendo finalmente che cosa provava. Doveva dirlo a Raerlan. Gli doveva un po’ di quella sincerità che l’alicorn non aveva avuto per loro.
“Non posso odiarti per aver fatto quello che io non potevo fare. Ma ti odio per avermi trattato come un bambino, e ora per avermi mostrato che non sono pragmatico come pensavo.”
“Non è un difetto avere un cuore, Tazandil. Tu sei un grande capo anche per questo. La mia rivelazione non è una critica al tuo carattere.”
“Ma non neghi di avermi trattato come un bambino da proteggere dietro a una barriera di menzogne.”
Raerlan sospirò. Era il momento di gettare un ponte di riconciliazione fra lui e Tazandil. L’alicorn si sentiva protetto dal suo rituale di magia seelie; sapeva che le sue parole sincere avrebbero modificato il punto di vista di Tazandil, ma poi lui non le avrebbe ricordate. Grazie alla magia avrebbe conservato solo la sensazione di essere arrivato a una miglior comprensione reciproca, ma senza rammentare perché.
“Tu sei un bambino, per me.” Ammise, con tranquillità. “Io ho camminato per le strade delle Dodici Città della Spada, prima che il regno di Jhaamdath venisse devastato dall'Alta Magia degli elfi di Nikerymath. Ero già vecchio quando l’immensa foresta Keltormir venne spazzata e bruciata dal fuoco dei draghi, quasi diecimila anni fa. Ho calcato per la prima volta questo mondo nel periodo in cui i grandi regni di Aryvandaar e Miyeritar rinunciavano alla loro danza diplomatica, ho assistito al nascere di quello scempio che furono le Guerre della Corona. Elfo contro elfo, fratello contro fratello. Ho visto orrori che in quest’epoca di pace voi non potete immaginare, ho assistito a decisioni impossibili e così terribili da infrangere i cuori e lasciare alle spalle solo pietra. Mio padre era un elfo del sole. C'è stato un tempo in cui essere accolto da un diverso popolo elfico sarebbe stato impensabile. Oggi c’è sodalizio e affetto fra tutti gli elfi di Superficie, ma non dimentico gli errori e gli orrori di cui siamo capaci.” Tazandil rimase in silenzio sbalordito, ascoltando questa incredibile rivelazione. Per qualche motivo, non dubitò di una singola parola. Di solito Raerlan si mostrava sempre allegro e sorridente, rifiutava di affrontare discorsi complessi, come se non ne fosse capace. Era la prima volta che l’elfo percepiva una tale gravità nella voce dell’alicorn, e gli credeva. Credeva alla sua serietà, al dolore che filtrava dalla sua voce. “Tu sei in collera con me perché ti ho mostrato che non sai prendere una decisione terribile e spietata? Non dirlo, Tazandil, non dirlo nemmeno per sbaglio. Sia benedetto il tuo cuore. Tu almeno ne hai uno.”
All’improvviso, Tazandil riconobbe il sentimento che stava provando. Non gli capitava molto spesso. Compassione.
Avrebbe dovuto essere spaventato dal racconto di Raerlan, preoccupato di scoprire che cosa fosse, perché fosse ancora vivo dopo tredicimila anni o più. Invece provava compassione, per il suo cuore infranto, per gli orrori che aveva visto e a cui forse aveva preso parte. Perché finalmente l’alicorn aveva aperto il suo cuore e gli stava parlando con sincerità.
“Io sono sempre in collera per qualcosa.” Mormorò alla fine, come per scusarsi. “Non badare a me. Questa è casa tua, e lo sarà fino a quando vorrai... amico.”
Raerlan sorrise, e si appoggiò con la schiena contro la schiena di Tazandil.
“Sono molto lieto di sentirlo. L’amicizia di una persona degna mi scalda sempre il cuore. Ma mi chiedo se sarai disposto a estendere questa offerta di amicizia anche al nostro alleato drow.” Gli domandò, riportando la sua attenzione sulla figura inerme dell’elfo scuro svenuto.
Tazandil si sentiva generoso, quel giorno.
“È letteralmente morto per cercare di salvare uno di noi.” Riconobbe. “Non penso di poter più dubitare della sua buona fede. Ma per tutti gli dèi, è un insopportabile ribelle. Se vuole essere accolto nella nostra foresta, farà bene ad imparare qual è il suo posto.”
Raerlan ridacchiò, recuperando in parte il suo buon umore. “Vuoi dire come me?”
Tazandil si scostò di colpo, facendo cadere all’indietro Raerlan che era ancora appoggiato a lui. “Sì, proprio come te, impudente ragazzo. Non so chi ti abbia autorizzato a prenderti tutta questa confidenza.”

L’alicorn rimase sdraiato a terra, per un momento, a guardare Tazandil da sotto in su con un sorrisetto di scuse. L’elfo dei boschi stava già iniziando a dimenticare la loro conversazione.
Dover indossare una maschera, non potersi mai aprire con nessuno, era una cosa sempre un po’ dolorosa per il vecchio viaggiatore. Ma ormai ci era abituato. Andava bene così.
E forse c’era qualcuno, nel mondo, con cui avrebbe potuto essere sé stesso.

             

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Capitolo 24
*** 1287 DR: La loro guarigione ***


1287 DR: La loro guarigione


Trascorsero alcune ore prima che Daren riprendesse conoscenza.
Per prime giunsero le sensazioni tattili. Il dolore alla spalla: si era riacceso e bruciava come fuoco. La sete. Sì, forse la sete era anche peggio. La gola gli faceva male, aveva in bocca il sapore del sangue e avrebbe letteralmente ucciso per un po’ d'acqua. La testa gli doleva come se l’avesse picchiata per terra, cosa probabile visto che era caduto. Non ricordava di essere caduto, ma sentiva il freddo del pavimento di roccia sotto di sé. Davvero molto freddo. Doveva essere sdraiato da tantissimo tempo.
All’inizio credette di essere solo, ovunque fosse. Non riusciva ad aprire gli occhi. Sembrava un compito così faticoso, e così inutile. Poi giunsero i suoni, e il drow capì di essersi sbagliato. Qualcuno stava parlando, molto vicino a lui. Era una conversazione a voce bassa, in una lingua che gli era familiare, ma era troppo confuso per capire le parole. La lingua però era musicale, armonica… elfico, realizzò all’improvviso.
Di colpo ricordò gli ultimi avvenimenti: il combattimento contro le mummie, poi contro il chierico drow, e infine l’arrivo degli elfi. Daren rimpianse subito di essere tornato cosciente di tutto questo. Gli sembrava di aver appena vissuto un incubo. Non avrebbe voluto aprire gli occhi e scoprire che i suoi amici e alleati erano ancora lì. Aveva detto loro di andarsene, aveva il vago ricordo di essere stato ascoltato, ma allora perché…?
L’elfo scuro sollevò le palpebre, e fu meno faticoso di quanto avesse temuto.
C’era luce intorno a lui. Non si aspettava la luce. Tutti i suoi sensi gli dicevano che si trovava in una caverna: il freddo sotto la schiena, l’odore di umido e di chiuso, il leggero rimbombo delle voci, tutto parlava di sottosuolo e lui non era abituato ad associare quell’ambiente al concetto di luce.
Richiuse immediatamente gli occhi e cercò di coprirsi il viso con le mani, ma il braccio destro non rispose ai suoi comandi. Una fitta di dolore pungente gli si diramò dalla spalla fino al gomito, uno spasimo più intenso del sordo indolenzimento costante di poco prima. Un lieve gemito gli sfuggì dalle labbra, ma nulla di più. I drow imparano presto a soffrire in silenzio, perché di solito attirare l’attenzione peggiora soltanto la situazione.
Qualcuno gli sollevò delicatamente la testa e gli accostò un otre alle labbra. Daren pregò che fosse acqua, o una pozione curativa, perché al momento non avrebbe retto nient’altro.
Non era acqua, ma sembrava una leggera tisana fredda. Sapeva di erbe che il drow non riconobbe, e il suo corpo entrò immediatamente in tensione pensando che fosse veleno.
No, sono circondato da elfi. Alleati. Non hanno motivo di avvelenarmi, ricordò a se stesso, forzandosi ad inghiottire un piccolo sorso. L’istinto di un drow è difficile da combattere. Quel liquido amarognolo comunque non lo fece sentire peggio di come già non stesse. Quantomeno era freddo, un balsamo per il dolore alla gola.
Con gli occhi socchiusi, cercò di distinguere qualcosa in tutta quella luce.
Raerlan. È lui. Oh, grazie al cielo, è ancora vivo. Quanti di loro sono ancora vivi? E quanti sono…? L’ultima parola rimase ad aleggiare nella sua mente, come una minaccia.
“Daren, sei sveglio?” La voce di Raerlan giungeva come da una lunga distanza e il drow ci mise un po’ a capire le parole. Conosceva la lingua elfica, ma non era la sua lingua madre. “Cerca di bere un altro po’.”
L’otre venne reclinato ancora una volta e Daren sentì quel liquido amaro che premeva contro le sue labbra. Bevve un altro sorso, e la sua mente cominciò davvero a schiarirsi.

“Come sta?” Domandò Tazandil, sbirciando da oltre la spalla dell’alicorn.
“È vivo. Penso sia fuori pericolo. Gli sto facendo bere una tisana energizzante, l’aiuterà a riprendersi. Per una vera guarigione, però, dovremo aspettare gli incantesimi di Solaias.”
Tazandil annuì seccamente e tornò a fare la guardia. Non era un sentimentale, se il drow era vivo e si sarebbe ripreso non gli interessavano ulteriori dettagli.
In realtà, anche se non l’avrebbe mai ammesso, stare in una caverna lo inquietava un po’. Non era posto per un elfo. Dopo un po’ la sensazione di claustrofobia cominciava a logorare i nervi, ed erano laggiù da molte ore.
Dopo qualche minuto, mentre l’anziano ranger era in quello stato mentale che lo rendeva ancora più scorbutico, Nelaeryn e Pilindiel si avvicinarono sfoggiando enormi sorrisi completamente fuori luogo.
“Volevo informarti, capo.” Cominciò Nelaeryn, entusiasta. “Io e Pilindiel ci sposiamo!”
Tazandil mostrò lo stesso interesse che avrebbe una roccia per il passaggio di una lucertola.
“Qui? Adesso?”
“Be’... ovviamente no.”
“Allora tornate a fare la guardia, voi due, ché non siamo in gita di piacere.” Li congedò seccamente.
I due ranger ridacchiarono come scolaretti e tornarono ai loro compiti. In quel momento Tazandil aveva una gran voglia di sbattergli le teste l’una contro l’altra, almeno avrebbero imparato a ridere in simili situazioni di tensione, ma si trattenne. Una parte di lui ricordava la sensazione dell’amore ai suoi inizi, e dopotutto il lavoro di un ranger era anche quello: difendere la foresta perché i suoi abitanti potessero vivere felici.
Penso che gli darò un congedo, se si sposeranno. Decise, seguendo con lo sguardo i due giovani che andavano ad appostarsi vicino alle gallerie secondarie. Allo stato attuale quei due mi sembrano completamente inutili.

Una decina di minuti dopo, la situazione non era molto cambiata. Pilindiel e Nelaeryn stavano montando la guardia, sul serio questa volta, e avevano deciso di separarsi per evitare distrazioni. Solaias era ancora immerso nella reverie, perché per poter pregare e ottenere nuovi incantesimi dal suo dio doveva prima far riposare la mente.
Daren ormai sentiva di aver ripreso completamente i sensi e la mente gli si stava schiarendo. Provò a parlare. La gola gli doleva ancora, ma riuscì a schiarirsi la voce e perfino a farsi sentire.
“Tazandil?”
“Hm?” L’elfo si avvicinò e rimase a torreggiare sul guerriero ferito, ancora sdraiato a terra. Raerlan aveva provato a tenerlo seduto, ma la spalla gli doleva di meno se restava supino. “Sei sveglio.”
“Johel dov’è? Non è… lui era vivo, no? Ricordo di averlo visto.”
“Sì, è vivo e sta bene. È tornato in Superficie con il mago, con lady Merildil e Filvendor.”
Daren si rilassò visibilmente a questa rivelazione. Non si era reso conto di essere così teso, ma l’idea di aver causato la morte del suo migliore amico non aveva smesso un attimo di tormentarlo, fin da quando si era svegliato. Dopotutto, poteva essere successa qualsiasi cosa dal momento in cui era svenuto. Potevano essere arrivati altri nemici. Tutti quei drow vhaerauniti che vivevano lì. Che fine avevano fatto? Erano stati sconfitti?
“La battaglia…?”
“È vinta. Nessuno di noi ha perduto la vita.” Raccontò, senza scendere nei dettagli. Nessuno tranne te, aggiunse nella sua mente. Lui stesso si stupì di considerare il drow come uno di loro, ma il pensiero gli era venuto naturale.
Daren annuì, accogliendo con piacere quella notizia. Non conosceva di persona alcuni di quegli elfi, ma avevano rischiato la vita sulla scia delle sue azioni.
“Allora… torniamo a Sarenestar?”
“Non appena sarai in grado di camminare.”
Daren soppesò quella risposta. Il padre di Johel, il ranger capo degli Arnavel, aveva risposto alla sua domanda come se anche lui dovesse tornare alla foresta. Non lo aveva contraddetto e non aveva parlato di esilio. Un segnale positivo.
Decise di tentare la sorte.
“Posso avere la stessa gabbia dell’altra volta? Si gode di un bel panorama sulla foresta.”
La domanda cadde nel silenzio. In realtà, a Pilindiel e Nelaeryn scappò una risatina, forse per l’assurdità della domanda, o per il suo atteggiamento sfrontato.
Tazandil, come al solito, non sollevò nemmeno un angolo della bocca. Sapeva che non era una vera battuta, il drow gli stava chiedendo quale sarebbe stato il suo destino, e voleva mascherare la sua incertezza dietro una facciata di spavalderia.
“Non tornerai nella gabbia.”
“Sicuro?” Daren appariva in parte sollevato, in parte deluso. “Perché non mi dispiacerebbe poter mettere una parete di sbarre fra me e Johel.”
Questa volta Nelaeryn rise davvero.
“Oh, sì, era arrabbiato.” Gli confermò Raerlan. “Ma se ti consola, era arrabbiato anche con me.”
“Non fa testo, anche io sono arrabbiato con te.” Ribatté il drow.
Raerlan gli rivolse un sorriso amichevole e disarmante, e spostò lo sguardo da Daren a Tazandil. I loro sguardi di biasimo erano davvero simili, per essere due persone così diverse.
“Penso che per un po’ lascerò la foresta. Così, giusto per non… imporre la mia presenza oltre misura.” Preannunciò, in tono di scuse.
In realtà, aveva già in mente di farlo, e per ragioni molto più serie.

Pochi minuti dopo, Daren annunciò che era pronto per partire. Sì, era più morto che vivo, e no, non avrebbe potuto combattere, ma fu irremovibile: una spalla ferita non gli impediva di camminare. Le sue gambe funzionavano entrambe.
Per le prime ore di cammino procedettero lentamente, perché il loro compagno ferito era debole e doveva appoggiarsi a Raerlan, per camminare comunque più lentamente del normale, quindi non fecero molti progressi. Ma nemmeno se li aspettavano; mettersi in marcia era stata decisione presa soprattutto per risollevare gli animi, per non starsene lì fermi a far niente.

Nel frattempo, i tre elfi e lo gnomo che erano già in Superficie si erano organizzati in un campo provvisorio. Quando erano usciti era ancora pieno giorno, probabilmente primo pomeriggio. Filvendor non riusciva a credere che solo poche ore prima la sua vita fosse destinata a spegnersi lentamente sotto terra, fra le torture e la disperazione, mentre invece adesso stava vedendo nuovamente la luce del sole, le fronde della sua amatissima foresta, stava sentendo di nuovo il canto degli uccelli e il ronzare degli insetti. I suoi occhi erano colmi di lacrime e il povero elfo era soverchiato da tutte quelle emozioni. Sollievo, gratitudine, incredulità… forse perfino felicità. Dopo anni, per la prima volta, stava riscoprendo cosa fosse la felicità.
Ovviamente, ai fini del fare la guardia o del montare un campo, non era in grado di dare un contributo. Gli altri l’avevano messo in conto e si erano divisi i compiti. Wilhik aveva fatto ricorso ad un’altra utile pergamena per erigere magicamente una casetta di legno e terra. Essendo una pergamena vergata dal suo maestro, era una casetta in architettura gnomica. Un po’ bassa per degli elfi, ma ci si erano accomodati comunque. Johel si era appostato sul tetto per fare la guardia e prendere a colpi di freccia ogni potenziale aggressore, mentre Merildil aveva dovuto insistere un po’ per trascinare Filvendor all’interno. L’elfo non era entusiasta di tornare di nuovo fra quattro mura, ma alla fine accettò, perché la troppa luce stava ferendo i suoi occhi sensibili. Un anno nell’oscurità completa aveva lasciato il segno.
La druida non aveva modo di guarirlo con la magia, ma naturalmente conosceva le virtù medicinali di molte erbe. Accesero un piccolo fuoco all’interno dell’unico stanzone di cui era composta la casa. Cominciò a scaldare un po’ d’acqua, mentre interrogava il ranger sul suo stato di salute. Non aveva esperienza di prolungate prigionie, gli elfi non si comportano in modo tanto barbaro. Filvendor era rimasto a lungo a digiuno, era stanco, provato, i suoi muscoli avevano perso tonicità e forse si era anche assuefatto a passare molto tempo in posizioni innaturali. Merildil gli fece un controllo completo, per quanto poteva, e poi lo lasciò riposare su una delle brande.
C’era molto lavoro da fare per riportare quell’elfo alla salute, e la riabilitazione si sarebbe trascinata per mesi. Cominciò preparando un lenitivo per i suoi occhi irritati, e un decotto nutriente. Aveva del cibo da dargli, ma non si fidava del fatto che potesse digerirlo.
Rimasero in quella casetta, indisturbati, fino al tramonto. A quel punto Johel cominciò a sentire dei rumori tra gli alberi, al limitare della radura. L’esperto ranger entrò in tensione e incoccò subito una freccia, pensando che forse non tutti i nemici erano morti, forse avevano trovato il modo di seguirli, risalendo dai cunicoli...
Ma no. La sua acuta vista elfica gli rivelò la verità quando scorse in mezzo alle fronde il volto brutto e nodoso di un troll del muschio.
Johel non era un elfo crudele. Non si considerava, tutto sommato, una persona violenta. Ma quel giorno era ancora molto arrabbiato, e ora si trovava davanti una creatura che, per sua esperienza, era vulnerabile soltanto al fuoco. Un sorriso amaro si allargò lentamente sul suo viso, mentre posava l’arco e sfoderava la spada.
No, Johel non era un elfo crudele, ma non aveva armi incantate con la magia del fuoco. Aveva solo un piccolo acciarino e una ampolla di olio, che avrebbe potuto usare per finire il troll una volta che fosse stato reso innocuo. Prima però doveva renderlo innocuo. Con le botte.

Merildil uscì dal cottage poco dopo, allarmata dai rumori del combattimento.
“Johel! Che succede? Tutto bene?” Chiamò, quasi gridando, terrorizzata che potesse essere successo qualcosa al nipote visto che non aveva dato l’allarme.
“Tutto bene.” Le rispose una voce affannosa, da dietro la prima linea di alberi. “Solo un troll.”
“Serve aiuto?” Insistette lei, ancora in allarme.
“Gli servirebbe.” Fu la risposta, asciutta e fin troppo divertita.
Un grosso troll del muschio venne scaraventato all’interno della radura. Merildil non sapeva come avesse fatto, un elfo, a far fare un volo di tre metri ad un troll grosso il doppio di lui, ma decise che non voleva indagare. Johel piovve dal cielo in perfetto silenzio, lasciandosi cadere da un ramo basso. Ah, ecco, forse lo aveva calciato oscillando da un ramo, quella era una spiegazione plausibile. Merildil scosse la testa, assistendo incerta mentre il troll si rialzava.
“Sei sicuro che non ti serva…?”
“No.” Tagliò corto lui. “Per gli dèi, zia, lasciami uccidere qualcosa.”
Merildil sussultò, colpita da quella esternazione così accorata ed esasperata. Guardando il giovane elfo che tornava alla carica contro il troll, evitando agilmente i suoi artigli e colpendo con la spada come una furia, la druida si rese conto per la prima volta che Johel non era davvero in sé. Non stava combattendo per difendere loro, ma perché c’era qualcosa, una rabbia indomabile, che lo consumava. Forse il troll non aveva nemmeno attaccato per primo. Merildil non aveva mai visto un elfo attaccare qualcuno con il solo scopo di uccidere, simili desideri violenti non erano la norma per quella razza contemplativa. Lei però non era una guerriera, non poteva sapere che qualsiasi combattente, elfo o no, sperimenta sempre emozioni simili durante una battaglia. Gli altri ranger erano solo più bravi a dissimularlo.
Johel non aveva la pazienza di dissimulare un bel niente. Avrebbe potuto far finta che il troll fosse una grande minaccia, avrebbe potuto recitare la parte del difensore premuroso, ma in realtà era solo stanco, triste, arrabbiato, ferito nei sentimenti e frustrato, sì, frustrato perché non avrebbe potuto fare a Daren la scenata che quel bastardo si meritava.
Perché Johel era un ranger di Sarenestar. E quindi, come avrebbe potuto mostrarsi arrabbiato con il suo amico per aver salvato un elfo di Sarenestar?
Va bene, forse non lo aveva proprio salvato, ma aveva rischiato la vita nel tentativo, sarebbe morto se non fossero arrivati loro.
O forse il nostro arrivo è quello che ha messo i drow sulla difensiva, in primo luogo. Se non fossimo arrivati? Daren aveva pronta una storia di copertura? E per quanto avrebbe retto? Quanto a lungo sarebbe riuscito a fingersi uno di loro, tollerando la prigionia di quell’elfo, le torture… sarebbe riuscito a restare nel personaggio? E quanto gli sarebbe costato? Dannazione, sarei riuscito a rimanere amico di qualcuno che avesse retto una simile copertura, che avesse… permesso che un elfo venisse torturato, senza fare nulla?
Oh, non lo sapremo mai. Questo mi fa impazzire. Non sapremo mai cosa avrebbe fatto Daren, ma lui si aspettava di doverlo fare, mi ha lasciato indietro come una zavorra, il bastardo, pensando… che cosa diavolo stava pensando? Di potercela fare? Di poter sopportare una simile mascherata? Di poter prendere una simile decisione sulla pelle di Filvendor?
No, maledizione. Io lo conosco, non ci sarebbe riuscito. Alla prima occasione avrebbe tentato la fuga con il prigioniero, anche se fosse stato pericoloso; e se quella prima occasione si fosse presentata dopo giorni? Dopo settimane? A cose fatte, avrebbe avuto ancora il coraggio di guardarmi in faccia? O avrei perso per sempre la sua amicizia, separati da un muro di vergogna?
Era pronto a rischiare la sua vita e la nostra amicizia per recuperare Filvendor, e la cosa peggiore è che non posso rinfacciarglielo, perché è una maledetta impresa eroica e in buona fede, e nessun ranger elfo può permettersi di incazzarsi con qualcuno per aver salvato un altro elfo. Non posso… non qui, non davanti a tutti.

Nonostante i suoi pensieri tormentosi, Johel non abbassò la guardia nemmeno per un momento. I suoi colpi erano precisi e diretti, allenati dall’abitudine al combattimento.
Sarei la vergogna della mia famiglia, se ammettessi che per me la sua vita, e la sua amicizia, valgono più della vita di un altro elfo di Sarenestar. Anche se è uno sconosciuto.
La sua rabbia esplose, alimentata da quel senso di vergogna, o forse la sua furia era così intensa proprio nel tentativo di coprire ogni altra emozione. Colpì alla cieca quel nemico della sua razza, l’insidioso troll, convincendosi che stava facendo una cosa giusta per ristabilire il suo onore e il suo posto nel mondo.
Johel era un elfo, e per gli elfi il clan è sacro. La foresta è sacra. I legami di amicizia di solito si allacciavano soltanto all’interno del clan, della foresta. Era raro che un elfo raggiungesse quel livello di fiducia, amicizia e apertura verso uno straniero, specialmente di un’altra razza. Johel non era preparato ai sentimenti che stava provando, perché il suo amico non apparteneva alla sua gente e lui non era capace, razionalmente, di dargli un posto d’onore nella sua vita. Però ce l’aveva. La loro amicizia era nata quasi per sfida, e ora era una delle cose più importanti che aveva, quasi quanto la sua famiglia.
E tutto, nella sua educazione, gli gridava che questo era sbagliato. Che preferire la sopravvivenza di un drow a quella di un elfo era mortalmente, visceralmente sbagliato, era un tradimento verso il suo clan, la sua patria e tutto il popolo degli elfi dei boschi.
Johel infierì sul corpo del troll caduto, svenuto, sapendo che la sua lama non poteva comunque ucciderlo. Aveva solo bisogno di continuare a colpire. Era furioso, con Daren per averlo messo davanti a quella verità, e con sé stesso perché non era capace di accettarla. Si sentiva male per il suo egoismo nel preferire che Daren non fosse mai andato a salvare Filvendor, e d'altra parte si sentiva male perché il suo raziocinio stava condannando quell’amicizia bella e sincera. Era spaccato in due e detestava ciascuna delle due voci che gli premevano nella mente.
Alla fine Merildil lo fermò, mettendogli una mano sulla spalla.
“Johel, figliolo, non c’è niente che tu possa fare.” Gli disse pacatamente, e lui per un folle istante si chiese se lei non gli avesse letto nel pensiero. Poi però lei chiarì quella frase enigmatica: “I troll del muschio muoiono solo se prendono fuoco. La tua spada non può fare più di così.”
Johel abbassò lentamente l’arma, rendendosi conto che stava dando spettacolo. Arrossì leggermente, come se il rimprovero pacato della druida avesse spezzato la spirale di pensieri distruttivi in cui era rimasto invischiato.
“Ho… ho un acciarino.” Balbettò, scoprendo di avere la gola secca.
La zia Merildil lo guardò in modo strano. Johel si pentì immediatamente di averlo rivelato, rendeva solo più sospetto il suo comportamento irrazionale.
“Non importa, caro, ho ancora qualche semplice incantesimo. Evocare un po’ di fuoco è una cosa da nulla.” L’elfa lo fece scostare, con gentilezza, e provvide subito a creare una fiamma prima che il troll cominciasse a rigenerarsi. I miseri resti presero fuoco immediatamente, attaccati dalle fiamme magiche. Il cielo ormai era quasi nero, rischiarato solo dalle prime stelle, e la luce di quel tetro falò illuminò i volti dei due elfi, mettendo a nudo la loro espressione.
“Mio caro, tu sai che a me puoi dire tutto. C’è qualcosa che ti turba?”
Il ranger si voltò verso di lei, incontrando il suo sguardo aperto e onesto, carico di sincera preoccupazione e affetto. Si sentì ancora più in colpa.
“Non tutto, zia. Non mi guarderesti più nello stesso modo.”
“Johel, non essere sciocco, sei come un figlio per me… dimmi cosa c’è che non va.”
L’elfo deglutì a vuoto, pensando rapidamente. No, non era una situazione da affrontare con il pensiero razionale, perché la sua mente non aveva alcun consiglio utile da dargli. Provò ad ascoltare il suo cuore, e di nuovo sentì due voci. Una era la vergogna; non voleva parlare a Merildil, una druida, una importante figura istituzionale, dei suoi conflitti etici. L’avrebbe considerato indegno. L’altra voce però era il desiderio di condividere quel fardello, di ricevere un consiglio, di udire una voce amica. Dopotutto all’interno della famiglia bisognerebbe essere sempre sinceri, questo gli era stato insegnato, e con che coraggio avrebbe guardato in faccia i suoi parenti mantenendo un simile segreto?
“Mi sento terribilmente in colpa.” Mormorò, così piano che solo l’udito di un’elfa avrebbe potuto cogliere la sua voce. “Una parte di me vorrebbe essere laggiù. È giusto che io sia qui a proteggervi. Tu sei la moglie del capoclan, oltre che mia zia, Filvendor è debole e mastro Wilhik è stato un prezioso aiuto, mostrando grande coraggio… è un onore essere il vostro difensore, ma una parte di me vorrebbe essere accanto al mio amico.”
Merildil lo fissò in silenzio per un lungo momento, poi fece qualcosa che Johel non si sarebbe mai aspettato da lei. Afferrò il suo bastone da druida come se fosse stato un’arma (era un’arma, in effetti, era pur sempre un bastone di legno), e portò un rapidissimo fendente colpendolo al braccio destro, fra il gomito e la spalla. Non era stato un attacco vero, ma aveva colpito abbastanza forte da lasciargli un livido.
“Ahio! Zia, ma cosa…?”
“E quindi secondo te avrei bisogno della tua protezione.” Ripeté lei, lentamente.
“No… be’... ma hai quasi esaurito gli incantesimi e...”
“Vuoi il bis, Johlariel?” Lo interruppe lei, sollevando il bastone in modo minaccioso.
L’elfo intelligente fece un passo indietro, sollevando le mani in un gesto di conciliazione.
“No, no. Ho capito.”
“Ah sì? E che cosa hai capito? Che hai offeso il mio amor proprio? Perché non è quello il punto, nipote.” Lei lo guardò con estrema serietà, come se lui fosse stato un animale selvatico da domare. “Io non ho bisogno della tua protezione. Ti ho voluto con me proprio per non lasciarti laggiù. Perché in questo momento i tuoi sentimenti sono troppo intensi, troppo confusi, e potresti dire e fare cose di cui poi ti pentiresti.”
Il ranger rimase a bocca aperta davanti a questa ammissione. Merildil aveva capito il suo stato d’animo prima di lui?
“Mi sento in conflitto, zia. In conflitto con me stesso, ed è una battaglia che non posso vincere.”
La druida lo fissò in silenzio per alcuni secondi. Poi sorrise.
“Be’, è una battaglia che non puoi nemmeno perdere, no? Avanti, confidati. Ti farà bene.”
Johel sorrise di quella logica lineare, anzi, arrivò perfino a ridacchiare.
“Ah, invidio il tuo ottimismo. Ma posso perdere. Ho già perso, se continuo a lottare con me stesso. Eppure non vedo una via d’uscita.” Tornò serio, ricordando il motivo della sua agonia interiore. “Sono amico di un drow.”
“Sì, e questo è motivo di grande cruccio per i tuoi genitori ormai da vent’anni.”
“Sono amico di un drow e mi fa arrabbiare che abbia rischiato la vita senza dirmi nulla, per salvare… ecco. Lo vedi? Sono un mostro.” Si nascose il viso fra le mani. “Filvendor è un mio simile.”
Merildil fece un passo verso di lui, gli poggiò le mani sui polsi e lo costrinse ad abbassare le braccia.
“Filvendor è un estraneo.” Gli sussurrò, in tono complice, come se fosse un loro segreto. “Non saresti così ostile alla cosa se si fosse trattato di Nelaeryn, o di Raerlan, o di tuo padre.”
Johel impallidì, immaginando la terribile eventualità in cui un suo amico, o un suo familiare addirittura, fosse finito tra le grinfie di quei drow. Merildil gli sorrise, soddisfatta del suo improvviso colorito terreo.
“Ecco, hai visto?”
Johel ricambiò lo sguardo, a occhi sgranati. Sì, la druida aveva certamente dimostrato qualcosa, ma il suo sorrisetto gli sembrava comunque fuori luogo.
“Johel, mio caro ragazzo, pensi che la vita di Filvendor per me valga più di quella di Pallina?” Gli domandò, con una sincerità disarmante.
Johel rimase a bocca aperta, sconvolto. Pallina era la civetta di zia Merildil, e certo, era il suo compagno animale, un legame sacro per un druido. Ma era sempre… be’... un animale. Non era una persona, non era un elfo.
“Ma sei la moglie del capoclan!” Balbettò lui.
“E in quanto tale, so quando è il caso di mantenere un segreto.” Bisbigliò lei, di nuovo in tono complice. “Non tradirmi con tuo zio, se non vuoi che mandi uno sciame di zanzare a tormentarti.”
Johel stava per ribattere qualcosa, ma chiuse la bocca, colpito da quella minaccia. La druida poteva davvero farlo? Non lo sapeva, ma non aveva voglia di metterla alla prova.
Una cosa però l’aveva capita: la sua educazione gli aveva insegnato che la vita di un elfo è sempre più importante di qualunque altra vita, ma era un concetto da interpretare per sommi capi, un ideale che, appunto, apparteneva al mondo delle idee. La realtà era una cosa diversa, concreta, e i sentimenti appartenevano alla realtà. Gli amici, appartenevano alla realtà.
“Grazie.” Sussurrò alla fine, guardando il falò improvvisato spegnersi lentamente senza intaccare l’erba. Merildil aveva il controllo su quel fuoco magico, non lo avrebbe lasciato divampare. La guardò muovere una mano ed estinguere definitivamente le fiamme. Forse era possibile avere un simile controllo anche sulle proprie emozioni, con un po’ di impegno e di allenamento.
Allenamento. Rifletté su quel concetto nuovo. Allenarsi a controllare le emozioni però presuppone di accettarle e comprenderle, prima.
I due elfi tornarono verso la casetta di legno e terra, entrambi con spirito più leggero.

           

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Capitolo 25
*** 1287 DR: La loro diplomazia ***


1287 DR: La loro diplomazia


Il gruppo di elfi rimasti nel sottosuolo stava procedendo lentamente ma con costanza, in silenzio. Tazandil e Nelaeryn si erano posizionati rispettivamente in testa e in coda al gruppo, per proteggere i compagni più vulnerabili nel mezzo.
Per un po’ non incontrarono problemi. Tazandil aveva ragione nella sua valutazione: gli elfi scuri avevano fatto in modo che nessun mostro osasse desiderare di avvicinarsi troppo al loro accampamento. Ad un certo punto però cominciarono i problemi: scendendo si erano lasciati alle spalle dei piccoli segni di riconoscimento, ma abbastanza nascosti perché non volevano indicare ai drow una via per la Superficie, nel caso in cui la missione fosse fallita. Solo che ritrovare quei piccoli segni nell'oscurità, anche con l'ausilio degli incantesimi di luce, non era certo facile. Visne non era più con loro, o almeno Raerlan non la vedeva più, ed era comprensibile: sicuramente era accanto a suo marito.
Daren aveva fatto un'altra strada, all'andata, ma aveva esplorato un po' quel tratto di gallerie dal Piano delle Ombre. Non era certamente la stessa cosa, perché quel Piano era comunque impreciso e fluido, ma il panorama non gli era del tutto sconosciuto, e qualunque drow prima o poi impara ad orientarsi sotto terra. Non gli piaceva avere la responsabilità di indicare la via a quelle persone, era fin troppo simile al rischio di condannarli tutti nel caso in cui avesse sbagliato strada. Quegli elfi avevano già rischiato fin troppo a causa sua. Sulla spinta di questo senso di colpa preventivo, Daren teneva sempre la mano sinistra sul pomo di una spada corta, pronto ad entrare in azione se fosse stato necessario.
Ad un certo punto, cominciarono a sentire dei rumori concitati provenire da una galleria alla loro sinistra, un cunicolo che avevano ignorato perché sembrava portare verso le profondità del Buio Profondo. Si misero tutti subito in allarme, e per precauzione tutti quanti sfoderarono le spade.
Raerlan lanciò un'occhiataccia a Daren quando vide che anche lui aveva in pugno una spada corta.
“Cosa credi di fare tu? Stai insieme con lo spago!” Gli sussurrò, in tono di rimprovero.
“Voglio aiutare!” Ribatté seccamente il drow. “Non sono ridotto all’impotenza.”
“Sì che lo sei, avremmo dovuto toglierti le armi.” Insistette l'alicorn.
“Non sta a te decidere…” cominciò a dire il guerriero, ma fu Tazandil a finire per lui.
“Ha ragione lui, Raerlan, non sta a te deciderlo. Spetta a me. Toglietegli le armi.” Ordinò con secco pragmatismo.
Cosa?” Soffiò il drow, incredulo e inviperito. “Non ti fidi…”
“Non mi fido del tuo buonsenso. Da quando sei arrivato ti sei già lanciato incontro alla morte due volte, e sei qui da due giorni.” Riepilogò il ranger.
Daren cercò qualcosa da ribattere, ma le osservazioni dell'elfo erano corrette. Circostanziali, ma corrette.
Intanto i rumori si erano fatti sempre più vicini, e l'eco non aiutava a capire che cosa fosse a generarli. Sembravano tanti piccoli passi, a dire il vero, ma si trattava di un'orda di creature, o di un gigantesco millepiedi? O qualcosa di ancora peggiore?
Nelaeryn e Raerlan presero in custodia le armi del drow, che le cedette controvoglia. Pilindiel si nascose dietro una stalagmite, pronta a colpire a sorpresa, e Tazandil seguì il suo esempio in un altro punto della galleria. La luce di Solaias purtroppo avrebbe rivelato la loro presenza, o quantomeno avrebbe rivelato la presenza di creature che necessitavano di luce per vedere, anche se gli elfi si fossero nascosti.
Daren aveva una vista migliore nell'oscurità, e in realtà quella luce gli dava solo fastidio, impedendogli di estendere i suoi sensi nelle gallerie ancora buie. Il suo udito però funzionava ancora molto bene, e ad un certo punto captò qualcosa che non combaciava con la sua idea di mostro o di aggressore: il pianto spaventato di un bambino. Si avvicinò di più all’imbocco del cunicolo e cercò di cogliere altri dettagli; era una voce, quel rumore distorto dall'eco? Gli sembrava di sì. Una voce aspra, roca, come se qualcuno stesse cercando di urlare a bassa voce. Era tutto troppo confuso perché potesse riconoscere la lingua. Il bambino però non aveva smesso di piangere e ora il drow era assolutamente certo di quello che stava udendo.
Una moltitudine di voci che cercano di sussurrare, decine di passi che cercano di non fare rumore, ma con poco successo. Poi, finalmente, riconobbe alcune parole: “Luce!”, “Il mondo-sopra!”, dicevano quelle voci, e la lingua era quella dei goblin.
“Sono solo goblinoidi.” Aggiornò i suoi compagni, che si rilassarono leggermente a quella notizia.
I goblin erano antichi nemici degli elfi, ma erano acqua fresca se paragonati ai drow.
“Allora sarà facile.” Mormorò Pilindiel, sollevando la spada.
“No.” La fermò Daren, alzando la mano sinistra. “No, aspettate. Vorrei provare a parlare con loro.”
“Parlare? Sono goblin!” Sbuffò Nelaeryn, in tono di derisione.
Pochi istanti dopo, i primi goblin si riversarono di corsa nella caverna, con la fretta di chi sta scappando da qualcosa. Come videro il drow, che si era piazzato proprio in centro alla galleria più larga in modo da essere sulla loro strada, puntarono i piedi in un buffo tentativo di frenata. Quelli immediatamente dietro andarono a sbattere contro la prima linea, causando un tamponamento a catena e anche qualche ruzzolone. Calò un silenzio tombale mentre i piccoli ometti grigiastri fissavano in silenzio quel nemico nero come la notte, che andava a toccare i loro più antichi istinti di sopravvivenza.
Un paio di loro, fra quelli nelle retrovie, gridarono e scapparono da dov'erano venuti, andando a sbattere contro la seconda ondata di goblin, più indietro nel cunicolo. Daren sapeva che quando lo guardavano non vedevano un singolo elfo scuro ferito e disarmato, vedevano soltanto un predatore mortale. Il timore reverenziale per la sua razza malvagia stava paralizzando quelle creature inferiori senza bisogno che lui facesse una piega. Però era consapevole di dover agire subito, perché la loro paura non li avrebbe trattenuti a lungo.
“Cosa ci fate qui, al confine del territorio drow?” Domandò in tono minaccioso, facendo un passo avanti come se non avesse niente da temere da loro. Aveva parlato nel linguaggio sgraziato dei goblinoidi, e sperava che almeno qualcuno degli elfi lo capisse.
Quelle patetiche creature tentarono di rialzarsi e di darsi una parvenza di dignità.
“Noi non disturba grandi padroni.” Rispose il più coraggioso di loro, tentando un sorriso amichevole, ma venne tradito dai suoi denti che battevano per la paura. “Noi va di-sopra. Mai più vicino a grandi padroni drow!”
“Giù da quella parte c'è il territorio dei drow.” Daren indicò la strada da cui lui e gli elfi erano arrivati, con un cenno della mano sinistra. “Se ci andrete troverete la morte! Ma la Superficie è abitata dagli elfi chiari, e anche lì troverete la morte.”
I goblin si scambiarono occhiate desolate, mostrando sempre di più la loro paura. Il resto della tribù, una grande massa di goblin disarmati o male armati, femmine e bambini, cominciò ad intravedersi oltre le prime svolte del cunicolo pendente da cui erano arrivati. Daren poteva vedere solo i primi sfortunati di quel secondo gruppo, ma ne intuiva le dimensioni dal rumore che stavano facendo.
Anche gli elfi si stavano ormai rendendo conto che non si trattava semplicemente di un gruppo di razziatori, ma sembrava una vera e propria diaspora.
Il goblin che si era fatto portavoce della tribù venne praticamente spinto avanti dai suoi compagni, e si trovò a pochi passi dal drow con occhi colmi di spavento e di lacrime.
“Allora prego, prende noi schiavi. Noi obbedisce. Lavora per grandi padroni. Prego, togliete maledizione, noi fa tutto ciò che volete, durbuluk.” Daren riconobbe la parola, un po’ desueta, che significava dominatore. “Prego, toglie maledizione di booyahgvawshak.” Supplicò l'orrendo piccoletto, torcendosi le mani.
Daren rimase perplesso per un attimo. Non aveva idea di cosa fosse il booyahgvawshak. Però, pensandoci bene, si accorse che conosceva le parole di cui era composto quel nome. Poteva significare, a grandi linee, il morto magico, o forse lo stregone morto.
“È un morto? Un… goblin morto?” Volle indagare.
“Lui era nostro booyahg, nostro goblin di spiriti.” Balbettò, poi tacque per un momento. Deglutì a vuoto, un paio di volte, e cercò di tirarsi indietro e rientrare nel mucchio, ma i suoi compagni non glielo permisero, tornando a spingerlo in avanti. “Lui ha… lui grande testa di merda, lui ha sfidato booyahg di grandi padroni drow.” Ammise, tremando come una foglia. “Tornato da tribù come booyahgvawshak. Morto che cammina, succhia-ossa. Ucciso molti goblin. Alcuni morti senza ossa, alcuni diventati senza-cervello. Grandissima paura. Noi scappati, per molti giorni, ma succhia-ossa sempre trova! Noi ora scappa in mondo-sopra, forse booyahgvawshak non segue…” finì di parlare, abbassando progressivamente la voce. “Ma se padrone vuole, noi schiavi subito! Padrone toglie maledizione, sì?”
“Non metterete piede nel mondo-sopra!” Intervenne Tazandil, uscendo dal suo nascondiglio tattico. Daren prese nota senza stupirsi che anche lui conosceva il ghukliak, la lingua dei goblinoidi.
I goblin rabbrividirono all'unisono. Erano goblin delle profondità, non avevano mai visto un elfo di superficie, ma lo sguardo pericoloso sul volto del vecchio ranger li persuase in un attimo che gli elfi chiari dovevano essere semplicemente una variante estetica degli elfi scuri. E a quanto pare erano anche alleati dei loro cugini.
“Prego, padrone…” cominciò a piagnucolare il portavoce dei goblin, dando il via ad un coro di suppliche da parte di tutta la prima linea. Dalla massa alle loro spalle cominciavano a sentirsi rumori che tradivano impazienza e paura.
“Sarebbe meglio occuparsi di questo non morto che li segue.” Propose Daren passando a parlare in lingua elfica, prendendo in contropiede i suoi compagni.
“Dovremmo affrontare un non morto?” Esclamò Nelaeryn, incredulo. “Per dei goblin?”
“Non penso che abbiamo le forze per ucciderli tutti, in questo momento. E personalmente non sono molto incline a massacrare creature disarmate e bambini, anche se sono goblin.” Cominciò Daren. “Ma è molto pericoloso lasciare una simile massa nel panico e senza speranza, non si può sapere che cosa faranno. Dopotutto quali scelte hanno? Tornare indietro e morire, salire in Superficie e crearvi dei problemi, oppure scendere nelle caverne che prima erano abitate dai drow e scoprire che ora sono vuote… peccato che ci siamo lasciati dietro tutto l'equipaggiamento degli elfi scuri; non sono particolarmente interessato ai loro tesori, ma chissà quali oggetti maledetti si erano portati dietro. Non voglio pensare a che cosa accadrebbe se oggetti magici e pericolosi cadessero nelle mani perverse di un goblin. Preferirei che tornassimo con una seconda spedizione, quando ci saremo rimessi in sesto, per ripulire questo posto.”
La sua proposta fu accolta da un silenzio sbigottito, perché in effetti nessuno di loro aveva pensato a quei risvolti. In realtà nessuno di loro aveva pensato neanche alla possibilità di tornare laggiù, volevano tutti lasciarsi alle spalle quella brutta esperienza e quel luogo oscuro. Ora che però il loro alleato aveva parlato di quella possibilità e dei potenziali rischi connessi, tutti quanti si resero conto che era stato abbastanza insensato fuggire in quel modo senza pensare a cosa si stavano lasciando dietro.
“Affrontare un singolo non morto in effetti potrebbe essere preferibile a dover fronteggiare un esercito di goblin armati di magia drow.” Riconobbe Solaias, afferrando subito il suo simbolo sacro. “Qualunque cosa sia, non può essere peggio delle mummie.”
“Se sei già in grado di curarmi, buon chierico, potrei prendermi io questa incombenza.” Propose Daren. “È stato… dopotutto è stato un drow a creare quel non morto.”
“Un drow con cui tu non c'entri niente, quindi evita di sentirti coinvolto.” Ribatté seccamente Tazandil. “Ordina a questa sporca marmaglia di lasciarci passare, e quel mostriciattolo che mangia le ossa si troverà presto a mangiare la polvere.”

Fu così che quel giorno, forse per la prima volta nella Storia, si verificò un evento più raro dell'allineamento dei pianeti: un gruppo di elfi e drow alleati unirono le forze per aiutare una tribù di goblin.
In cambio di un piccolo sforzo ottennero di distruggere una creatura del male, impressionare a morte i goblin del sottosuolo, e strappare loro la promessa terrorizzata che non avrebbero mai messo piede nelle gallerie superiori e nemmeno nel territorio dei drow. Con un po' di fortuna, la notizia della loro grande prodezza si sarebbe sparsa negli strati superiori del Buio Profondo, disincentivando qualunque futura incursione goblin.
Dopo nemmeno mezz'ora avevano ripreso il cammino, sentendosi più sicuri di loro stessi e del loro sodalizio. Solo Raerlan sembrava essersi ombrato, ma nessuno gli faceva troppo caso, come al solito.

Il racconto del goblin aveva fatto vibrare una corda familiare nella sua memoria. Quel non morto, il beviossa, aveva il potere di uccidere in modo raccapricciante, ma non quello di far impazzire le persone. Certo, era sempre possibile che alcuni goblin avessero perso la sanità mentale semplicemente a causa della paura. Qualcosa però gli diceva che se uno degli incantatori drow si era preso la briga di svolgere un rituale, magari costoso, per trasformare un goblin in un folle non morto e poi mandarlo a terrorizzare e sterminare la sua tribù... poteva esserci dietro lo zampino di qualcuno che si nutriva della paura e delle emozioni estreme altrui. Qualcuno come una malvagia predagioia. Che magari per un po' di tempo si era divertita con quei goblin, e poi li aveva messi da parte come giocattoli usati, senza curarsi delle conseguenze.
Quella dannata unseelie è scomparsa dopo la battaglia. Si disse, rimuginando sulla cosa. E se è furba non si avvicinerà più alla foresta di Sarenestar finché avrà vita. Ma posso forse lasciarla andare in giro libera per il mondo?
La troverò. Troverò quella stronza manipolatrice e metterò fine alla sua esistenza. Tanto, avevo già messo in conto di lasciare la foresta il prima possibile.


Un’ora più tardi si fermarono a riposare un po’, perché la salita si stava facendo più ripida e in alcuni punti avrebbero dovuto aiutarsi con le mani, scalando un po’, per proseguire. Daren aveva ancora un braccio inutilizzabile. Poteva ricorrere ai suoi poteri di drow per levitare, ma solo un limitato numero di volte. Appena trovarono una piattaforma comoda per fermarsi, si sedettero per riprendere fiato. Solaias pregò il Padre degli Elfi per ricevere nuovi incantesimi, e finalmente riuscì ad elargire a tutti le cure che aspettavano. Da quel punto, il viaggio non diventò meno impervio, ma certamente fu più facile da affrontare. Pilindiel mancava ancora di una mano, ma Solaias non era in grado di lanciare incantesimi potenti come quello necessario a far ricrescere un arto. Gli altri l’aiutarono a superare i punti più difficili, e tutti insieme riuscirono a dominare la natura ostile.
Era decisamente una strada diversa da quella che avevano fatto all’andata, ma stavano salendo, e anche in modo abbastanza rapido. Forse era perfino una scorciatoia. Ogni passo li avvicinava alla Superficie ed era come se gli elfi stessero ricominciando a sentire il richiamo della foresta e del cielo stellato, come se la pietra sulle loro teste diventasse sempre meno opprimente.

Alla fine sbucarono in una caverna abbastanza ampia, un ovale quasi perfetto, così bassa che quasi tutti sfioravano il soffitto con la testa (non Daren), e tristemente senza uscita. Questa scoperta li paralizzò per un attimo, come un pugno improvviso allo stomaco; dopo tutta quella fatica…? Ma poi Raerlan richiamò la loro attenzione su un dettaglio: sopra le loro teste non c’era pietra, ma terra compressa. Terra vera, friabile, tenuta insieme dalle radici dei fitti alberi della loro foresta. A Solaias sfuggì un grido di giubilo, Pilindiel e Nelaeryn si abbracciarono con gioia e sollievo. Ce l’avevano fatta! La Superficie!
Attesero con calma mentre Raerlan sussurrava alle radici facendo appello ai suoi incantesimi, così simili a quelli di un druido. Le radici si spostarono di buona grazia, facendo cadere un mucchietto di terra e liberando un passaggio, un buco nel soffitto.
Daren uscì per primo, facendo appello ai suoi poteri di levitazione. Lo strato di terriccio era spesso più di un metro. Non era impossibile da scalare, e le radici avrebbero aiutato, ma non c’era motivo di complicarsi la vita. Dal suo zaino recuperò una corda di canapa, la legò al tronco di un albero e calò l’altra estremità attraverso il foro.
Pochi istanti dopo, quel coraggioso manipolo di eroi posò di nuovo i piedi sul terriccio soffice e naturale del bosco, beandosi del profumo resinoso delle conifere e dell’aria frizzante della notte, che a loro sembrava tiepida dopo aver sperimentato il clima freddo e umido delle gallerie.
“Ah… casa!” Sospirò il chierico, decidendo all’istante che non avrebbe mai più messo piede in una grotta in vita sua.
Tazandil condivideva il suo sollievo, ma non era altrettanto propenso a dimostrarlo. Pilindiel e Nelaeryn stavano perfino saltellando, dannati marmocchi. Il loro amico sciamano fece in modo di richiudere il buco, e poi tutti insieme cercarono di capire dove si trovavano, rispetto alla radura da cui erano partiti. Tazandil si arrampicò su un albero, si scambiarono le loro valutazioni e infine convennero che erano sbucati un po’ più a nord.
“Torniamo dagli altri. Saranno preoccupati a morte. Quando ci hanno lasciati, c’erano ancora un chierico e quattro mummie a piede libero.” Decise il ranger capo, richiamando tutti all’ordine.
“Ah… a questo proposito… nessuna speranza che tu abbia cambiato idea su quella cosa della gabbia?” Indagò l’elfo scuro.
“Mh, dovrei rinchiuderti, sì. Per essere un insopportabile bacia-goblin.”
Ehi!” Protestò Daren, offeso. “Non mi piacciono i goblin, sono delle piccole merde, ma sì, confesso che mi fanno un po’ pena. I drow danno loro la caccia solo per sport.”
“Danno la caccia anche agli elfi.” Gli fece notare Tazandil. “Dimmi, per caso ti facciamo pena?” La voce del vecchio elfo dei boschi grondava sarcasmo.
“No.” Ammise lui, cedendo alla sua logica con un sorriso di scuse. “Non sono così folle. No, tranne quando uno di voi diventa davvero una vittima, come Filvendor.”
La menzione del loro compagno appena emerso da un anno di torture ricordò a tutti che c’era molto da festeggiare, ma anche che forse non era il momento giusto per farlo.
“A proposito di Filvendor.” Raerlan si avvicinò a Daren e gli mise un braccio intorno alle spalle, con la sua solita invadenza. “Apprezzerei molto che nessuno di voi menzionasse il ragazzino, Mavael.”
“Suo figlio?” Daren gli lanciò un’occhiata perplessa. “Perché no? È stato lui a chiedermi aiuto per il padre.”
“Sì, ma fare il suo nome sarebbe solo causa di altro dolore per Filvendor. Vedi, c’è un motivo se un ragazzino come Mavael era al corrente dei drow, mentre nessun altro ranger del clan Gysseghymn lo era. C’è un motivo se non aveva bisogno di mangiare e di dormire, e pesava così poco. E… c’è un motivo se è comparso al tuo accampamento senza che tu, un drow, lo sentissi arrivare.”
Man mano che l’alicorn elencava quei punti, l’elfo scuro cominciò a rendersi conto, per la prima volta, che era tutto vero. Erano tutti dettagli molto strani, come mai non li aveva notati?
“Mavael non era reale?” Gli domandò a bruciapelo, troppo sorpreso per essere arrabbiato. Credeva di essere bravo a riconoscere le illusioni.
“Oh, no, era molto reale.” Negò Raerlan, togliendo il braccio dalle spalle di Daren. Anzi, discretamente si preparò a scappare, nel caso si fosse reso necessario. “Ma quel bambino era… lui non è più… Mavael è morto cinque anni fa.” Sganciò la bomba, preparandosi al peggio.
I cinque elfi e il drow si fermarono all’unisono, sbalorditi, e lentamente si voltarono tutti verso l’alicorn. Raerlan capì che per il momento erano tutti troppo scioccati per realizzare il suo inganno, e quindi andare in collera.
“È stata sua madre, Visne, a spiegarmelo. Cinque anni fa, il clan Gysseghymn aveva un problema ai suoi confini occidentali: una congrega di Streghe Verdi… o per meglio dire, di Megere Verdi, si era insediata in una piccola valle e stava deviando il torrente per trasformare quel luogo in una palude. I ranger sono riusciti a scacciarle, ma prima di andarsene per sempre quelle perfide creature hanno voluto vendicarsi. Hanno avvelenato il pozzo più vicino ad un villaggio, ed era il villaggio di Filvendor. Sua moglie Visne, il piccolo Mavael e alcuni altri sono morti in modo… doloroso, ma quasi immediato. La… la rapidità della morte ha permesso agli elfi di capire che il problema era il pozzo, ma ha anche reso inutile qualsiasi cura. Filvendor ha perso tutta la sua famiglia quel giorno.” Raccontò, in tono sempre più triste. “Gli spiriti di Visne e Mavael non sono riusciti a passare oltre e a raggiungere la beatitudine di Arvandor, perché il loro amato marito e padre era troppo sconvolto, ferito e depresso. Gli sono rimasti accanto, ma senza poter fare niente. Lui non li poteva udire. E poi, alcuni anni dopo, Filvendor è stato catturato dai drow. Visne mi ha detto anche questo. Era diventato sempre più imprudente, usciva in pattuglia da solo, era una preda facile e all’epoca non gli importava di vivere o morire. Adesso…” improvvisamente a Raerlan tornò in mente lo spirito del mago drow, che gli aveva indicato i suoi due compagni e poi Filvendor. Finalmente capì cosa avesse inteso dire. Dopo un momento, con lo sguardo ancora perso nel vuoto, riprese a condividere le sue elucubrazioni. “Adesso il suo spirito è ancora ferito, ma in modo diverso. Ha subito… tanti, grandissimi torti. È triste e furioso e ha bisogno di guarigione, ma ci vorrà tempo e non è detto che riesca a trovarla qui. Per cui… bisogna lasciargli il suo tempo, e non bisogna parlargli di Mavael. Lo farò io. Gli dirò… gli mostrerò gli spiriti dei suoi cari, lo farò parlare con loro, e forse acconsentirà a lasciarsi aiutare.”
Il suo racconto terribile si spense nell’ostinato mutismo dei suoi compagni. Alla fine fu Daren a prendere la parola per primo.
“È una storia immensamente triste.” Ammise. “E visto che stiamo parlando di Filvendor… io non penso che dovrebbe essere costretto a vedermi. Il mio aspetto gli ricorderà sempre i suoi carcerieri, e non voglio fargli rivivere quel dolore, nemmeno con la memoria. Possiamo arrangiare le cose in modo che mi stia lontano?”
“Ora penso che dovremmo andare tutti a Myth Dyraalis.” Propose Tazandil. “Filvendor ha bisogno di assistenza e di sentirsi in un luogo protetto, Pilindiel ha perso una mano, e inoltre Merildil, Mastro Wilhik e Solaias vivono lì. E tu… tu, Daren, hai tante cose da discutere con i nostri capi clan. Dobbiamo organizzare quella spedizione esplorativa per vedere cosa i drow avessero portato con loro, dobbiamo capire cosa ci facessero qui, e pianificare le prossime mosse.”
“Ma io non posso entrare a Myth Dyraalis, è la… la vostra città, giusto? Un luogo segreto, protetto. Io non sono uno di voi.”
“Non è una città di soli elfi. Anche una comunità di gnomi vive lì, e in passato alcuni umani e mezz'umani sono stati nostri amici e alleati.”
“Ma… portare un drow all’interno di una città protetta non scatenerà il panico?” Insistette lui.
Tazandil si passò una mano dietro la testa, una dimostrazione di grande incertezza da parte sua. “Verrai disarmato.” Cercò di tranquillizzare entrambi, affermando l’ovvio. “E non verrai condotto subito in città. Prima andremo io, Merildil, Filvendor e alcuni altri. Così quel poveretto non dovrà vederti, e noi potremo preparare il campo tranquillizzando la cittadinanza. Poi arriverai anche tu, fra qualche giorno, magari con Johlariel.”
“Johlariel sarà arrabb…”
“È un problema tuo.” Tagliò corto Tazandil. “Ho ben altre cose di cui preoccuparmi.”
Daren sospirò, gettò uno sguardo mezzo disperato a Raerlan e ripresero il cammino. Più tardi, quando erano quasi arrivati alla radura, l’elfo scuro prese discretamente da parte l’alicorn, che reagì in modo piuttosto nervoso a quella manovra.
“Ah… Daren, amico… mi dispiace di non averti detto…”
“Stai zitto.” Soffiò il drow. “Non fare il codardo manipolatore, sei meglio di così, razza di giullare.”
Raerlan sollevò un sopracciglio, sorpreso per quell’approccio. Percepiva che Daren era irritato, ma… forse non per il motivo che credeva lui.
“Ascoltami bene, non avevi bisogno di mentirmi su Mavael. Pensi che non sarei andato a liberare Filvendor, se non avessi pensato che aveva un povero tenero bambino di cui occuparsi? L’avrei fatto comunque, razza di idiota! Ma non sono arrabbiato per le tue menzogne.”
“Ah… ah no?”
“Non sono io quello a cui è morta la famiglia e che è stato torturato per un anno. Non credo di avere il diritto di essere arrabbiato per qualcosa, non gira tutto intorno a me. Ma sai cosa? Non mi avresti proposto questa missione se non ti fossi fidato di me almeno un po’. Forse non ti fidi tanto quanto dimostri, e mi dà fastidio che tu faccia l’amicone quando invece non hai piena fiducia in me, ma hai comunque investito su di me e sulla nostra amicizia abbastanza da manipolare le cose per farmi entrare nella foresta, e hai fatto in modo che queste persone scendessero a salvare… Filvendor, ma anche me. Hai tirato i fili per far sì che facessi bella figura agli occhi di Tazandil, di una importante druida e di un chierico. Ora, se tu fossi un drow ti chiederei qual è il tuo secondo fine, magari tenendoti in punta di spada. Ma sei un maledetto unicorno…”
“Un alicorn!”
Daren lo afferrò per il coppino e gli diede uno strattone portando le loro teste ancora più vicine, in modo che potesse sussurrare senza farsi sentire dagli altri.
“Un maledetto figlio di un ronzino magico e di uno scopaghiande, quindi mi dirai la verità perché te la chiedo per favore.” Sibilò in tono così minaccioso che Raerlan realizzò per la prima volta, completamente, che Daren era pur sempre un drow. “Qual è il tuo secondo fine?”
“Sono un alicorn.” Tornò a ripetere Raerlan, come se quella fosse una risposta. “Non ho un secondo fine. Sono una persona buona e voglio che i miei amici vadano d’accordo fra loro.”
“Ah, ed è tutto qui?”
Lo sciamano esitò, titubante. Daren allentò lentamente la presa sulla sua nuca.
“Be’... mi prenderai in giro a morte se te lo dico.”
“No. Lo prometto.” Lo incoraggiò Daren. “Non ti prenderò in giro, dimmi pure tutta la verità.”
“Ecco…” Raerlan rallentò, costringendo il compagno a fare lo stesso. “Io a volte ho delle sensazioni. Non sono premonizioni, sono… emozioni, ma riguardano il futuro. E su di te ho una buona sensazione. Credo che potremmo… potenzialmente… essere amici per sempre.” Ammise, con un filo di voce.
Daren lo lasciò andare, abbassando lentamente il braccio. Lo guardò in silenzio, a occhi sgranati, per qualche secondo. Poi gli scoppiò a ridere in faccia.
“Pah! Ahahahah! Amici per sempre? Ma certo, andremo insieme alle fiere e ti comprerò i bastoncini di zucchero.”
Raerlan incrociò le braccia, offeso.
“Poi ci scambieremo i diari segreti e prenderemo il tè con le bambole.”
“Sei proprio un cretino.” Masticò l’alicorn a bassa voce.
“Come facciamo a diventare amici per sempre? Dobbiamo giurare intrecciando il mignolino?” Lo prese in giro il drow, senza pietà.
“Il mignolino è per fare pace, bifolco ignorante.” Ribatté il biondo, in tono glaciale. “Avevi promesso di non ridere.”
“Sono un drow.” Gli ricordò Daren, rimettendosi in cammino per non restare indietro rispetto al gruppo. “I drow mentono.”
“Ma! Non puoi essere un drow solo quando ti fa comodo!” Protestò Raerlan, velocizzando il passo per restargli a fianco.
“Certo che posso. Sono un drow. I drow sono opportunisti.”
L’alicorn si fermò, perplesso, poi scosse la testa con un sorriso. Non riusciva a capire del tutto Daren. Era troppo assurdo. Ma se la sua sensazione era giusta, non c’era alcuna fretta.

           

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Capitolo 26
*** 1287 DR: Il loro tempo ***


1287 DR: Il loro tempo


Il gruppetto di Tazandil raggiunse la radura dove gli altri si erano accampati, e potendo finalmente vedere le stelle, l’esperto ranger giudicò che fosse da poco passata la mezzanotte. Qualcuno aveva eretto una specie di casetta. Certamente il mago, ah, benedetti gnomi, pensò Tazandil alzando gli occhi al cielo. Ma il piccolo Wilhik aveva diritto a un po’ di comodità, dopo tutto quello che aveva fatto per loro.
Johel era sul tetto a fare la guardia. Allarmato dai rumori (di Raerlan, il ranger più goffo di Sarenestar) si era alzato in piedi e aveva già l’arco in tensione, ma si rilassò immediatamente quando vide che si trattava dei suoi compagni.
Il giovane elfo non poté fare a meno di sorridere, vinto dal sollievo. Suo padre era vivo, i suoi amici erano vivi, nessuno era rimasto indietro. Era perfino felice di rivedere Daren; non l’avrebbe perdonato facilmente per essere partito per quella missione senza dirgli nulla, ma... aver già affrontato i suoi stessi demoni interiori l’aveva lasciato stanco e molto più tranquillo, aveva prosciugato le sue forze e la sua rabbia. Inoltre, buona parte di quella rabbia veniva dalla paura di non rivedere più i suoi compagni, e dalla vergogna per i suoi sentimenti contrastanti. Ora che entrambe quelle questioni erano superate, anche la collera si era quietata.
Daren decise di rimanere ai confini della radura, non tanto per evitare Johel ma per non farsi vedere da Filvendor. È vero che lui e l'elfo dei boschi avevano già passato molto tempo insieme, ma era diverso: poche ore prima il ranger era prigioniero e aveva bisogno del suo aiuto per fuggire, quindi era costretto a sopportare la sua presenza. E poi si trovavano sottoterra, in un luogo che già di per sé Filvendor associava alla schiavitù e al dolore; in quel contesto Daren era stato forse il minore dei mali. Ma trovarsi un drow in casa propria, nella foresta che per lui rappresentava un luogo sicuro, era tutt’altra faccenda.

Per gli elfi di Sarenestar, riunirsi ai propri compagni fu un momento molto commovente. Non erano persone molto espansive, d’abitudine, ma erano appena sopravvissuti ad una prova durissima, una missione eroica che non tutti pensavano di poter tornare a raccontare.
Raerlan era quello che aveva meno dubbi di tutti, fin dall’inizio. Sapeva di non essere onnipotente, ma aveva sempre creduto di poter essere un valido aiuto per i suoi compagni.
Quindi sorrise, dispensò pacche sulle spalle, trovò una parola di lode per tutti, ma non si lasciò trascinare dall’emozione; il suo dovere non era ancora terminato. I guerrieri avevano fatto la loro parte per liberare Filvendor, ora toccava a lui. Doveva conquistare la sua fiducia, per liberarlo dalle ultime catene: quelle nella sua mente.
Raerlan era uno sciamano, ma anche un guaritore. La fragilità dei mortali era sempre stata un grande cruccio per lui. Imparare l’arte della guarigione era stata una naturale conseguenza delle sue pratiche da sciamano. Coniugando le sue abilità, forse sarebbe riuscito ad aiutare Filvendor: era necessario guarire il suo corpo, la sua mente e la sua anima.
Merildil aveva già iniziato a prestargli le prime cure, e si era comportata bene; un corpo così tormentato non sarebbe tornato in forma solo con qualche incantesimo che chiude le ferite. Quel tipo di magia poteva andare bene per metterci una pezza, per restituire un po’ di energie in caso di emergenza, ma la guarigione vera è un’altra cosa. La druida sicuramente lo aveva intuito, per questo aveva lasciato che Filvendor dormisse qualche ora e poi aveva iniziato a dargli degli infusi ricostituenti. Raerlan però sapeva che non era abbastanza. Il corpo del povero elfo avrebbe sentito lo spettro del dolore, a volte, senza motivo. La sua mente l’avrebbe ingannato con incubi e allucinazioni, probabilmente per anni, per decenni. Ma il dolore del corpo era un’illusione creata dalla mente, e il dolore della mente era anch’esso un’illusione, causata dalle ferite dell’anima.

L’elfo era seduto per terra, con la schiena poggiata alla casetta di Wilhik, e guardava le stelle con occhi colmi di meraviglia. Era come se le vedesse per la prima… no. Era come se le vedesse dopo un anno di prigionia. Che è molto più emozionante che vederle per la prima volta. Aveva l’aria di una creatura fragile che non dà più nulla per scontato.
“Ti saluto, Filvendor.” Raerlan lo chiamò a bassa voce, sedendosi al suo fianco.
Il ranger staccò a fatica lo sguardo dal cielo stellato, spostandolo sulla persona che l’aveva chiamato. Gli sembrava ancora così strano udire il suo nome.
La voce era gentile, ma apparteneva a qualcuno che l’elfo non conosceva. Oh, aveva sentito parlare di Raerlan, certamente; gli alicorn sono creature rare, dalla reputazione ambigua. Di indole buona, sono famosi per mettersi spesso al servizio dei più nobili ideali, eppure di solito sono snobbati dagli elfi per via dell’amore proibito fra i loro genitori.
“Ti saluto… amico. Perdonami, il tuo nome mi sfugge.”
“Raerlan.” Si presentò il nuovo arrivato, con un sorriso aperto e cordiale. “Sono ospite del clan Arnavel da molti anni, ma non mi reco spesso nel vostro territorio, quindi non ci siamo mai incontrati.”
Filvendor annuì lentamente, poi spostò lo sguardo da lui agli altri elfi alle sue spalle, intenti a pianificare le prossime mosse. I suoi occhi si velarono di lacrime, senza che riuscisse ad evitarlo.
“Il clan Arnavel.” Ripeté lentamente. “Come gli altri, giusto? Appartenete tutti a quel clan. E siete venuti a rischiare la vita per me. Io vi sarò eternamente grato ma… devo saperlo. Ti prego, buon Raerlan, dimmi la verità: cosa ne è stato del mio clan? I drow lo hanno distrutto?”
La domanda prese completamente in contropiede l’alicorn.
“No, niente di simile. I drow hanno fatto in modo di tenerci all’oscuro della loro esistenza, non hanno fatto nulla che potesse attirare l’attenzione… tranne catturare te. I tuoi parenti…”
“Non ho parenti.” Lo interruppe Filvendor. “Ero figlio unico, la mia famiglia è morta, i miei genitori sono morti molto tempo fa e nel clan ho solo dei cugini. È per questo che non sono venuti loro a liberarmi?” Domandò, in tono amaro. Non era sua intenzione recriminare, ma aveva appena realizzato quanto si sentisse abbandonato.
“Loro ti hanno cercato per mesi.” Raccontò il suo nuovo amico, a bassa voce, in tono quasi di scuse. “Immagino che ad un certo punto ti abbiano dato per morto. Ma non hanno mai saputo che eri prigioniero nel sottosuolo. Quando noialtri lo abbiamo saputo, abbiamo agito subito, non c’è stato tempo di coinvolgerli o consultarli. Ti prego di credermi, amico mio, se avessero saputo che stavamo venendo a salvarti certamente avrebbero voluto venire con noi. Ma Tazandil preferiva avere ai suoi comandi un gruppo ristretto, persone abituate ad agire ai suoi ordini e ad obbedire senza mettere in dubbio le sue scelte. Questo non sarebbe stato possibile con i ranger di un altro clan, visto il grado di autonomia che giustamente ci separa.” Tentò di spiegare, anche se quelle argomentazioni gli sembravano vuote davanti al dramma personale di Filvendor.
Lui tacque per un lungo momento, e Raerlan pensò che le sue spiegazioni gli fossero sembrate solo delle scuse macchinose.
“Lo capisco.” Disse infine l’elfo, sorprendendolo. “Era questione di vita o di morte, non ci si possono permettere errori quando si combatte contro dei drow.” Ammise, dimostrando grande senso pratico.
Raerlan fece per posargli una mano sulla spalla, ma poi pensò che forse non avevano abbastanza confidenza per un contatto fisico. Abbassò la mano lentamente, e decise di esprimere ciò che sentiva attraverso le parole.
“Sono ammirato per la tua lucidità, sei incredibile. Devi avere una grande forza interiore.”
Filvendor sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto asciutto.
“Ironico. Lo dicevano anche i drow. Per non avermi spezzato del tutto.” Commentò. “Eppure io non mi sento così forte. Un tempo pensavo di non avere alcuna ragione per vivere, dopo che la mia famiglia è morta io mi sentivo come un guscio vuoto e niente aveva senso, il cibo non aveva sapore, il sole non mi scaldava. Ma… tutto quel tempo in mano ai nemici mi ha cambiato. Non so se in meglio o in peggio, una parte di me è debole e vorrebbe solo cancellare la memoria di tutto ciò che è successo nell’ultimo anno, negli ultimi cinque anni. Ma ora che è tutto alle spalle, ora che… non lo so. Sono diverso. Non so perché voglio vivere, ma lo voglio. Forse è solo per ripicca.”
“È meraviglioso che tu voglia vivere. È uno splendido punto di partenza. Avrò bisogno di questa tua forza, e ne avrai bisogno anche tu per sopportare quello che sto per dirti. Io posso aiutarti a guarire. Ma dopo tutto quello che ti è successo, la guarigione non sarà senza dolore.”
Filvendor lo guardò senza capire, senza riuscire a mettere a fuoco le sue parole.
“Che vuol dire, aiutarmi? Mi avete liberato. Che altro c’è da fare? Io soffrirò per quello che ho perso, perché è quello che succede quando perdi qualcuno che ami. E non ho perso solo la mia famiglia, ma anche me stesso. Il Filvendor felice e completo di cinque anni fa non esiste più. Vivrò con il rimpianto e la paranoia per sempre, e lo accetto, perché comunque io vivrò. Non passerà più un solo giorno senza che io benedica il calore del sole, non passerà una sola notte senza che io alzi lo sguardo sulla meraviglia del cielo stellato.”
“E magari cercherai di nuovo la felicità?” Propose Raerlan.
“Mai!” Filvendor scosse la testa, e nonostante la sua parziale guarigione l’alicorn vide che c’era un vuoto nei suoi occhi, nel suo cuore. “Fa troppo male quando si spezza.”
“Fa così male perché ne vale la pena.” Raerlan gli sorrise con tenerezza, ma anche con tristezza. Quel discorso gli aveva riportato alla mente tutte le persone, gli amici, che aveva amato e perso nel corso dei lunghi millenni della sua vita.
“Il mio cuore si poteva rompere una volta sola.”
“Io posso aiutarti ad aggiustarlo.” Gli propose Raerlan. “Ma solo se lo vuoi anche tu, e per volerlo devi essere forte. Sentiti libero di darmi un pugno, perché ho la pellaccia dura, ma hai il diritto di saperlo: tua moglie e tuo figlio non vorrebbero vederti infelice per sempre. Anzi… non lo vogliono. Io lo so.”
Filvendor trattenne violentemente il respiro, una reazione viscerale a quelle parole, ma Raerlan l’aveva messo in conto. Il ranger chiuse e riaprì i pugni un paio di volte, e lo sciamano si chiese se non stesse per approfittare di quell’offerta di dargli un pugno.
Alla fine, con la solita lucidità e controllo, Filvendor si rilassò. Raerlan riconobbe lo sforzo, e improvvisamente comprese che quella lucidità, quel raziocinio, era la barriera di vetro che stava impedendo alle sue emozioni di esplodere e devastare la sua psiche.
“Tu non li conoscevi.”
“È vero.” Ammise lui. “Non ho avuto la fortuna di conoscerli, non come te, quando erano vivi e le loro anime erano libere di maturare, di cambiare, di essere fallibili. Ma li conosco adesso. Io sono uno sciamano, parlo con gli spiriti. Coloro che sono oltre la vita acquistano una grande saggezza, e Visne me lo ha detto; vederti infelice, tormentato, le spezza il cuore. E Mavael, che bambino splendido e coraggioso, lui…”
Questa volta Filvendor scattò. Erano entrambi seduti a terra, ma riuscì a lanciarsi su Raerlan e ad afferrarlo per il bavero della casacca.
“Provalo!” Gli gridò in faccia. “Non parlare di loro se sono solo vuote menzogne! Non ho bisogno di essere rassicurato, o convinto da un imbonitore!” Allentò la presa e permise a Raerlan di allontanarsi un pochino, ma non lo lasciò andare. “Se davvero i loro spiriti parlano con te, se non sono andati in pace verso il nostro paradiso ad Arvandor, allora voglio che parlino con la loro voce, non con la tua!”
L’alicorn posò le mani sui pugni di Filvendor, ma non lo costrinse a lasciarlo. Era solo un contatto per trasmettergli la sua vicinanza. Poi annuì, mantenendo il contatto visivo.
“Sì. Ti farò parlare con loro. Sono sincero, Filvendor. Tutti noi vogliamo solo il tuo bene.”
Lentamente, l’elfo riacquistò la calma. Alla fine lasciò andare Raerlan. Se lo sciamano aveva qualcosa da mostrargli, se almeno una parte del suo racconto era vera, allora lui era ansioso di averne la prova.

Filvendor non ne capiva nulla di rituali sciamanici, ma prese nota di una cosa: Raerlan non aveva cercato di fargli assumere sostanze strane. L’elfo si era aspettato che fosse tutto un’impostura, che sarebbe stato indotto ad avere allucinazioni e visioni, con la scusa di proiettare la sua mente in un diverso stato di coscienza o altre baggianate fumose.
Invece il rituale dell’alicorn assomigliava molto a quello che avrebbe potuto fare un mago, cioè, non nella forma, non aveva nulla dell’ampollosità della magia arcana… ma negli effetti. Li richiamò nel mondo reale. Visne e Mavael, in piedi davanti a lui, reali come lo era lui. Raerlan aveva versato il suo sangue sulla terra per ottenere quel risultato, prestando una parte della sua energia vitale ai due spiriti che solo lui poteva vedere. Così erano diventati corporei, come quando Mavael era comparso per parlare con Daren poco più di due giorni prima.
Poter riabbracciare i suoi cari fu un’esperienza sconvolgente, surreale. Filvendor non aveva mai immaginato che fosse possibile. Tra gli elfi il concetto di resurrezione non è universalmente approvato, molti vedono la cosa come un atto innaturale, un atto di egoismo quasi, perché ci si aspetta che dopo la morte le anime vadano in pace ad Arvandor o in qualche simile paradiso. Solo i guerrieri a volte vengono resuscitati, e la cosa è vista come un’estensione del loro compito, un atto di abnegazione e di senso del dovere: tornano, per continuare a proteggere il loro popolo. Allo stesso modo, l’idea di non disturbare le anime dei morti si estende anche a pratiche come le evocazioni e le divinazioni.
Il caso di Visne e Mavael era diverso, perché quelle due anime non erano in pace.
Erano elfi, consapevoli (perfino il bambino) dell’importanza dei cicli naturali, e nessuno di loro per sua indole sarebbe mai diventato un non morto, uno spettro; però l’amore per Filvendor li aveva trattenuti, e il dolore di lui li aveva legati. Non potevano andarsene, fintanto che lui sentiva così acutamente la loro mancanza.
Riuscirono a dirglielo. Fra gli abbracci e le lacrime, riuscirono a farglielo capire. Nessuno dei due l’avrebbe considerato un tradimento, se lui avesse trovato di nuovo la felicità. Anzi, la cosa li avrebbe resi liberi. Un giorno si sarebbero ritrovati tutti, ad Arvandor. Ma prima Filvendor avrebbe vissuto la sua vita.
L’elfo strinse forte fra le braccia quella donna che aveva amato così tanto, che non l’aveva abbandonato, che aveva trovato il modo di chiedere aiuto per farlo liberare dalla prigionia.
“Non puoi lasciare che restino, vero?” Domandò, con le lacrime agli occhi. Raerlan sussultò; non pensava nemmeno che Filvendor si ricordasse della sua esistenza, in quel momento.
“Questa è una concessione temporanea.” Gli sussurrò Visne, accarezzandogli una guancia. “Uno sciamano sacrifica una parte della sua energia vitale per donare consistenza ad uno spirito. Non puoi chiedergli questo sacrificio. Il nostro tempo viene sottratto alla sua vita.”
Filvendor abbassò lo sguardo, sconsolato.
“Oh, al diavolo!” Sbottò Raerlan, mettendosi in mezzo fra i due. “Visne, Mavael, voi volete restare?”
I due rimasero momentaneamente confusi, senza parole.
“Be’... sì.” Ammise Mavael. “Io non so cosa c’è oltre, ma qui c’è il mio papà.”
Spostarono tutti lo sguardo su Visne. Lei esitò. Le anime dei viventi possono permettersi di essere egoiste e fallibili, ma chi è già al di là della morte...
“Non possiamo chiederti questo.” Ripeté, pacatamente. “Quanti anni…”
“Ne ho a sufficienza.” Le assicurò Raerlan. “Sono anni di vita potenziale, e potenzialmente potrei vivere fino a vedere questo mondo seccarsi e andare in pezzi. Ma il vostro amore vale più di un simile spettacolo, no? Chi vuole vedere un mondo senza vita?”
“È… è possibile? Veramente possibile?” Pigolò Filvendor.
“Sì, diamine, sì, è possibile. Oh, nessuno sciamano l’ha mai fatto, ma nessuno era me.” Batté le mani, in tono deciso. “Ma sarebbe molto più facile una resurrezione, sapete?”
“A me non interessa molto, tornare vivo, rimettermi in gioco, cambiare… dimenticare tutto quello che sono stato fino ad ora.” Mormorò Mavael. “Sarebbe come perdere un pezzo di me. Tornare ad avere tutti i limiti della mia età e del mio sviluppo mentale. A me piace essere… espanso.” Spiegò. Un discorso che Filvendor non riuscì a comprendere, ma Visne sì.
“Sono d’accordo con Mavael.” Annunciò lei, pacatamente. “Quando ci si trova in uno stadio spirituale, come noi, le limitazioni della carne appaiono come una prigione. Non è solo l’essere corporei, anche ora lo siamo. È come se… avere un cervello stabilisse dei confini a ciò che il pensiero può raggiungere. È un mezzo necessario, ma anche una limitazione. Noi non vogliamo una seconda possibilità, non vogliamo rinunciare alla strada percorsa finora. Vogliamo solo poter aspettare Filvendor standogli accanto giorno dopo giorno.”
“E sia.” Concesse Raerlan. “Ma dovete capire le condizioni: in quanto spiriti, anche se corporei, non avrete mai bisogno di mangiare, dormire, respirare. Mavael, tu non crescerai mai, resterai un bambino. E tu, Visne, non potrai avere altri figli. Ne vale la pena? Essere immobilizzati in un eterno istante, come un quadro che si muove e parla, un costante monito per Filvendor del fatto che la morte aspetta tutti voi? Così ci sarà sempre tristezza, accanto alla gioia.”
“Ho vissuto per mesi con lo spettro della morte imminente.” Intervenne il ranger. “Non ho bisogno di nulla che me lo ricordi. E preferisco il futuro che ci prospetti, piuttosto che vivere ogni giorno nella paura che i miei cari muoiano di nuovo.”
Raerlan si strinse nelle spalle. La decisione spettava a loro.
Non era un metodo ordinario di procedere, non era esattamente sano, ma perché bisognava sempre seguire le regole? Perché doveva costringere Filvendor a vivere di nuovo il suo lutto e costringerlo a guarire in fretta, quando poteva restituirgli la sua famiglia e lasciare che fossero loro a guarirlo? Che decideva che cosa era giusto e cosa no?
“Allora vivrete finché vive Filvendor.” Sancì, e le sue parole vibrarono di potere magico. Poi tornò ad un tono di voce normale. “Per me non è un problema concedere a ciascuno di voi… cinque o sei secoli della mia vita, o anche di più; perdonami, Filvendor, non so quanti anni hai.”
“Cinque o sei secoli è una stima generosa.” Ammise lui, con un sorriso sghembo. “Ho già passato i duecento.”
“Ogni tanto vi sentirete osservati.” Preannunciò lo sciamano. “Finché sarete in questa forma, una piccola scintilla della mia anima sarà con voi. Ma non vi starò davvero guardando, è solo una falsa sensazione.”
“E potremo allontanarci?” Domandò Filvendor, a bruciapelo.
Raerlan fu preso in contropiede da quella domanda.
“Allontanarvi? Intendi geograficamente? Sì, certo, potete andare ovunque. Anche io non pianifico di restare qui per sempre.”
“Io vorrei lasciare la foresta.” Ammise Filvendor, cercando con lo sguardo l’approvazione dei suoi famigliari. “Questo posto ormai per me è solo teatro di brutti ricordi. Vorrei… andare in un luogo sicuro.”
Quelle parole caddero nel silenzio, mentre tutti e tre gli altri confrontavano l’idea di luogo sicuro con le recenti disavventure di Filvendor.
“Oh, sì. Sì, ha molto senso. Ti consiglio Evermeet. È stata fondata apposta.” Gli ricordò Raerlan.
Filvendor annuì, concordando con la sua valutazione. L’isola incantata di Evermeet era famosa per accogliere qualsiasi elfo, tranne i loro cugini oscuri. Chissà, forse avrebbero accolto anche elfi già mutati in spiriti. Un luogo di tali meraviglie doveva essere abitato da grandi incantatori, abituati a cose anche più strane.
Evermeet. Un nuovo inizio. L’ultimo porto sicuro.

           

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Capitolo 27
*** 1287 DR: Il loro futuro ***


1287 DR: Il loro futuro


Daren se ne stava seduto sulle radici di un albero, chiedendosi come facessero gli elfi a star seduti sulle radici e trovarle comode. No, ci doveva essere qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel vivere in una foresta. Forse respirare la stessa aria di tutti quegli alberi faceva strani effetti al cervello. Si spostò leggermente, trovando una posizione un pochino migliore.
O forse in realtà era solo nervoso. Come si era lasciato convincere a farsi portare a Myth Dyraalis? Non era il suo posto. Ci erano voluti vent’anni anche solo per far accettare la sua presenza nella foresta, insieme alle pattuglie dei ranger. Ma andare in mezzo ai civili? Una follia.
Tazandil e alcuni altri l’avevano preceduto. Il vecchio ranger, la druida, lo gnomo e quel loro chierico supponente si trovavano in città già da tre giorni. Anche Filvendor e la ragazza ranger, quella che si vociferava sapesse fare cose folli con arco e frecce. Con lui erano rimasti solo Johel e il suo scontroso amico Nelaeryn.
Raerlan per qualche motivo sembrava sparito nel nulla.
Era in missione segreta da qualche parte? Tazandil lo aveva bandito dalla foresta per le sue menzogne? Daren non lo sapeva. L’alicorn aveva parlato per ore con Filvendor, poi aveva salutato tutti, aveva augurato buona fortuna a Daren e poi… era andato. Semplicemente, andato via. Una cosa strana, dopo che aveva organizzato l’intero piano, dopo che aveva - non c’è un altro modo per dirlo - manipolato tutti per fare in modo di giungere a quel risultato. Come se Sarenestar e le vicende dei suoi amici fossero la cosa più importante per lui. E poi invece se n’era andato, come se tutti loro non fossero altro che una singola pagina della sua vita.
Daren non se l’era presa. Be’, forse un pochino.
Sì, un pochino sì, perché a causa delle azioni e dei complotti di Raerlan adesso lui si trovava in quella sgradevolissima posizione. Seduto fuori dalla Sala del Consiglio. Dove probabilmente alcuni elfi importanti stavano parlando di lui.
Se ne stava lì, seduto su una scomoda radice, con mille occhi intimoriti che lo osservavano (alcuni di nascosto, ma li sentiva su di sé). Johel era in piedi accanto a lui, ma nessuno dei due aveva voglia di chiacchierare. Sarebbe sembrata una cosa forzata, per rassicurare la gente. E poi nessuno dei due voleva parlare con l’altro. Si erano chiariti, più o meno, ma Johel gli teneva ancora il broncio per la sua decisione imprudente di andare da solo a salvare Filvendor.
Che cosa stavano pensando gli elfi e gli gnomi di Myth Dyraalis? Quanta paura avevano di lui, anche se era disarmato?

Qualcuno non aveva paura. Oh, sì, in realtà l’aveva, ma fingeva di no. I ragazzini. Dopo una mezz’ora di attesa silenziosa fuori dalla Sala del Consiglio, un branco di bambini elfi aveva iniziato sfrontatamente ad avvicinarsi.
Un moccioso che dimostrava nove o dieci anni se ne stava in piedi a circa venti passi da lui, gli altri erano leggermente più indietro. Nessuno di loro gli aveva rivolto la parola, nessuno di loro osava guardarlo. Daren aveva capito il gioco: si erano sfidati a vicenda ad avvicinarsi a lui il più possibile. Nessuno di loro voleva ammettere di avere paura, eppure con quel gioco lo stavano chiaramente dimostrando.
Per ora, il piccoletto moro con abiti troppo grandi stava decisamente vincendo la sfida. Un ragazzino un po’ più grande, forse sui dodici anni, raccolse tutto il suo orgoglio e fece qualche passo avanti, portandosi alla stessa altezza dell’altro. Si scambiarono uno sguardo nervoso. Sollevarono entrambi un piede, per fare un altro passo avanti.
Daren decise che ne aveva abbastanza.

I drow hanno la capacità innata di creare globi di oscurità. Un effetto innocuo, ma tutte le creature di Superficie hanno istintivamente paura del buio. Daren sapeva che avvolgere i bambini nell’oscurità sarebbe stata una mossa meschina e li avrebbe spaventati a morte, quindi fece in modo che la sfera di buio perfetto comparisse nello spazio vuoto fra lui e loro.
Fu comunque abbastanza impressionante. Dal basso dei loro tre o quattro piedi di altezza, i bambini si trovarono davanti quell’enorme parete di oscurità. E loro avevano già un piede a mezz’aria, pronti a cascarci dentro.
Daren non poteva più vederli, ma fu gratificato da un’esplosione di grida infantili. I marmocchi partirono a razzo in tutte le direzioni, urlando per la paura, e corsero a cercare i loro genitori o la sicurezza della loro casa. Anche alcuni elfi adulti si allarmarono per il tafferuglio e corsero a vedere cos’era successo, alcuni ranger misero mano all’arco, ma quelli che avevano assistito alla scena si limitarono a ridacchiare nervosamente. Tranne Johel. Lui stava ridacchiando di gusto, e arrivò anche a tirare una pacca dietro la testa all’amico drow.
“Hai spaventato i bambini.” Lo rimproverò in lingua elfica.
“Diamine, era proprio quello lo scopo!” Rispose a tono Daren, agitando le dita come un prestigiatore. “Preferisco che i vostri bambini continuino ad avere paura dei drow, se non ti dispiace. Il contrario sarebbe molto diseducativo.”
“Oppure ti davano solo fastidio.”
Daren ghignò e fece dissolvere il globo di oscurità con un gesto della mano.
“Una cosa esclude l’altra?”

Johel sapeva che il drow non l’aveva visto. Un altro piccolo astuto aggressore si stava avvicinando lateralmente, per nulla impressionato dall’oscurità magica. L’elfo dei boschi decise all’istante che Daren doveva continuare a non vederlo.
“Hai ragione.” Continuò quella conversazione solo per tenere il focus del guerriero su di lui. “Mi dispiace, non dovrebbero trattarti come se tu fossi un animale raro e pericoloso, ma purtroppo all’inizio sarà un po’ così. La gente non è abituata a te.”
Daren scrollò le spalle.
“Esistono trattamenti peggiori.” Ammise tranquillamente. “Spero comunque di non dover restare a lungo in questa città, mette a disagio sia me che i suoi abi… ehi!”
Il drow abbassò lo sguardo, allarmato, perché qualcosa l’aveva appena afferrato per un gomito. Incontrò gli occhi grandi e curiosi di un bimbetto elfo.
Navar Enlee aveva solo undici mesi. Era troppo piccolo per avere paura.
Daren lo capì all’istante, quando incrociò lo sguardo di quel botolo che era arrivato gattonando. E cominciò, lui, ad avere paura.

“Johel, toglimelo.” Ordinò, con una punta di isteria nella voce.
Il piccolo si aggrappò meglio al suo gomito e usò quell’appiglio per tirarsi in piedi. L’altra manina si appoggiò alla gamba di Daren, e il drow capì con orrore che il marmocchio stava per arrampicarglisi addosso.
“No.” Soffiò il ranger, in tono leggero.
“Non sto scherzando, Johel. Non posso toccare un bambino elfo! Come… qual è la procedura in questi casi?”
“Non abbiamo mai avuto un drow a Myth Dyraalis.” Intervenne una voce femminile e pacata. I due guerrieri si voltarono, e in quel momento videro Merildil uscire dalla Sala del Consiglio. “Non c’è una procedura.”
“Ma di solito” intervenne Johel “non è permesso interferire con le esplorazioni dei bambini piccoli.”
Cosa?
Il piccolo adesso era riuscito a sistemarsi in grembo al drow.
“Oh, sì, è vero.” Rincarò la druida, stando al gioco. “I bambini sono sacri. Sono il nostro futuro, e tu sai quanto poco siamo fertili. Gli deve essere lasciata la possibilità di esplorare.”
Da qualche parte, davanti a loro, una voce di elfa gridò. Un urlo privo di parole, ma colmo di orrore. Daren avrebbe giurato che fosse la madre.
Udì dei passi avvicinarsi, ma non poteva vedere niente perché adesso la testa tonda di un piccolo invasore occupava il suo campo visivo. Daren provò a guardarlo male, sfoggiando la sua migliore espressione minacciosa. Non ottenne nulla.
I passi smisero di avvicinarsi, la voce femminile scambiò alcune rapide frasi con una maschile. Daren capiva l’elfico, ma loro avevano parlato troppo in fretta.
“È tutto perché possano fare esperienza del mondo” spiegò Johel, ignorando completamente la preoccupazione dell’elfa. “Sviluppare la loro naturale curiosità. A meno che non ci sia una situazione di pericolo, non bisogna assolutamente dissuaderli da quello che stanno facendo.”
“E quindi non si può semplicemente prenderli in braccio e portarli via.” Concluse Merildil, annuendo.
Daren si sentì tirare i capelli quando il bambino afferrò la sua treccia per reggersi, e l’altra manina gli si schiaffò in faccia.
“Voi state mentendo, sua madre è terrorizzata, portatelo via… Sta cercando di afferrarmi un occhio!” Protestò. Ora che il piccoletto non gli teneva più il gomito, allargò le braccia cercando di assumere una posa innocua.
“Tranquillo, non ha la forza di strappare un bulbo oculare.” La druida gli diede un’amichevole pacca sulla testa. “È solo un bimbetto.”
“Mi state prendendo per i fondelli! Tutti e due! Siete persone orribili.” Protestò, o almeno ci provò, perché quella manina sulla sua faccia gli stava sfregando vigorosamente una guancia.
Navar smise di smanacciargli la faccia e si guardò il palmo della mano, stupito che non fosse sporco di nero. Poi si guardò intorno e vide Merildil. Le rivolse un sorriso luminoso e alzò le braccia chiedendo di essere sollevato. La druida, ai suoi occhi, assomigliava abbastanza a sua madre.
Lei sorrise dolcemente al bambino, lo prese in braccio al volo prima che si sbilanciasse e cadesse all’indietro, e lo portò dalla sua vera madre.
“Penso che i capi clan abbiano finito di discutere.” Osservò Johel, riferendosi al fatto che Merildil era già uscita dalla sala.
“Spero che all’ordine del giorno ci fosse anche la proposta di cambiare questa stupida legge sui bambini.”
“Quella legge non cambierà mai.” Gli promise l’elfo, divertendosi alle sue spalle. “Devi imparare a rispettare la nostra cultura.”
“La vostra cultura è stupida.”
“La tua faccia è stupida.”
“Oh, sul serio? Prima Raerlan con quella cosa del mignolino, e ora anche tu ti comporti come un moccioso?”
“Quale cosa del mignolino?”
Daren gli fece cenno di lasciar perdere. Stava per aggiungere Te l’ho detto, la vostra cultura è stupida, ma si fermò appena in tempo perché aveva udito dei passi dentro la Sala del Consiglio. Infatti, poco dopo uscirono alcuni elfi dall’aria importante. Daren riconobbe Tazandil e Solaias, anche se il chierico restava nelle retrovie, dietro ad un elfo vestito da sommo sacerdote che probabilmente era il suo superiore.
“Il Consiglio vi riceverà, ora.” Annunciò uno di loro, uno dall’aria importante.
L’elfo dei boschi indossava splendide vesti cerimoniali blu e oro, che sembravano uno strano ma elegante miscuglio fra un abito ed un’armatura. I bracciali erano incisi di simboli che parevano composti da alcune lettere dell’alfabeto elfico intrecciate insieme.
“Io sono lord Fisdril, capoclan degli Arnavel. Tu devi essere Daren. Ti do il benvenuto a Myth Dyraalis, la città protetta. Le stelle brillino sul nostro incontro.”
Il drow si alzò in piedi, stupito davanti a quell’approccio così formale. Non era preparato all’etichetta elfica, con Johel le cose erano sempre state un po’ più… colloquiali. Nel corso degli anni si erano scambiati insulti, minacce di morte e parole di amicizia, ma mai quel genere di convenevoli.
Piegò il busto in un inchino, pensando che fosse un gesto universalmente valido.
“Vi ringrazio. La vostra città è splendida, e spero che la mia presenza non arrechi disturbo.”
“I cittadini erano stati avvisati.” Spiegò lord Fisdril, ma non negò quella supposizione. “Prego, entrate. Abbiamo molte cose di cui discutere.”

La Sala del Consiglio era bella da mozzare il fiato. Sembrava una torre, ma non era costruita con pietra o legno: le sue pareti erano alberi. In qualche modo, gli alberi erano cresciuti così vicini fra loro da poter costituire i piloni portanti di quel luogo. Fra i tronchi era stato fatto crescere un fitto sottobosco, e dove terminavano le siepi cominciavano i rami, abilmente intrecciati fra loro. L’unica cosa che appariva artificiale era lo splendido portone a due ante, ma riflettendoci bene si poteva intuire che una simile architettura non potesse essere naturale: i druidi di Sarenestar dovevano essersi impegnati parecchio per far “crescere” quel palazzo.
Era vasto, ma all’interno sembrava un auditorium. C’erano delle panche sistemate su file a diverse altezze, che giravano intorno lungo il perimetro interno della sala, formando dei gradoni dalla pendenza ripida. A dispetto della vastità del luogo, che avrebbe potuto contenere tutti gli abitanti di Myth Dyraalis e forse anche di più, questa era una riunione per pochi eletti. Daren stava cominciando a distinguere intuitivamente i loro abiti, e contò quattro probabili capiclan, tre sacerdoti, un vecchio ranger scontroso, due maghi gnomi, uno gnomo vecchissimo vestito in modo normale, e… una druida, ora che anche Merildil era tornata.
Ci fu un breve giro di presentazioni e Daren scoprì che la dama che aveva scambiato per un capoclan in realtà era la madre di Johel. Prese nota mentalmente che gli elfi non avevano capi secolari di sesso femminile. Una cosa strana, ai suoi occhi di drow.
Al centro di quell’auditorium c’era una specie di pedana. Su quella pedana, qualcuno aveva portato un tavolo e delle sedie. Daren non sapeva cosa aspettarsi da quell’incontro. Pensava che sarebbe stato interrogato, o qualcosa del genere. Invece si scoprì che gli elfi avevano qualcosa di molto più concreto da offrirgli, oltre a belle parole di accettazione: un lavoro.
Passarono tutto il pomeriggio e buona parte della sera a pianificare le prossime mosse. C’era da recuperare ciò che i drow avevano abbandonato nel sottosuolo, perché la grande cassa di armi che Daren aveva visto poteva essere stata portata lì in preparazione ad un'invasione. Gli elfi non sapevano quanto quell’invasione fosse prossima, ma non volevano lasciare nessuna arma che i drow potessero usare contro di loro, compresi eventuali oggetti magici che erano appartenuti a quel piccolo gruppo di spie. Per fortuna Filvendor non aveva parlato, non aveva rivelato l’ubicazione di Myth Dyraalis.
Daren aveva avuto fin dall’inizio il sospetto che non si trattasse di una semplice prigionia, ma di un vero e proprio interrogatorio. Se quei drow avessero preso un elfo solo per divertirsi, non l’avrebbero tenuto in vita così a lungo. Il fatto che Filvendor avesse resistito per così tanti mesi la diceva lunga sulla sua tempra, e Daren non intendeva ammetterlo ma segretamente era molto impressionato.
Adesso era necessario fare in modo che tutti i suoi sacrifici non fossero vani; bisognava smantellare la base che i vhaerauniti avevano creato. Dopo quel lavoro urgente, il secondo passo sarebbe stato esplorare le gallerie sotto la foresta, di cui gli elfi ignoravano l’esistenza, e mappare tutto il mappabile. Daren poteva mettere a disposizione le sue competenze di esploratore, ma non sapeva nulla del lavoro del cartografo. Di quello si sarebbe occupato il mago gnomo, mastro Wilhik, con l’aiuto di quell’altro gnomo vecchissimo che aveva detto di essere La Memoria. Daren non aveva idea di cosa fosse La Memoria e del perché fosse una persona, ma tutti avevano reagito come se fosse normale, quindi lui aveva scelto di non chiedere.
L’ultima fase del piano era senza dubbio la più rischiosa, e nessuno glie l’aveva imposta. In realtà, nessuno glie l’aveva nemmeno chiesta, ma l’idea era lì che aleggiava come un gigantesco roc nella stanza. Zeerith aveva detto qualcosa come “le nostre comunità sulle montagne”. C’erano dei drow, numerosi drow, che vivevano ai confini di Sarenestar. Questa informazione non era stata divulgata, avrebbe creato solo inutile panico.
“Capisco la vostra preoccupazione.” Daren aveva preso la parola. “Ma presumibilmente sono lì da decenni, forse da secoli, e non se n’era mai sentito parlare finché non hanno rapito Filvendor. D’accordo, stavano cercando di prendere la vostra città, e questo è un atto di guerra, non si può negare. Però, ci sono due considerazioni che voglio sottoporvi…” l’elfo scuro aveva incrociato lo sguardo dei presenti, uno alla volta. “La prima, è che se intendete muovergli guerra non potete farlo alla cieca. Avete bisogno di informazioni sulle loro forze e sull’ubicazione delle loro città. La seconda… ci sono altre cose interessanti che hanno detto. Hanno parlato di una città drow nelle profondità, una città che non è loro alleata. Anzi, è in mano ai fedeli di Lolth. Pare che le sacerdotesse di quel luogo, Guallidurth, abbiano l’abitudine di condurre razzie contro questi vhaerauniti.”
“E quindi?” Tazandil l’aveva fissato con sguardo duro, come se lo sfidasse a dire quelle parole.
Daren lo guardò negli occhi e raccolse la sfida.
“E quindi, se si esclude la sparizione di Filvendor, quanto tempo è passato dall’ultima volta che c’è stata una razzia drow a Sarenestar?”
Le sue parole furono accolte dal silenzio. Silenzio che durò quasi per dieci secondi, finché:
“L’ultima volta fu nell’anno del Pugnale Insanguinato. Secondo il Calendario delle Valli, l’anno 459. Invero, più di ottocento anni fa.” Li informò il vecchio gnomo. La sua voce era come un sussurro, sembrava che nemmeno muovesse le labbra.
Daren cominciò a capire come mai fosse chiamato La Memoria.
“Io conosco le usanze della mia razza. Di solito non passano nemmeno cinquant’anni senza che al mondo di Superficie venga ricordata la sgradita presenza delle città drow sotterranee.” Di nuovo passò lo sguardo su ciascuno di loro. “Non ho nessun interesse a proteggere quella gente, il loro prete Zeerith mi ha quasi ucciso, e il loro culto è nemico del mio. Ma ora vi sto dicendo la verità: distruggere le comunità delle Montagne del Cammino eliminerebbe un comodo cuscinetto fra voi e Guallidurth. Le sacerdotesse di Lolth si sentono in dovere di distruggere gli eretici prima di tutto, nella loro frenesia religiosa.”
“E dovremmo lasciare che i torturatori di Filvendor la facciano franca?” Sbottò un altro dei capiclan, un elfo straordinariamente alto che gli era stato presentato come il rappresentante del clan Gysseghymn. Poco prima quell’elfo lo aveva ringraziato, ma in modo piuttosto freddo. A Daren non importava della sua opinione, tanto più che odiava i ringraziamenti.
“I torturatori di Filvendor sono già morti.” Replicò pacatamente.
“Loro, sì. Ma i mandanti…” insisté l’elfo.
“I mandanti sono una questione da approfondire.” S’intromise Tazandil. “Possiamo parlare di guerra, ma farlo adesso è prematuro. La recluta drow ha ragione. Dobbiamo raccogliere informazioni su di loro.”
“Che, aspetta? Sono una tua recluta, adesso?”
Tazandil gli scoccò uno sguardo di avvertimento.
“Dipende da quante flessioni vuoi fare.”
“Sono una tua recluta.” Decise saggiamente Daren. “E qualunque cosa decidiate di fare… è la vostra foresta. Io vi ho dato la mia opinione, ma questa è la vostra casa e tocca a voi decidere in che modo proteggerla.”
“Non hai finito di darci la tua opinione.” Lord Fisdril appoggiò le mani sul tavolo, spostando le cartine che rappresentavano varie parti della foresta, e fece scivolare quella che ritraeva le Montagne del Cammino sotto gli occhi di Daren. “Una volta che ci avrai procurato informazioni su quei drow, una volta che avremo mappato il sottosuolo, se tu dici che distruggerli sarebbe controproducente… che cosa consigli di fare?”
Daren sostenne lo sguardo di pietra del capoclan degli Arnavel. La cortesia di lord Fisdril faceva supporre che fosse più morbido di suo fratello Tazandil, ma Daren in quel momento comprese a fondo il suo coraggio. Stava considerando la possibilità di lasciar vivere dei drow, dietro consiglio di un drow. Gli stava concedendo un’enorme fiducia, ma in cambio gli chiedeva di avere altrettanto coraggio e di prendersi un’enorme responsabilità.
Daren pensò a quei bambini che avevano paura di avvicinarsi a lui. Se adesso stava sbagliando nella sua valutazione, le loro vite potevano essere a rischio.
“Suggerisco di mantenere una posizione difensiva. Occorre conoscere e padroneggiare le gallerie sotto la foresta così come ne conoscete i sentieri. Il mio consiglio vi potrà sembrare insoddisfacente, ma assaltare degli avamposti drow infiltrandosi in casa loro è la ricetta per una rovinosa disfatta. Al contrario, essere consapevoli della minaccia senza che loro lo sappiano, preparare trappole e chiudere alcune gallerie, pianificare imboscate, questo spezzerebbe le loro fila quandunque decidessero di attaccarvi. Lasciare che si infiltrino qui in casa vostra e poi schiacciarli potrebbe essere l’unico modo per ucciderne un gran numero.”
“E soprattutto lo faremmo solo se fossero loro ad attaccarci per primi.” Osservò il capoclan Gysseghymn, sillabando lentamente e senza nascondere il suo disappunto.
“L’obiezione di Daren però rimane valida.” Intervenne il terzo capoclan, che rappresentava gli elfi della regione meridionale della foresta. “Attaccarli in casa loro sarebbe un suicidio. Siamo abbastanza numerosi da poterci permettere delle perdite?”
L’elfo alto spostò il suo sguardo irato sull’ultimo che aveva parlato. “Tanto non è il tuo clan ad essere il più vicino a quei drow, vero, lord Ailmar?”
“Non sappiamo dove siano, le Montagne del Cammino costeggiano buona parte della foresta.” Rispose quest’ultimo, nello stesso tono freddo.
“Signori, vi prego. Non mi sembra sensato litigare fra noi, con un nemico così pericoloso alle porte.” Lord Fisdril cercò di pacificarli, ma ottenne l’effetto opposto.
“Appunto! Nemici potenti, praticamente sotto i nostri piedi, e noi stiamo qui a discutere come vecchi tremebondi. Tazandil, mi aspettavo che tu appoggiassi la mia linea.”
“Io sono un guerriero.” Rispose lui, irrigidendosi. “Un guerriero con molta esperienza, e non si arriva alla mia età senza aver appreso un po’ di buonsenso. So riconoscere una guerra che possiamo vincere da un’incognita potenzialmente letale. Non mi esprimerò finché Daren non ci avrà procurato maggiori informazioni.”
L’elfo li guardò tutti uno alla volta, soffermandosi in particolare sul drow. Daren capì all’istante che non sarebbero mai andati d’accordo.
“E tutti voi vi fidate di lui.” Sibilò, scuotendo la testa.
“Anche tu hai convenuto che è affidabile.” Replicò Tazandil.
“È stato prima che si rifiutasse di dirci come distruggere i suoi simili!” Quasi gridò.
“Mi sono offerto di andare a spiarli, anche se non è una cosa priva di rischi, nemmeno per me.” Sbottò Daren, al limite della pazienza. “Scusate tanto se non ho una sfera di cristallo.”
Quell’osservazione buttata lì quasi per sfida portò tutti a voltarsi simultaneamente verso Hinistel.
“Oh, non guardate me.” La veggente alzò le mani. “Negli ultimi due giorni ci ho provato. Sono protetti contro la divinazione.”
Posso dirvi come finirà questa conversazione, pensò la dama, abbassando lo sguardo. Ma non lo farò. Diventerebbe una profezia autorealizzante.
“Molto bene, allora.” Il capoclan dei Gysseghymn li guardò con disprezzo per l’ultima volta. “Lord Fisdril, se pensi di avere il diritto di decidere per conto del mio clan, prenditene anche la responsabilità! Guarda in faccia quelle persone spaventate e digli che non intendi fare niente! Che Filvendor, uno di noi, non sarà vendicato!”
Si sganciò una spilla d’argento dalle belle vesti violette e la lanciò sul tavolo, davanti al Fisdril.
“Io, Llaemryl Gysseghymn, rinuncio alla mia carica di capoclan. Nomino lord Fisdril Arnavel mio successore. I due cuori della foresta settentrionale ora sono uno, possano le stelle guidare la tua saggezza, possa il mio popolo esserti caro quanto la tua famiglia.” Recitò, in tono aspro.
Nel clan Gysseghymn era tradizione che la carica di capoclan non si tramandasse di padre in figlio, ma il nuovo capoclan veniva nominato da quello vecchio quando egli era in punto di morte o decideva di abdicare. In caso di morti improvvise o demenza senile si procedeva per votazione. Spesso il successore veniva scelto comunque in seno alla famiglia, ma lord Llaemryl non aveva figli. Era molto tempo che buona parte del suo clan vociferava della possibilità di diventare un protettorato del clan Arnavel, più grande e più potente. Llaemryl era stanco di combattere contro tutto questo, e ora aveva contro gli altri capiclan anche in una questione di vita o di morte.
“Mio caro amico, suvvia, stai esagerando, non dire cose simili mentre sei in collera.” Fisdril cercò di restituirgli la spilla.
“No.” L’elfo alto gli fece cenno con la mano di non avvicinarsi. “Sono stanco, Fisdril, e più vecchio di quanto non sembri. Il mio clan vuole da tempo questa fusione, anche se non me lo hanno detto apertamente perché non volevano rinunciare alla mia guida. Ma io non posso essere in contrasto con il resto della foresta. Fate quello che volete, io mi unirò a Filvendor nel suo viaggio verso Evermeet. Ma sappiate che gli elfi del clan Gysseghymn ora sono una vostra responsabilità.” Minacciò, passando lo sguardo su tutti i presenti. “Se queste scelte da codardi spezzeranno una sola delle loro vite, possa quella morte gravare sulla vostra coscienza e impedirvi di ascendere ad Arvandor.” Concluse, con parole vibranti, come se stesse davvero lanciando una maledizione.

Dopo quell’uscita così pesante, la riunione fu sciolta. Si sarebbero riuniti il giorno dopo per decidere ulteriori dettagli, ma per quella sera erano tutti provati e turbati. L’incombenza di unire due clan poi era solo l’ennesimo compito che si aggiungeva sulle spalle di lord Fisdril.
Daren era un po’ giù di morale per tutto il trambusto che aveva involontariamente causato, e nonostante la sua espressione neutra Johel probabilmente se ne accorse.
“Su, coraggio!” Gli diede un’amichevole pacca sulla spalla. “Sei qui da dieci minuti e hai già causato uno scisma. Pensa cosa potresti fare in un giorno intero!”
Daren gli scoccò un’occhiata velenosa, ma presto il suo malumore cominciò a sgretolarsi davanti al sorriso di Johel.
“Dimmi che non sono stato l’unica causa di questo disastro politico.” Sospirò.
“No, ci sono sempre delle cause pregresse quando succedono queste cose.” Gli spiegò con pazienza l’elfo dei boschi. “Ma se ti fa sentire meglio, è in gran parte colpa tua, sì.”
“Non mi fa sentire meglio!” Sbuffò Daren. “Cretino.”
“Be’, visto che ormai la frittata è fatta, tanto vale che tu sia nostro ospite stanotte.” Lo invitò Johel. “All’inizio mio padre non voleva per non farci sembrare troppo di parte, sai, con la faccenda che lui è il fratello del capoclan. Ma l’alternativa era che tu dormissi nella Casa degli Scapoli, e tutti gli altri avventori sarebbero scappati fuori.”
“E che diamine è la Casa degli Scapoli? Sembra un luogo di malaffare” rise Daren.
“Ah...no. È una locanda fondata da uno gnomo, ma è anche a misura elfica. Serve a coloro che vogliono passare una notte lontani dalla famiglia. Sai… liti coniugali, genitori che rompono…”
“Uh, quindi hai passato lì buona parte della tua giovinezza?” Lo punzecchiò il drow.
“Sono ancora giovane!” Rispose Johel, fingendo di essersi offeso. “E non parlare così di mio padre, visto che dovrà mandare giù il fatto che io ti abbia invitato.”
Daren rise ancora, ma scosse la testa.
“Meglio che mi mostri questa Casa degli Scapoli.”

           

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Capitolo 28
*** 1287 DR: La loro casa ***


1287 DR: La loro casa


Johel e Daren era fermi davanti alla porta del pub noto come La Casa degli Scapoli.
“Dici che mi faranno entrare?” Domandò il drow, esitante.
“Be’... c’è un cartello che proibisce l’ingresso ai cani, alle scimmie - anche se lo sa il cielo che qui non ci sono scimmie - e agli gnomi in monociclo. Non dice nulla sui drow.”
“Per quale motivo solo gli gnomi non possono stare su un monociclo?”
“Non penso che il punto sia l’essere gnomi. Dev’essere il monociclo in sé.”
“Allora la regola non è scritta molto bene. E gli elfi?”
“Daren, so che tu non ci conosci ancora bene, ma nessun elfo farebbe mai una cosa così stupida.”
Il drow fece una faccia perplessa che esprimeva tutti i suoi dubbi.
“Va bene, togliamoci il dubbio.” Poggiò la mano sulla maniglia, ma poi esitò. “Però se dentro ci troviamo un elfo in monociclo, mi paghi da bere.”

Nella Casa degli Scapoli non c’erano monocicli. Né scimmie. C’era un cane, però. O almeno qualcosa di simile a un cane. Assomigliava ad un grosso husky con la coda arricciata all’insù, il suo manto era verde a macchie marroni. Una creatura del genere doveva essere capace di mimetizzarsi molto bene nella foresta, ma non dentro a un edificio di terra e pietra.
Il cooshee se ne stava acciambellato davanti a un caminetto acceso. Alzò a malapena il capo al loro ingresso, ma cominciò a sbattere la coda per terra in segno di benvenuto.
L’ambiente assomigliava a una classica taverna. C’era un bancone sulla destra. In realtà era un doppio bancone, per metà a misura di elfo e per metà a misura di gnomo. Un piccoletto stava pulendo il bancone basso; sarebbe potuto passare per un bambino, se non avesse avuto la barba e una pipa in bocca.
C’era anche un bambino vero, un bambino elfo. Trotterellava in giro per il locale, sulle corte gambette instabili. Daren era sicuro di aver già visto quel bambino, ma ne ebbe conferma quando quello si diresse con decisione verso la porta ancora aperta alle loro spalle. Stava tentando di nuovo la fuga? Johel se ne accorse e richiuse in fretta la porta. Il piccolo arrivò lì davanti, guardò la porta chiusa con aria desolata e cadde seduto all’indietro. Dopo un momento di sconforto, si mise a gattonare nella direzione opposta.
“Non c’era nessun divieto sui bambini?” sussurrò il drow al suo amico.
“Finché non sono in monociclo… giusto? E poi credo che la cameriera sia sua madre.” Ipotizzò, indicando con un cenno del capo l’elfa che si muoveva affaccendata fra i tavoli.
Daren le rivolse una mezza occhiata e decise subito che sembrava un po’ troppo giovane.
C’erano pochi avventori quel pomeriggio alla Casa degli Scapoli. Erano soprattutto maschi, elfi e gnomi, ma c’erano anche un paio di femmine. Molti sguardi si girarono verso di loro, alcuni incerti o vagamente spaventati, ma la maggior parte degli avventori si limitò ad un cenno di saluto.
Una ragazza elfa era salita in piedi su una sedia e stava tenendo banco. Daren riconobbe la ranger che era scesa nel sottosuolo per salvare Filvendor.
“E quindi, capite, io e Nelaeryn non potremo più venire alla Casa degli Scapoli.” Stava dicendo, in tono un po’ ubriaco. “O dovremo farlo uno alla volta!” Questo suggerimento scatenò un coro di risate cordiali.
Gli elfi intorno a lei, che dovevano essere suoi amici, alzarono i calici per congratularsi. Anche la donna alzò il suo - per la verità era un boccale a misura di nano - e metà del contenuto le si rovesciò addosso.
“Pensavo che gli elfi facessero festa in modo un po’ più… più…”
“Pilindiel è un po’ rozza.” Ammise Johel. “Ma è strano per un’elfa, quindi fa parte del suo fascino!”
“Ha sempre avuto due mani?”
Johel gli diede una gomitata nelle costole.
“Certo! Era rimasta ferita durante il combattimento, ma adesso i chierici l’hanno sistemata. Non essere scortese.”
“Regole, sempre regole.” Il drow sospirò con mestizia, massaggiandosi la botta. “Stai diventando come tuo padre.”

Johel e Daren presero posto ad un tavolo un po’ defilato, e dopo pochi secondi la cameriera elfa si avvicinò a loro.
“Buonasera. Io sono Amaryll. Sarò la vostra cameriera per stasera. E… volevo scusarmi per oggi pomeriggio.” Aggiunse, abbassando gli occhi. “Per aver gridato in quel modo. Avrei dovuto capire che… ogni persona invitata in città è una persona degna. Non ho scuse, ma è stato più forte di me.”
Il drow capì che Johel doveva averci azzeccato: la ragazza era la madre della piccola peste. Il bambino l’aveva individuata e ora stava barcollando nella sua direzione, tendendo le braccine in avanti.
“Io sono Daren. Non è necessario che ti scusi, Amaryll. È normale essere apprensivi vedendo il proprio figlio vicino ad un drow.”
L’elfa arrossì leggermente e non rispose, ma il tono tranquillo di Daren non rivelava alcun tipo di rancore.
“Specialmente il primo figlio.”
“Cosa? Come sai che è il primo?” Domandò, stupita.
“Lo so perché sei molto giovane, e perché…” mise una mano contro lo spigolo della sedia, con il palmo rivolto verso l’esterno “non ti viene ancora automatico fare questo.”
Questo cosa?” Rimase a guardarlo perplessa, con il blocchetto degli appunti in una mano e un carboncino fermo a mezz’aria nell’altra.
Il suo prezioso pargolo un momento dopo si appese alla sua tunica, tutto contento di aver raggiunto la madre. Quell’appiglio però non era stabile come pensava, e cadde in avanti. La sua presa sul tessuto gli impedì di rovinare a terra, ma causò un effetto altalena che lo avrebbe portato a sbattere la testa contro lo spigolo della sedia. Invece sbatté contro il palmo della mano di Daren, limitando il danno.
“Oh… oh, no, Navar! Per tutti gli dèi, non riesci a stare buono per cinque minuti?” Si chinò e raccolse il cucciolo ancora scombussolato, tenendolo con un braccio mentre con la mano reggeva il blocchetto di fogli e con l’altra provava a scriverci sopra. Navar vide il carboncino e decise che doveva averlo.
“Non darti pena per le ordinazioni.” Le propose Johel, che aveva pietà di lei. “Vado io a parlare con il signor Tippet al bancone.”
Amaryll rivolse ad entrambi uno sguardo di profonda gratitudine e annuì. Aveva gli occhi un po’ lucidi e l’aria stanca, anzi, sfinita.
Si allontanò verso una porticina secondaria, forse per portare il figlio in qualche altro posto, ma Johel notò che prima di arrivarci molti altri avventori la chiamarono in disparte per farle qualche discreta domanda. Probabilmente sul loro ospite così inusuale. Le loro voci non arrivarono fin lì, ma Daren aveva un’espressione mezza divertita e mezza rassegnata, come se sapesse cosa stava accadendo alle sue spalle.
“Sedie tonde, Johel.” Disse invece, in tono serio. “Sedie tonde. Sono il futuro, te lo dico io.”

C’erano delle stanze alla Casa degli Scapoli, per gli avventori che volevano prolungare la vacanza dalla famiglia per tutta la notte. Daren prese alloggio in uno stanzino pensato per ospitare un elfo; anziché un letto, conteneva una comoda poltrona per la reverie. Era all’ultimo piano, nel sottotetto, perché gli gnomi preferiscono invece restare a contatto con la terra.
In una credenza c’erano alcune boccette che contenevano rimedi per la sbornia, ma Daren era ben lungi dall’essere ubriaco. Il mattino dopo doveva incontrarsi con il capoclan e con Mastro Wilhik, lo gnomo che l’avrebbe accompagnato nelle sue esplorazioni nei cunicoli sotto la foresta. Dovevano decidere gli ultimi dettagli, e poi mettersi in cammino nuovamente verso nord. Johel non l’avrebbe seguito nelle gallerie; il sottosuolo non è posto per un elfo. La razza dei drow aveva impiegato secoli per adattarsi completamente a quella vita. Però l'amico sarebbe rimasto nella zona nord della foresta per le sue regolari perlustrazioni da ranger, e quindi ogni tanto si sarebbero visti. Era previsto che Daren e Wilhik riemergessero a intervalli regolari per fare rapporto… inoltre lo gnomo era una creatura di Superficie, non sarebbe riuscito a rimanere sotto terra per più di qualche giorno.
Questa è una seccatura. Pensò fra sé e sé, infastidito perché quei pensieri gli impedivano di scivolare nella reverie. Non amava ammetterlo, ma era preoccupato. Avrebbe dovuto esplorare zone sconosciute, in compagnia di qualcuno che sapeva a malapena difendersi. Inoltre, esplorare i cunicoli profondi avrebbe richiesto più di qualche giorno. Non sapeva se sarebbe riuscito a collaborare fruttuosamente con il mago.
Alla fine, decise che non avrebbe trovato pace in quella piccola stanza, quindi aprì la finestra e ne uscì, arrampicandosi fino al tetto.

La locanda sorgeva ai piedi di un grande albero, ma non grande quanto gli altri che aveva intorno. Non abbastanza grande da reggere un’abitazione elfica. Ad ogni modo la sua chioma era abbastanza maestosa da coprire il cielo, e come quasi ovunque nella foresta, nemmeno dal tetto della Casa degli Scapoli si vedevano le stelle.
Daren non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma gli piacevano le stelle. La loro luce tenue non lo infastidiva, ed era affascinato dal loro lento movimento. Più del sole e della luna, davano l’impressione che ci fosse molto altro oltre a quella vita, a quel mondo sconfinato su cui camminava. La vita a Menzoberranzan era molto diversa, molto più limitata. Forse le piccole questioni meschine di ogni giorno erano così importanti, prima, perché non aveva idea di quanto fosse vasto l’universo. Forse la mancanza del cielo stellato era uno dei motivi per cui i drow erano così tanto focalizzati sulle loro vite, sulla posizione sociale e sul loro piccolissimo mondo. Perfino i teletrasporti funzionavano male, nel Buio Profondo. Era come se tutto quanto cospirasse per fare di quel luogo una prigione, anche per la mente.
Tuttavia non c’erano stelle da ammirare, quella notte, solo alberi.
Anche questa è una casa. Realizzò, grazie a un’illuminazione improvvisa. Anche questa è una volta, solo diversa da quelle di pietra che si vedono nel Buio Profondo. È un tetto di foglie, perché mi trovo… nella loro casa.
Forse questa sera è un bene non vedere le stelle. Ho bisogno di rimanere concentrato sul qui-e-ora. Mi hanno lasciato entrare nella loro città sacra, e in cambio devo soltanto fare bene il mio lavoro. Dopotutto è per questo che sono sceso sotto terra in primo luogo: questa è la foresta del mio migliore amico, la sua famiglia. L’idea che ci fosse un simile pericolo proprio sotto i loro piedi…
Non era solo per Filvendor. Era soprattutto per scoprire cosa stesse succedendo, era per Johel. Adesso avrò l’opportunità di indagare a fondo, e proprio dietro richiesta degli elfi. Non poteva andare meglio di così.

Daren sospirò, alzandosi dalla sua posizione sdraiata. Rimase un attimo seduto sul tetto, ponderando le sue prossime mosse. Non sapeva quanto mancasse all’alba, la foresta era troppo fitta per vedere se il cielo si stesse schiarendo ad est (e per dirla tutta non aveva idea di dove fosse l’est). Forse sarebbe stato meglio tornare in camera e basta.
In quel momento avvertì un lievissimo rumore alle sue spalle. Avrebbe potuto essere il vento tra le fronde, o un uccello che si posava su un ramo. La Superficie era sempre così piena di rumore, anche di notte. Il suo istinto di guerriero però gli disse di voltarsi.
Dietro di lui, sul tetto della locanda, c’era un elfo.
All’inizio Daren pensò che fosse uno dei ranger che lo tenevano discretamente d’occhio. Non avrebbe dovuto sapere che c’erano, ma ovviamente se li aspettava e li aveva anche intravisti, prima della riunione con i capiclan.
Poi però l’elfo si avvicinò, e nel poco chiarore emanato dalle sue lucine fluttuanti Daren riconobbe i suoi lineamenti.
Era quasi un’altra persona rispetto a pochi giorni prima, ma era Filvendor.

Rimasero fermi a fissarsi in perfetto silenzio per alcuni secondi, l’elfo chiaro e l'elfo scuro, come se fossero l'uno lo specchio dell'altro.
Filvendor fu il primo a riemergere da quella strana immobilità; girò intorno a Daren come se avesse paura di lui, e andò a sedersi a circa un metro di distanza, alla sua sinistra.
“Dovevo parlarti.” Prese la parola, infine, rompendo il silenzio.
Il drow scosse la testa, con un sorriso mesto.
“E chi ti ha obbligato a venire a parlarmi?”
L’elfo dei boschi esitò solo un attimo. “Nessuno mi ha obbligato, ma te lo dovevo.”
Daren odiava quell’espressione. Te lo dovevo. Nella sua idea, un’azione volontaria non implicava debiti, e lui era andato volontariamente a cercare l’elfo rapito.
“Non devi parlarmi per forza. Non devi vedermi per forza. Il tuo senso del dovere è… segno di grande cortesia, ma è mal riposto.” Tacque un momento, perché non voleva dire chiaramente So che vedermi ti mette a disagio, quindi decise di dirlo con altre parole. “Farò in modo di stare lontano dal territorio del tuo clan, per quanto possibile.”
“Non ha importanza. Io non vivrò più lì. Sono in partenza per… un luogo sicuro.”
Oh, è vero. Evermeet, ricordò Daren. L’ex-capoclan, quello che lo detestava, aveva asserito di voler andare a Evermeet con Filvendor.
Ad ogni modo non rivelò che lo sapeva ma si limitò ad annuire.
“Questa foresta… è la casa che io ho sempre amato. Mi ha dato tanta gioia e io le ho dato il mio cuore e la mia vita. Ma adesso mi riporta alla mente solo brutti ricordi, e una costante sensazione di pericolo. Però… non è colpa della foresta. È tutto nella mia mente. Questo disagio che provo, è… è… incontrollabile.”
“Lo capisco.” Il drow chinò la testa in segno di accettazione, perché aveva colto il messaggio fra le righe. Filvendor provava sentimenti simili anche verso di lui, tollerava a stento di stare in sua compagnia, era chiaramente sulle spine. Però era anche ben consapevole che non era colpa sua. Infatti, poco dopo riprese.
“Per questo sono venuto a parlarti. Per scusarmi. Non è giusto. Quello che provo… per te… non è giusto. Tu mi hai salvato la vita, eppure non riesco neanche a guardarti.”
“Hai tutto il diritto di sentirti così, invece.” Lo contraddisse Daren, in tono pacato ma con grande convinzione. “Lo sanno gli dèi cosa hai passato in questi mesi. Io so benissimo che non hai niente di personale contro di me, quindi non sono offeso dal tuo… disagio. Non hai nessun dovere di parlarmi o di scusarti. Se stare qui ti fa sentire in pericolo, allora vai per la tua strada, perché non voglio spaventare nessuno.”
Filvendor abbassò gli occhi, guardandosi con ostinazione i piedi.
“...non è giusto comunque.” Mormorò, cocciutamente.
Nemmeno quello che ti è successo è giusto. Obiettò l'elfo scuro, ma solo nella sua mente.
“Perché ti preoccupi così tanto di quello che è giusto o sbagliato in senso assoluto? Le persone non sono assoluti. I sentimenti non hanno niente a che fare con la giustizia.” Il drow rifletté su quello che stava per dire, perché non aveva una gran voglia di inoltrarsi in quel discorso, ma questa era di certo l’ultima volta in cui lui e Filvendor si sarebbero rivolti la parola. “Sai, ci sono individui che ci tengono a rimarcare di essere brave persone. Come se le parole fossero qualcosa più che vento. In verità, solo le azioni possono rivelare qualcosa sulle intenzioni della gente. Quindi che cosa ti dovrei dire? A volte capita di incontrare una vittima, come sei tu ora.”
“Sono una vittima?”
“So che non è bello sentirselo dire, ma non ha senso negare la realtà. Adesso sei una vittima, almeno finché non sarai guarito nella mente e nello spirito. E non è strano che chi ha subito grandi traumi non riesca ad approcciare in modo normale chiunque gli ricordi i suoi carnefici. Le nostre razze sono nemiche da millenni, ma è una cosa che succede anche in altri casi. Ogni schiavo prova questi sentimenti verso i suoi carcerieri e chiunque glieli ricordi. Ora io mi trovo davanti una vittima della crudeltà del mio popolo, e ho due strade davanti a me: posso riconoscere il tuo dolore e la validità dei tuoi sentimenti, lasciarti in pace mentre gestisci il tuo percorso di guarigione, e fare del mio meglio perché simili tragedie non accadano ad altre persone. Che è tutto quello che ho intenzione di fare a partire da domattina.” Chiarì, tanto per essere esplicito. “Oppure posso recriminare che io personalmente non ti ho fatto del male e che, trattandomi come un criminale, tu, che sei appena uscito dall'inferno, mi stai discriminando e stai urtando i miei sentimenti.” Be’, non lo farei comunque, perché vorrebbe dire ammettere di avere dei sentimenti, pensò in tono scherzoso. Ma Filvendor non era abituato al suo tetro umorismo drow, quindi continuò con la sua linea di pensiero. “Peccato che se assumessi un simile atteggiamento mi verrebbe voglia di prendermi a calci nelle palle da solo. Chi si comporta così nel migliore dei casi è soltanto puerile, nel peggiore dei casi ha un interesse personale e malizioso. Sono un drow, non mi aspetto l'amicizia di un elfo, la tua avversione per me non mi fa né caldo né freddo.”
Il ranger rimase in silenzio a riflettere per un lungo momento, ma quando parlò di nuovo nella sua voce c’era una punta di antico orgoglio.
“Tu mi compatisci.”
“Certo che sì.” Ammise il drow, apertamente e tranquillamente. “Ti rispetto profondamente per la forza che hai dimostrato; qualunque cosa volessero da te, sei riuscito a non dargliela e questo è stato veramente eroico. Però ti compatisco anche, perché conosco la crudeltà del mio popolo. Preferirei morire piuttosto che subire quello che è stato fatto a te. Se le mie parole ti danno fastidio, cerca di guarire la tua anima, allora smetterò di provare compassione perché sarai tornato in te. E se mai ci rivedremo, quel giorno ti dirò…” Filvendor alzò lo sguardo su di lui, e nei suoi occhi Daren lesse più curiosità che rifiuto “...che la tua opinione comunque non mi fa né caldo né freddo.”
Quest’ultima rivendicazione arrogante riuscì davvero a strappare un sorrisetto all’elfo sfortunato.
“Sono già in via di guarigione.” Assicurò, in tono serio. “Mi è rimasta questa irrazionale paura, sono rimasti gli incubi… ma sto già molto meglio, meglio di quanto avrei sperato, e ricominciare da zero in un posto nuovo mi aiuterà a tornare alla vita.”
Daren non sapeva che intendesse farlo insieme alla sua famiglia morta, altrimenti avrebbe colto una certa ironia nella situazione.
“Buon per te.” Disse invece, accennando un saluto con il capo. “Dunque addio, Filvendor del clan Gysseghymn. Le nostre strade si separano, e come dite voialtri… possa il tuo cammino essere verde e dorato.”
L’elfo dei boschi non riuscì a nascondere un’espressione di stupore.
“Ti ha insegnato il tuo amico Johlariel?”
“Mi ha insegnato tutto quello che ora so sulla vostra cultura.” Ammise con una scrollata di spalle. Comprese alcune cose che secondo me sono baggianate che si è inventato di sana pianta, come quella regola sui bambini piccoli.
“Allora questo dev’essere suo, vero?” Domandò Filvendor, estraendo da un fodero il pugnale magico che Daren gli aveva dato giù nelle caverne, quello capace di emettere luce con una semplice parola magica in elfico.
“Sì. No. È mio. Johel me l’ha tirato in testa più di trent’anni fa, il pomello mi ha colpito proprio qui.” Si massaggiò la sommità del capo, come se avesse ancora il bernoccolo. “Ho deciso di tenermelo, perché gli servisse da lezione per la sua pessima mira.”
Il ranger lo guardò stranito per un momento, incapace di stabilire se parlasse sul serio o per scherzo.
“Non… certamente non voleva ucciderti, ti avrà colpito con il pomello di proposito.”
“Sì, è la stessa scusa che ha usato lui. Voi elfi non avete fantasia.”
In condizioni normali Filvendor avrebbe riso, ma non ci riusciva davanti ad un drow. Però riconobbe il desiderio di farlo, e questo gli sembrò un buon segno.
“Lo affiderò a Johlariel, allora. Domattina, prima di partire.” Promise con aria solenne.
Daren annuì, approvando quell’idea. Erano anni che pensava di restituirlo, ma farlo avrebbe significato ammettere con Johel che lui sapeva che l’elfo non aveva cercato davvero di ucciderlo, e quindi sarebbe stato come confessare che già all’epoca era consapevole che c’erano le basi per sviluppare la loro amicizia. Questa era una cosa che Daren si era sempre ostinatamente rifiutato di ammettere, e ora Filvendor gli stava offrendo una buona scappatoia.
Sì, la sua amicizia con Johel era quantomeno complicata. L’amicizia di un drow non può mai essere semplice.
“Ottima idea, tanto io non ho il permesso di portare armi a Myth Dyraalis.”

La mattina dopo, due gruppetti di persone lasciarono la città in direzioni opposte.
Daren, Johel, Valni Wilhik, Tazandil e alcuni altri ranger oltrepassarono la Porta delle Spade, diretti a nord.
Filvendor e lord Llaemryl uscirono dalla città dalla Porta dell’Acqua, a sud.
Dopo poche miglia di cammino, Visne e Mavael si unirono a loro. I due spiriti non avevano osato entrare nella città protetta, perché sapevano che le scelte della loro famiglia non sarebbero state approvate dagli altri elfi. Lord Llaemryl invece non ebbe il cuore di muovere obiezioni. Filvendor e i suoi sfortunati parenti erano elfi del suo clan, e lui li sentiva particolarmente vicini. Non era stato in grado di proteggerli in precedenza, non aveva potuto impedire che la donna e il bambino morissero avvelenati e non era riuscito nemmeno a trovare il ranger quando era stato rapito. In seguito non aveva preso parte al salvataggio, cosa che ancora gli bruciava. Era un capoclan, ma era stato ignorato con la scusa dell’emergenza. E adesso, oh, adesso non avrebbe potuto proteggere più nessuno. Aveva abbandonato il suo clan, e nonostante tutto non rimpiangeva quella decisione. I tempi stavano cambiando, e troppo in fretta per un vecchio elfo come lui. Sentiva di non essere più la persona giusta per guidare il clan Gysseghymn verso il futuro, un domani incerto che forse avrebbe richiesto di rivedere molte delle loro convinzioni e consuetudini.
Però avrebbe protetto e aiutato Filvendor e la sua famiglia, per quanto poteva. A cominciare dal rispettare le loro scelte e il loro segreto, anche ad Evermeet.
Prima di sera raggiunsero un avamposto di ranger del clan Arnavel a sud della città, e si fermarono presso di loro per passare la notte in sicurezza. Entro poche miglia sarebbero entrati nel territorio del terzo clan elfico della foresta, che pattugliava la regione meridionale. Da lì fino al mare era una lunga strada, ma non l’avrebbero percorsa a piedi. Il primo villaggio del clan Teasen'aear sorgeva lungo un piccolo fiume, nel primo tratto in cui esso diventava navigabile. Quegli elfi erano famosi per la loro capacità costruire canoe eleganti e resistenti, adatte a cavalcare i capricciosi corsi d’acqua della foresta. In pochi giorni il gruppetto avrebbe raggiunto la strada che separava orizzontalmente la Foresta di Mir, come la chiamavano gli umani, dalla Palude dei Ragni. Prendendo la strada in direzione est, la città portuale di Almraiven non era molto distante. Era il porto più importante della regione e gli elfi avrebbero sicuramente trovato un passaggio verso il grande oceano ad occidente.
Certo, non sarebbero giunti ad Evermeet su una nave calishita; ma sulla Costa della Spada era più probabile trovare qualcuno dei rari mercanti che avevano ottenuto un permesso speciale commerciare con l’isola elfica. O magari addirittura una nave di elfi. Altrimenti, avrebbero dovuto cercare qualche Portale magico che conducesse direttamente ad Evermeet. Forse ce n’era uno nella favoleggiata città di Evereska, nel nord. Così dicevano le leggende.
Ad ogni modo, a nessun elfo di Superficie era precluso l’accesso ad Evermeet. Prima o poi anche quei quattro esuli avrebbero trovato il loro porto sicuro. La loro nuova casa.

           

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Capitolo 29
*** 1287 DR: La loro caccia ***


1287 DR: La loro caccia


Il negozio era un posto abbastanza di lusso, con un tendone blu e argento che si apriva sulla strada e ben due guardie nerborute all’entrata. I due omaccioni non mossero un muscolo quando l’ultimo cliente uscì dalla bottega, ma lo seguirono con lo sguardo nel caso in cui il loro padrone stesse per gridare al ladro. L’uomo che era appena uscito aveva un aspetto ordinario, con abiti modesti da mercante di classe media, un taglio di capelli molto comune e dei colori che lo identificavano come discendente dell’etnia calishita. Sembrava un po’ troppo povero per potersi permettere di fare compere lì dentro, ma il negoziante non aveva mosso obiezioni, quindi le due guardie si dimenticarono del tizio non appena lui svoltò l’angolo, uscendo dal loro campo visivo.
Più o meno come facevano tutti.
Raerlan soppesò il sacchetto con i preziosi che aveva appena acquistato. Una buona scorta di berillo scarlatto, pietra di luna e foglia d’argento. Prima del mercante di pietre preziose, aveva visitato uno speziale per procurarsi alcune erbe e un po’ di cera d’api. Aveva dovuto rimpinguare le sue scorte di componenti per rituali, perché un duplice compito lo attendeva non appena si fosse lasciato la città di Saradush alle spalle.
Il suo primo, onnipresente dovere era rimanere nascosto. Proteggere il suo segreto e non rendersi individuabile. Il travestimento che indossava ora, frutto di un semplice cappello magico, avrebbe ingannato solo gli umani e altre creature superficiali. Gli servivano protezioni più forti, gli serviva la sua magia rituale seelie.
Il secondo obiettivo che si era prefissato era trovare la maledetta insoril. Durante il combattimento contro i drow era scappata, sparendo nel nulla grazie ad un momento di confusione. Aveva lanciato un incantesimo Colpo Infuocato, uccidendo anche molti dei suoi cosiddetti alleati, pur di coprire la sua fuga.
Una così, non poteva essere lasciata libera di portare disperazione nel mondo.
Parte degli ingredienti che aveva acquistato quella mattina gli sarebbero serviti per un incantesimo di tracciamento. Aveva con sé un oggetto che era appartenuto a Sulerin: il suo pugnale di cristallo. Di solito un oggetto simile non sarebbe stato sufficiente per un rituale come quello, sarebbe stato necessario avere un pezzo del corpo della persona, una ciocca di capelli, una goccia di sangue… ma Sulerin usava quel pugnale per derubare gli altri della loro magia, quindi era un oggetto molto legato a lei e alle sue energie.
Sempre in previsione dello scontro con la perfida predagioia, l’alicorn mascherato da umano aveva anche preso i contatti con un mercante nano per acquistare una rarissima pietra omlar. Quel minerale simile ad acquamarina aveva il potere grezzo di assorbire gli incantesimi, ma era necessario saperlo usare.
Raerlan uscì dalle porte della città prima che facesse notte. Le guardie all’uscita della città lo fermarono per cercare di dissuaderlo, perché la regione di notte poteva diventare pericolosa a causa della popolazione di viverne delle Montagne Omlarandin, sempre più vivaci e in cerca di nuovi terreni di caccia.
Raerlan li ringraziò per la loro solerzia ma decise di proseguire per la sua strada. Le viverne erano l’ultimo dei suoi problemi.

Il primo dei suoi problemi in quel momento stava scrutando il cielo verso ponente, il volto perennemente ingrugnito per metà nascosto dal cappuccio. I suoi occhi erano braci in cui un’ira rovente consumava quella vista mozzafiato senza riuscire a coglierne la bellezza. Da una delle cime sud-occidentali delle Montagne delle Ali il panorama si apriva immediatamente sul gigantesco lago chiamato Grande Erosione, che rifletteva come uno specchio tutto l'arco di stelle del firmamento. L'acqua immobile sembrava pura come il cielo terso e pulito di quella notte, e l'intera scena pulsava di una luce che sembrava quasi viva. Qualcuno con un animo più poetico avrebbe osservato che sembrava di avere il firmamento sia sotto che sopra di sé, ma l’uomo ammantato non aveva un animo poetico. Le uniche luci che gli interessava vedere erano quelle dei glifi magici che risplendevano intorno al suo capo, fluttuando nell’aria.
La città lucertoloide di Surkh sorgeva proprio ai piedi delle montagne, le luci di alcune torce tradivano la sua posizione e le sue dimensioni. Il misterioso viandante stimò di poterci arrivare… in un istante, con un teletrasporto.
Non riusciva più a trovare quello che pochi giorni prima aveva percepito, un grandissimo potere di natura quasi divina. Chiunque ne fosse stato la causa, forse si era trattato di un’evocazione momentanea? Il Cercatore non conosceva la città di Surkh, non ne sapeva neanche il nome, ma era una città, quindi forse ci vivevano dei maghi o dei chierici. Nella sua ignoranza, dava per scontato che si trattasse di una città di umani. Gli umani sembravano essere dappertutto.
Quando arrivò laggiù e si rese conto che si trattava semplicemente di un ammasso di capanne di fango, l’omaccione si arrabbiò… parecchio.
I sopravvissuti avrebbero impiegato anni a ricostruire la città, senza mai sapere cosa fosse successo, o perché il terreno all’improvviso fosse esploso sotto le loro case.
Appena pochi istanti dopo aver portato a termine quell’inutile carneficina, il Cercatore estrasse una piccola bussola magica. Era sintonizzata sull’ultimo luogo in cui aveva percepito quell’enorme potere, e la piccola freccia di magnetite puntava ancora verso sud-ovest. Il mago scrollò le spalle e approntò velocemente un altro teletrasporto. Non doveva preoccuparsi di sprecare incantesimi, ne aveva una scorta quasi infinita.

Sulerin stava scappando ininterrottamente da giorni. Sapeva che doveva trovare un modo per nascondere la sua esistenza anche ai più raffinati incantesimi di divinazione. Fuggire non era sufficiente.
Per il momento si era limitata a spingersi verso oriente, perché ad ovest e a sud c’era il mare, e a nord per come la vedeva lei c’era ancora troppo poco spazio attraverso cui fuggire. Però aveva sentito le storie più favolose sul lontano oriente, e soprattutto sul fatto che fosse lontano.
Forse le sarebbe convenuto scappare addirittura su un altro Piano di esistenza, ma non aveva modo di farlo da sola.
Ma per quanto tempo avrebbe potuto continuare così? Sapeva che se lo sciamano avesse usato una divinazione per trovarla, poi avrebbe potuto raggiungerla con un qualche tipo di trasporto magico, e quindi doveva stare bene attenta a non avvicinarsi ad elementi particolari e riconoscibili come edifici importanti, monumenti, grandi monoliti, alberi particolarmente antichi e simili cose. Fino a quel momento aveva volato al massimo della sua velocità nascondendosi nella foresta, giocando sul fatto che il panorama del bosco fosse più o meno sempre uguale.
Si trovava ancora a Sarenestar e sapeva che rimanere lì era pericoloso. Lo sciamano aveva amici in quella foresta, e gli elfi dei boschi erano ottimi cacciatori.
Ora aveva raggiunto le propaggini orientali, e uscire allo scoperto sarebbe stato altrettanto pericoloso… ma non aveva scelta. Memorizzò con cura la direzione in cui voleva muoversi, si sdraiò a terra a faccia in su e si lasciò calare verso il basso, scivolando all’interno del terreno. Non appena la sua testa scomparve al di sotto del manto erboso, Sulerin divenne completamente cieca. Ora si trovava sottoterra, una condizione che non le piaceva per niente, ma in casi di emergenza era necessario sapersi adattare.
Cercò di non pensare al fatto che in quel momento poteva esserci qualche verme o qualche insetto all’interno del suo bellissimo corpo intangibile. Restare viva era più importante. Si concentrò per fare una cosa che non le veniva molto naturale: muoversi “in avanti” da una posizione in cui, per farlo, doveva invece immaginare di stare volando verso l’alto. In questo modo avrebbe potuto procedere all’interno del terreno come se stesse nuotando a dorso, ma senza dover muovere braccia o gambe.
È poco dignitoso. È disgustoso. Quel maledetto seelie pagherà anche per questo!
Ma Sulerin sapeva benissimo che al momento non poteva fargli pagare un bel niente, non era abbastanza potente per affrontarlo e sopravvivere. Doveva trovare qualcuno. La bella fata aveva una lunga esperienza nel circuire e sfruttare maghi o chierici potenti. Zeerith non era stato il primo a cadere nella sua rete.

Il Cercatore si teletrasportò molto più vicino al luogo in cui probabilmente era comparsa la fonte del potere che aveva percepito qualche giorno prima; purtroppo la sua bussola magica indicava solo la direzione, non la distanza.
Adesso però era sicuro di essere vicino, gli sembrava di avvertirlo a pelle. C’era qualcosa… qualcosa che gli ricordava il pizzicore che aveva percepito quando quell’energia divina si era liberata, un po’ come una leggerissima traccia olfattiva ma che non faceva appello a nessuno dei cinque sensi.
Quella leggerissima traccia si stava avvicinando. Forse quel che percepiva era proprio l’energia della creatura a cui stava dando la caccia, che non era stata capace di mascherarsi perfettamente, oppure si trattava di un suo emissario, un sottoposto di poco conto.
Il Cercatore lanciò su se stesso un incantesimo di Individuazione del Magico, sfiorandosi le palpebre con la punta delle dita. Rabbrividì quando i suoi polpastrelli sfiorarono un bubbone disgustoso che gli copriva il sopracciglio destro. Tutto il suo corpo era coperto da escrescenze nerastre, un segno visibile della malattia che lo affliggeva da anni. Ricordare il suo aspetto tumefatto gli fece salire una fiammata di rabbia direttamente dallo stomaco alla testa, e per un momento gli sembrò di vedere rosso e di perdere il controllo.
Recuperò la calma, sebbene a fatica. Non c’era tempo adesso per la rabbia. Non ancora. Prima doveva catturare la sua preda.
L’incantesimo di divinazione gli rivelò che qualcosa di magico si stava davvero avvicinando, ma l’aura magica risplendeva dalla terra, come se l’oggetto della sua ricerca si trovasse appena sotto il livello del terreno.
Il Cercatore sorrise e preparò un altro incantesimo. Avrebbe potuto fermare la creatura in qualche modo innocuo, ma se era una preda degna non sarebbe morta per così poco, e se invece non era la sua preda non gli importava che morisse.

Sulerin capì che la sua sfortuna cronica non aveva ancora rinunciato a seguirla, quando il terreno intorno a lei esplose sotto l’effetto di un Colpo Infuocato.
La bella insoril venne sbalzata verso l’alto dalla pura forza distruttiva dell’incantesimo, e per un momento non riuscì a capire niente, né a sentire niente che non fosse quel tremendo calore e le sue stesse urla. Poi tutto finì all’improvviso, e si accorse con grande sollievo di essere ancora viva. Stava galleggiando a mezz’aria, il mondo si era capovolto… no, lei era capovolta.
Un uomo avvolto in un mantello scuro era in piedi a poca distanza da lei, la mano destra ancora protesa nell’atto di lanciare l’incantesimo. Il suo volto era coperto da un cappuccio e lei non riusciva a vederlo bene, ma aveva degli strani glifi luminosi che gli galleggiavano intorno alla testa. Sulerin era ancora troppo sconvolta per essere arrabbiata, ma soprattutto era spaventata. Quello non era lo sciamano, o almeno non sembrava lo sciamano, ma se avesse cambiato aspetto per darle la caccia?
Si girò rapidamente con i piedi di nuovo verso il basso, passando in rassegna il proprio corpo per capire quanto fossero gravi le ustioni. Era rimasta sfigurata? No, pareva di no… la sua natura incorporea l’aveva protetta almeno in quello.
Sulerin cercò il pugnale che aveva recuperato prima di fuggire dal covo dei drow. La sua magia di per sé non era molto potente, la fata si basava soprattutto sull’inganno e sulla seduzione, e in particolare sullo sciamano nessun incantesimo finora aveva funzionato al meglio. Nemmeno le micidiali maledizioni di Zeerith.
Un pugnale forse non sarebbe servito a molto, ma se fosse stata brava sarebbe riuscita a rubargli un po’ della sua magia e scappare.
L’uomo però abbassò la mano.
“Non sei quello che cercavo.” Osservò, con una voce che non assomigliava per niente a quella dell’alicorn. Sulerin capì che aveva parlato in un linguaggio che le era sconosciuto, ma un incantesimo aveva tradotto automaticamente le sue parole per lei. “Però porti su di te una traccia dell’energia divina di qualcun altro. Parla! Sei una servitrice?”
Sulerin deglutì a vuoto, nervosa perché non capiva cosa stesse succedendo.
“Io non servo nessun padrone. Ma… ho incontrato molte persone di recente. Forse è la loro impronta che senti su di me.”
Energia divina… pensò intanto, facendo mente locale. Zeerith era un chierico, faceva uso di magia divina. Forse è lui che quest’uomo sta cercando? O magari quel sacerdote degli elfi?
“Sei in cerca di un sacerdote?” Gli domandò, desiderando rendersi utile. Non voleva inimicarsi qualcuno capace di lanciare incantesimi così potenti.
L’uomo rise, ma la sua risata non esprimeva divertimento. Soltanto odio, beffa… forse perfino rabbia.
“Un sacerdote? No, piccola sciocca. Io cerco un semidio.”
Sulerin rimase scioccata a questa affermazione. Un semidio? All’improvviso tutti i pezzi andarono al loro posto. La strana energia che aveva avvertito provenire dall’alicorn, il fatto che fosse quasi impossibile scalfirlo…
Senza dire una parola, fece ricorso al suo potere divinatorio per cercare di stimare la potenza magica del nuovo arrivato. Quello che vide la lasciò senza fiato, l’uomo - un mago? - brillava di energia arcana come un piccolo sole. L’astuta insoril capì che aveva fatto bene a scegliere di collaborare.
L’uomo davanti a lei le faceva paura, per il potere magico che chiaramente emanava, per tutto il livore che avvertiva nel suo tono di voce, per la chiara indifferenza che stava mostrando nonostante il suo fascino femminile. Però poteva essere la sua unica opportunità.
Il nemico del mio nemico è mio amico. Decise la insoril, facendosi coraggio.
“Tu dai la caccia all’uomo che dà la caccia a me.” Ammise, anche se rivelare un’informazione del genere era pericoloso. “Potremmo esserci utili a vicenda.”
Il volto del mago era ancora in ombra, ma dalle sue parole seguenti Sulerin capì che stava sorridendo.
“Oh, bene. Mi piace quando le pedine decidono di collaborare.”

Nel frattempo, molte miglia più a nord, un Raerlan del tutto inconsapevole dei piani malvagi dei suoi nemici sacrificò diverse ore del suo tempo per coprire maniacalmente ogni traccia della sua vera natura, con un rituale lungo e complesso e quanto mai opportuno.
Ancora non lo sapeva, ma una nuova battaglia era alle porte.

           

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Capitolo 30
*** 1289 DR: Il loro amico (Parte 1) ***


1289 DR: Il loro amico (Parte 1)


Erano passati due anni da quando Daren e il mago gnomo Valni Wilhik avevano iniziato a mappare il sottosuolo della foresta di Sarenestar. Dopo un momento di panico iniziale, in cui gli elfi avevano in tutta fretta recuperato e distrutto gli oggetti che i drow si erano lasciati dietro, le cose erano tornate stranamente tranquille. Non c’era traccia di elfi scuri in quei cunicoli sotterranei, non sembrava che volessero riprovare così presto a infiltrarsi nel territorio degli elfi.
Nelle gallerie, il drow e lo gnomo avevano trovato una gran varietà di creature, alcune pericolose, altre innocue. Spesso si erano ritrovati a dover combattere, anche se in quel caso era il guerriero a svolgere la maggior parte del lavoro. Valni poteva aiutarlo con i suoi incantesimi, ma non ne conosceva molti e le pergamene erano troppo preziose per essere sprecate con nemici di poco conto.
Di solito la loro procedura era molto schematica: Daren scendeva per primo ad esplorare una porzione dell'immenso dedalo di cunicoli e grotte sotto la foresta, mentre il mago godeva di un po’ di riposo in Superficie. Dopo che il drow si era fatto un’idea della disposizione delle gallerie e si era liberato delle creature più pericolose, lo gnomo scendeva a sua volta e mappava la zona. Questo era un lavoro che richiedeva diversi giorni, perché Valni doveva tracciare dei glifi magici visibili solo a lui per non perdere l’orientamento, poi doveva misurare diverse volte le distanze e le altezze, e solo alla fine tracciava su pergamena una riproduzione in scala delle caverne e delle gallerie. Poi passavano ad una zona adiacente, ma dopo molti mesi tornavano sui loro passi per verificare che fosse possibile orientarsi grazie alle mappe dello gnomo, senza fare affidamento sulla memoria. Talvolta era necessario correggere qualche dettaglio, quindi il lavoro era molto lungo.
A volte Johel li accompagnava, per brevi periodi. Daren in quei momenti si sentiva un po’ sollevato, la compagnia dell’amico elfo era una boccata di aria fresca, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Non era piacevole passare il tempo solo con uno gnomo inquieto e paranoico; il drow capiva il disagio di quel poveretto, ma comunque non era molto di compagnia. La paura lo rendeva irritabile, bizzoso, e quindi insopportabile. Era come avere appresso un ragazzino umorale e pure saputello.
A parte qualche occasionale incontro con i mostri del sottosuolo, fu un periodo noioso. Daren capiva l’importanza di procedere in modo schematico (e se non l’avesse capita, ci avrebbe pensato Tazandil a fargli cambiare idea), ma saperlo non rendeva quel compito più divertente o più eccitante.

“Non so se ti abbiamo mai ringraziato per esserti proposto per questo lavoro.” Gli disse un giorno Johel, mentre scendevano per l’ennesima volta sotto terra dopo un periodo di pausa per fare rapporto in Superficie.
“Non serve nessun ringraziamento, e non mi ricordo nemmeno se mi sono proposto.” Tagliò corto Daren. “Io ero la persona più indicata per farlo, quindi dovevo farlo. Ho accettato questo compito per buon senso, come il povero Valni che ha la sfortuna di essere il miglior cartografo della foresta.”
“Però non ci devi niente. Non sei nemmeno… ufficialmente uno di noi.” Mormorò Johel, sentendosi in colpa mentre lo diceva. Quello per lui era da anni un motivo di amarezza, gli sembrava che il suo clan stesse sfruttando le capacità e la disponibilità del suo amico senza dare nulla in cambio.
“Ah. Dillo a tuo padre che continua a chiamarmi recluta. Sono qui da due anni e so combattere meglio della maggior parte dei suoi ranger, ma per lui sono una maledetta recluta. Però, in un certo senso, significa che mi considera uno di voi.”
Proseguirono in silenzio fino al primo bivio, perché per Johel era sempre strano e inquietante il modo in cui la sua voce rimbombava contro le pareti di pietra.
“Per me è importante.” Rivelò infine Daren, sottovoce. “È la tua foresta, il tuo clan, la tua famiglia. Per te, tutto questo è importante e quindi lo è anche per me. Se vi accadesse qualcosa di male, e io non avessi fatto tutto il possibile per impedirlo, sarei un pessimo amico. E tu sei… praticamente il mio unico amico.”
Johel per poco non inciampò nei suoi piedi. Sapeva che Daren era mosso da simili motivazioni, ma non glie l’aveva mai sentito ammettere. Però fino a quel momento non aveva mai capito fino in fondo l’importanza che lui stesso aveva nella vita dell'elfo scuro. Johel aveva sempre avuto intorno molte persone positive; i suoi genitori, i suoi zii, tutti i suoi amici. Non aveva mai realizzato che Daren invece aveva pochissime persone davvero vicine, nella sua vita. E Johel era stato il primo ad accettarlo e ad aiutarlo, in Superficie. Era lui il motivo per cui un drow era stato accettato in una foresta di elfi.

Johel non era abituato a vedere le relazioni come dinamiche di potere. Per i drow era naturale che fosse così, nella loro società non esisteva il concetto di amicizia disinteressata, quindi per Daren era stato molto difficile ammettere che, sostanzialmente, nella loro amicizia era Johel ad avere il coltello dalla parte del manico. L’elfo però non aveva i mezzi per leggere la sua confessione in quella chiave, e Daren lo sapeva. Il ranger avrebbe recepito quel discorso solo come una dichiarazione di amicizia, forse di bisogno, ma non di inferiorità, e questo era l’unico motivo per cui il drow aveva osato parlare così apertamente.
“Questo è… è il tuo modo di dimostrare affetto, vero? Proteggere le persone, intendo. Anche senza essere amichevole o gentile, o senza seguire le regole.” Estrapolò Johel.
“Esiste un altro modo?” Daren lo guardò come se fosse un alieno. “Anche un nemico può fingersi gentile o rispettare le regole. Solo le azioni, i fatti, rivelano la verità.”
Johel ci pensò su per un momento, poi sorrise. “Essere gentile ti riesce così difficile?”
Daren rispose al sorriso, ma con un ghigno ironico. “È faticoso. Inutilmente faticoso. Se qualcuno non riesce a sopportarmi, non ne vale la pena.”
“E il povero Valni Wilhik? Riesce a sopportarti?”
Il sorriso di Daren si spense in una smorfia di fastidio.
“Ci sopportiamo a vicenda. Io apprezzo il sacrificio che sta facendo impegnandosi in questo lavoro, ed è l’unica cosa che mi spinge a trattarlo come un adulto. D’altra parte, non so cosa sto facendo per irritarlo, ma qualcosa starò facendo. Sono certo che mi reputa insopportabile.”
Johel soppresse una risata, perché di recente aveva avuto modo di parlare con lo gnomo.
“Trova intollerabili i tuoi ritmi di marcia e la tua scarsa pazienza.”
“Oh, che peccato. Non me ne frega un cazzo. Se andassimo ai suoi ritmi non finiremmo mai, invece manca solo un ultimo controllo e avremo terminato. Fine della storia, ognuno per la sua strada.”
Johel si fermò e afferrò Daren per un braccio, in modo tanto repentino da mettere in allarme il drow che si guardò intorno pensando che ci fosse un pericolo.
“Dove ti porterà, la tua strada?”
Il drow si sentì invadere dal sollievo, ma anche dalla collera.
“Mannaggia a te, stupido elfo! Non afferrarmi più in questo modo, pensavo che fosse successo qualcosa!”
“Dove?” Insistette Johel, in tono grave.
“Lo sai dove. C’è almeno una comunità drow sotto le montagne, forse più di una, devo indagare su questa faccenda.”
“È molto pericoloso. Non sai se hanno scoperto la verità sulla morte dei loro esploratori. Potrebbero sapere già chi sei e ucciderti nel momento stesso in cui metterai piede lì. Potrebbero aver resuscitato i loro morti!”
“Vorrà dire che andrò laggiù sotto mentite spoglie.”
“Avranno certamente degli incantatori capaci di vedere oltre qualsiasi inganno…”
“Sei un gatto attaccato alle palle, Johel.” Lo interruppe Daren. “E questo atteggiamento è esattamente il motivo per cui due anni fa non ti ho detto che volevo andare a cercare Filvendor. Sono l’unico che ha qualche speranza di scoprire qualcosa, quindi devo andare. Te l’ho detto, non posso ignorare che sulla tua foresta incombe un simile pericolo. Non ho molte altre cose da fare. Le uniche cose che mi aiutano a passare il tempo sono la tua amicizia e i dettami della mia dea, e questa missione adempie ad entrambi i miei obblighi.”
Le cose che ti aiutano a passare il tempo? Pensò Johel, ripetendosi nella mente quelle parole assurde. O le uniche cose che danno un senso alla tua vita? Perché non ti fai una famiglia, maledetto idiota? Perché non ti trovi un lavoro, o un hobby?
Ma questo non poteva certo dirglielo, perché era un pensiero stupido. Una famiglia, un lavoro, erano tutte cose semplici e accessibili per qualcuno che fosse inserito in una società; Daren però non apparteneva a nessun luogo, a nessun popolo. Non poteva stare con i suoi simili, nemmeno con gli altri seguaci di Eilistraee, anche se non gli aveva mai spiegato il perché. Non era stato completamente accettato nemmeno a Sarenestar. Aveva una sorella, che viveva in mezzo agli umani, ma quella vita tranquilla non era capace di dargli soddisfazione. Forse nessuna vita tranquilla gli avrebbe dato soddisfazione.
Daren era un’anima inquieta, in qualche modo doveva essere correlato al fatto che fosse un senza-ombra, una persona dal passato oscuro. C’era una parte della sua vita di cui Johel non era a conoscenza, non vi era stato… ammesso.
“Non voglio che tu vada.” Mormorò, cocciutamente.
“Ci sono un sacco di cose che io non voglio, ma la vita se ne frega di quello che vogliamo.” Daren aveva un tono paternalistico, come se stesse parlando ad un bambino capriccioso. “E anch’io me ne frego di quello che tu vuoi.”
Quello che vogliamo di solito è l’esatto opposto di quello di cui abbiamo bisogno, pensò il drow per farsi forza.
Sapeva che Johel avrebbe protestato, ma alla fine avrebbe capito. Gli aveva appena dato tutti gli estremi per poter capire.
Poteva essere una missione pericolosa, ma Daren doveva farlo.
Era l’unico modo in cui sapeva dimostrare amicizia.

           

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Capitolo 31
*** 1289 DR: Il loro amico (Parte 2) ***


1289 DR: Il loro amico (Parte 2)


Ogni lavoro prima o poi ha una fine, e dopo due anni e quattro mesi di esplorazioni, misurazioni, mappature e crisi isteriche, finalmente Wilhik dichiarò che quel lavoro era finito.
Daren aspettava quel momento con un misto di anticipazione e di ansia. Era contento che quella che lui giudicava la parte noiosa del lavoro fosse terminata, e per il bene della foresta era ansioso di passare alla fase successiva. Se doveva soffermarsi sui suoi sentimenti e timori, però, scopriva di non essere poi così ansioso. In quei due anni aveva avuto poche occasioni di legare con gli elfi di Sarenestar, ma talvolta lui e lo gnomo avevano passato dei brevi periodi in Superficie, e in quei giorni era sempre stato ben accolto ovunque andasse. Aveva iniziato a considerare gli elfi dei boschi una presenza positiva - e non troppo invadente - nella sua vita quasi solitaria, e ora comprendeva un po’ meglio la loro cultura. Quello era stato un bel lavoro, dopotutto; lo aveva posto all'interno della foresta pur non essendolo, consentendogli di lavorare per gli elfi e di farli abituare alla sua presenza ma senza essere costantemente sotto i loro occhi, e allo stesso tempo aveva potuto evitare le situazioni sociali troppo intime (come quando Pilindiel e Nelaeryn l’avevano invitato al loro matrimonio) con la scusa che aveva preso un impegno e ora doveva lavorare. Era un buon compromesso, un punto di transizione fra la freddezza con cui l’avevano accolto all'inizio e l’amicizia invadente che riservavano gli uni agli altri.
Adesso però avrebbe dovuto andarsene, cambiare completamente ambiente, inserirsi con un’identità fasulla in mezzo ai suoi simili, e solo gli dèi sapevano cosa avrebbe dovuto dire o fare per conquistare la loro fiducia e scoprire l’entità della minaccia.
Il futuro lo preoccupava. Non è esatto dire che lo spaventasse, non aveva paura per se stesso o per la sua sopravvivenza, ma il piano lo preoccupava perché temeva di… non lo sapeva. Temeva tante cose. Empatizzare troppo? Regredire? Il guerriero scosse la testa, impegolato in quei pensieri che sembravano un labirinto di strade chiuse.

Daren ricordava perfettamente cosa volesse dire essere un drow; lo era stato per un secolo e mezzo, anzi, lo era ancora. Non aveva mai smesso di considerarsi un drow e non aveva mai rinnegato nel suo cuore le cose che aveva fatto, la persona che era stato.
Certo, era facile pensarla così. Non aveva mai avuto occasione di far del male a persone buone. Era un soldato semplice, aveva soltanto protetto i suoi padroni, ucciso altri drow, e nemmeno tanto spesso. Talvolta aveva scelto volontariamente di uccidere, per vendetta o perfino per capriccio. Era cresciuto in una società basata su paura, invidia, rancore, desiderio di potere… anche se in fin dei conti qualsiasi sentimento nasceva dal primo e onnipresente, la paura. Daren era stato giovane, ma mai stupido; nei suoi primi decenni di vita era una semplice guardia di palazzo e non aveva mai desiderato ascendere ad un rango troppo elevato. Sapeva che un grande potere non sempre rappresenta una maggiore possibilità di sopravvivenza, al contrario. Molti altri invece lo pensavano. Chissà, magari loro partivano da una condizione migliore, magari avevano alle spalle una famiglia o degli alleati che li aiutassero a conquistare o mantenere una posizione, ma Daren all'inizio era da solo nella sua corsa verso il futuro e quindi era stato attento a non correre troppo veloce. Però, come tutti i drow di Menzoberranzan, anche lui aveva dovuto trovare un modo per mettere una toppa alla sua paura. Il metodo che aveva trovato era l’assassinio.
Uccidere per capriccio, anziché per ricerca del potere. Essere giudice e boia di qualcuno decidendo chi doveva morire, solo per vendicarsi di un piccolo screzio, o nemmeno di quello… gli aveva dato soddisfazione. Lo aveva fatto sentire bene, lo aveva fatto sentire potente e al sicuro. Non lo avrebbero mai scoperto, perché non avrebbe potuto beneficiare di quelle morti, quindi perché sospettare di lui? Un soldato semplice, una nullità? Nessun comune cittadino avrebbe rischiato la vita uccidendo un nobile, o un mago, senza avere in cambio un pagamento o un vantaggio.
Questo pensavano i nobili, ma loro erano sempre troppo concentrati sui loro giochi di potere e invischiati nelle loro ragnatele di inganni, per capire i viscerali sentimenti di odio e di rivalsa dei loro servi, dei loro schiavi.
Se Daren si guardava alle spalle con gli occhi della memoria riusciva a rivedere tutto questo con estrema chiarezza, e non aveva ancora trovato un motivo per pentirsene. Quel mondo non lo aveva solo generato, lo aveva anche plasmato, e aveva meritato quella reazione. Menzoberranzan aveva meritato la sua follia e i suoi omicidi capricciosi, e lui non aveva fatto niente di speciale per gli standard della città.
Quando aveva mosso le armi contro la persona sbagliata, recidendo la vita dell’unico drow che per i suoi criteri non meritava di morire, solo allora aveva capito. La rivelazione gli era piovuta addosso come una secchiata di acqua fredda. Aveva capito quanto fosse tutto sbagliato. Tutto. Lui, la società in cui viveva, il circolo vizioso di dolore che tutti i drow si infliggono a vicenda e riversano anche sugli altri popoli.
Ma nonostante ora comprendesse questa verità, Daren non condannava nulla di ciò che aveva fatto, tranne quell'ultimo omicidio gratuito. Aveva superato i suoi limiti etici, limiti che non sapeva nemmeno di avere: aveva ucciso qualcuno che non lo meritava, in un mondo in cui credeva che tutti lo meritassero.
Be’, non proprio tutti. Aveva avuto un amico, nella città oscura. Un drow come gli altri, con l’eccezione che a Daren non aveva mai fatto torti, e questa era l’unica cosa che gli importasse. Ma all'epoca non immaginava che potesse esistere una seconda persona in tutto il mondo che non meritasse un coltello nella schiena. A quei tempi era giovane e ignorante, tra l’altro: pensava che tutte le società fossero come quella drow, e che ogni persona di qualsiasi razza si sarebbe comportata come un drow. Ai suoi occhi tutto il mondo era composto di nemici.
Adesso conosceva la verità e sapeva che la sua razza era più un’eccezione che la regola.
Adesso conosceva gli elfi di Superficie, ed era convinto che anche quel sé stesso più giovane, se non fosse stato indottrinato dalle menzogne sugli elfi chiari, avrebbe potuto riconoscere che nemmeno loro meritavano il suo odio. Il suo criterio era sempre stato così semplice, animalesco: se non vuoi danneggiarmi, non sei mio nemico. Un basilare dettame di sopravvivenza, seguito da un principio molto più degno di un drow: ma se sei mio nemico, ti farò così tanto male da farti implorare di morire.
Ricordava benissimo tutto questo, era totalmente consapevole di che cosa era stato e perché, e di che cosa aveva scoperto in seguito ampliando i suoi orizzonti; ma ora doveva mettere da parte la persona che era diventato e tornare ad avere a che fare con altri drow.
Il pensiero era… disturbante.
Non aveva più intrattenuto rapporti con altri drow ad eccezione di alcune sacerdotesse di Eilistraee, ma loro erano diverse. I seguaci di Eilistraee volevano vivere in pace sulla Superficie al fianco delle altre razze elfiche, non erano esattamente dei veri drow, anche se alcuni di loro lo erano più degli altri.
In realtà Daren non aveva una definizione esatta di veri drow. Sospettava che l’identità della sua razza fosse soprattutto una cosa di origine sociale, culturale, e non naturale. Dopotutto la sua stessa sorella era cresciuta in mezzo agli umani e lui non riusciva a considerarla una vera drow, era più come un’umana con le orecchie a punta e la pelle nera. Quindi non sapeva bene cosa pensare dei seguaci di Eilistraee. Alcuni di loro, sia le femmine che i maschi, erano nati all'interno di normali società drow, sotto la cappa soffocante del culto di Lolth. E com’erano facilmente distinguibili dagli altri! I “fuoriusciti”, gli “apostati”, avevano quella cosa negli occhi… lo spettro del dolore che si erano lasciati alle spalle. I traumi e gli abusi e le ideologie sbagliate di cui si erano liberati, ma che ogni tanto potevano ancora uscire allo scoperto, in una parola, un atteggiamento del tutto inconsapevole.
La seconda generazione non era così. Gli elfi scuri cresciuti da madri che non li frustavano, educati da maestri che non li picchiavano, avevano uno spirito diverso. Più leggero, più… elfico. Un tempo Daren non aveva una parola per descrivere quella differenza, ma ora sì, e quella parola era elfico. Non avevano mai conosciuto la paura, quella vera, che ti fa dormire con un occhio aperto e ti fa diffidare anche degli amici e dei fratelli. Senza quella paura, non avevano mai sviluppato l’odio, il rancore, la brama per il potere. Erano come ibridi, non del tutto drow, non del tutto non-drow.

E adesso, con questo bagaglio di conoscenze che pesava sulle sue spalle, Daren doveva infiltrarsi in una comunità di drow e scoprire se li odiava o no.
Se li odiava come prima, era un segno del fatto che non era cambiato? O forse li avrebbe odiati per motivi diversi? E li avrebbe davvero odiati, sapendo che probabilmente erano come lui, semplici figli delle conseguenze? Sapendo che se avessero avuto una possibilità, o maggiore fortuna, sarebbero potuti essere elfi?
Daren non lo sapeva, temeva quelle risposte, ma conosceva i suoi doveri.
Forse… poteva mirare a distruggerli anche se non fosse riuscito ad odiarli?
Un tempo Daren era stato un drow del tutto conforme agli stereotipi, malvagio e sadico. Aveva pianificato omicidi con grande pazienza e astuzia, a mente fredda… ma sempre a sangue caldo. Non aveva mai ucciso qualcuno senza odiarlo. Anche quando due anni prima era sceso nelle gallerie per salvare Filvendor, aveva ucciso per autodifesa e per aprirsi una via di fuga, ma non per calcolo.
Era ironico pensare che solo adesso, guidato da questi nuovi valori di bontà e nobiltà d’animo, avrebbe fatto qualcosa di canonicamente malvagio come pianificare la distruzione di qualcuno solo perché era nel posto sbagliato.
No, non devo vedere le cose in questo modo. Noi stiamo preparando una difesa. Vado lì per spiarli, non per distruggerli.
Non accadrà nulla di male se loro non ci attaccheranno per primi.


“Daren? A cosa stai pensando?” Lo chiamò Johel, vedendolo così assorto e taciturno.
Il drow si riscosse dai suoi pensieri tetri.
“Al passato. E al futuro.” Rispose stringatamente. Non voleva parlare con Johel di quelle cose. Non credeva che l’amico avrebbe capito.
“Oh. Non va bene. No, non va affatto bene, sono pensieri che avvelenano la mente. Hai bisogno di vivere il presente, specialmente in questo momento!”
Lo prese per un braccio e lo invitò a seguirlo con uno strattone poco gentile.
“Dove andiamo?”
“Prima di tutto in cucina.” Johel gli fece strada fuori dalla sua camera, dove Daren era ospite, e gli indicò di scendere sul ramo inferiore della casa sull'albero della sua famiglia. “E non atterrare sul tetto come l’ultima volta, è estremamente maleducato.”
“Un giorno capirai che non è normale vivere sugli alberi.” Si difese il drow.
“Sarà normale vivere sottoterra come le talpe. Fatti due domande sul perché siete tutti così bassi.”
“Ehi! Sono alto per la mia razza!” Protestò l’elfo scuro, scendendo lungo il tronco e stando attento a non saltare sul tetto dell’edificio sottostante. Anche se sarebbe stato molto più pratico.
“Sì, è vero. Finalmente posso dire, avendone visti degli altri, che è vero e che è l’unica cosa su cui non hai mai mentito da quando ti conosco.”
“Oh, no! La mia perfetta media, rovinata!” Recitò Daren, mettendosi una mano sul cuore.
Johel rise, e il drow sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto, pensando che una risata così libera e leggera non l’avrebbe mai sentita sulle labbra di un suo simile.
“Perché stiamo andando in cucina?”
“Mia madre ha fatto i biscotti.”
“Va bene, ma perché stiamo andando in cucina?”
Johel lo guardò in modo strano, come se stessero parlando due lingue diverse.
“Come dicevo, devi rimanere nel presente. I biscotti sono ottimi per ancorare qualcuno al qui-e-ora.”
“Ah, di sicuro mi ancoreranno da qualche parte.” Commentò il guerriero, facendo segno che gli sarebbe venuta la pancia.
Johel lo guardò storto.
“Puoi mangiarne due o tre, devi finir di crescere.” Gli rispose in tono fintamente offeso. “E dopo i biscotti, andiamo a casa di zio… di Lord Fisdril, che ti deve parlare.”
Daren gli rivolse un’occhiata in tralice. Se Lord Fisdril voleva parlargli era una questione ufficiale, quindi perché a casa sua e non in qualche luogo pubblico?
Avrebbe voluto chiederlo, ma aveva la sensazione che l’avrebbe scoperto molto presto.

Lord Fisdril li attendeva ai piedi della sua magnifica casa arborea, vestito con i suoi paramenti ufficiali. Daren gli rivolse un mezzo inchino, perché sapeva che in quel momento stava parlando con il capoclan, non con lo zio di Johel.
“Ben trovato, Daren.” Lo salutò al suo arrivo. “E anche tu, nipote. Siete arrivati in città ieri sera, vero?” Attese il loro cenno di assenso prima di continuare. “Wilhik ha consegnato al Consiglio il vostro lavoro. Impressionante.”
“È stato principalmente il suo lavoro. Lui è il cartografo, io ero bassa manovalanza.” Scherzò il drow.
“Non sminuirti… non sarebbe riuscito a fare nulla senza le tue esplorazioni e la tua protezione. Penso che per i drow, gli esploratori delle gallerie rivestano un ruolo sociale simile ai ranger nelle foreste. Mi sbaglio?”
Daren sussultò per il paragone. Sì, l’elfo era in errore, ma poteva capire le ragioni del suo errore.
“Sì e no. Gli esploratori delle gallerie sono utili, ma non sono rispettati come i ranger delle foreste. Sono solo… servitori con una competenza preziosa, ma sostituibili.”
Lord Fisdril accettò la correzione, ma l’idea sembrò rattristarlo.
“Qui non sei sostituibile. Sei l’unico che ha questa competenza, ma soprattutto sei una persona. Nessuno è sostituibile.”
Daren annuì, ma non aveva bisogno di sentirselo dire. Le differenze fra gli elfi e i drow gli erano ormai molto chiare.
“Lo so, e apprezzo la compagnia di voi elfi dei boschi molto più di quanto apprezzi quella dei miei simili.” Commentò con un sorrisetto.
“Tu non sei proprio capace di fare un complimento, vero?” Lo punzecchiò Johel.
Daren aprì bocca per ribattere, ma Lord Fisdril s’intromise abilmente nella conversazione prima che ricominciassero a bisticciare come al solito.
“Volevo fare una passeggiata.” Fece un ampio gesto con il braccio ad indicare una direzione casuale. “Siate così gentili da accompagnarmi.”
Lo seguirono in silenzio. Date le premesse, nessuno dei due si aspettava che fosse davvero una semplice passeggiata.

Attraversarono insieme la città, raccogliendo benevoli cenni di saluto da ogni persona che incontravano. Daren si rese conto che non conosceva quasi nessuno di quegli elfi, non avrebbe saputo dire i loro nomi. Al contrario, tutti sembravano conoscere lui.
Ovvio. Avranno sentito parlare di me e del lavoro nelle gallerie, anche se non metto piede in questa città da due anni. Magari per loro sono ancora una curiosità… anche se spero di essere qualcosa di più.
Il drow non conosceva la città e non sapeva dove stessero andando, ma Johel capì che si dirigevano verso la Porta dell’Acqua, a sud. Lungo la strada passarono davanti alla Casa degli Scapoli, e come accadeva quasi tutti i giorni, la cameriera era fuori dalla porta e chiamava il figlio con tono ansioso e affranto.
“Amaryll.” Daren le fece un cenno di saluto. Ricordava almeno il suo nome, e siccome questo rappresentava un’eccezione in mezzo a tutti quei volti sconosciuti, trovò un certo sollievo nel pronunciarlo. “È scomparso di nuovo?”
Lei agitò le mani in modo inconsulto, quasi sulla soglia di una crisi isterica.
“Sono venti minuti che lo cerco e nessuno lo ha visto.” Piagnucolò. “Stavo servendo ai tavoli, mi sono distratta un momento, è uscito… se gli fosse successo qualcosa, io...”
Daren colse un movimento con la coda dell’occhio. Niente di che, una corda basculante. Solo che non c’era vento.
“Calmati, Amaryll. Hai solo un bambino molto intelligente e precoce, che ormai ha più di tre anni e non sa stare fermo. Hai un bambino ancora vivo, che non vuole chiedere aiuto per non farsi sgridare. Non si è fatto male, altrimenti avrebbe urlato e tu l’avresti sentito perché è vicino.” Così dicendo, le indicò ciò che aveva visto poco prima: un pozzo, proprio accanto alla locanda.
L'elfa non capì, guardò il pozzo come se non lo vedesse, sempre più vicina al panico.
Johel e Fisdril invece compresero al volo, videro tutti quei dettagli che Amaryll era troppo spaventata per notare. Un pozzo dal muretto basso, a misura di gnomo. La corda tesa, che oscillava. Una piccola cassa di legno accanto al pozzo… perfetta perché un bambino piccolo, che non sapeva arrampicarsi, potesse usarla come scalino.
Corsero subito al pozzo e ci guardarono dentro. Un piccolo elfo stava in piedi nel secchio, tenendosi alla corda, immerso nell'acqua fino alla vita.
“Il tecioro di folletti!” Esclamò con voce allegra, sollevando un sasso che aveva trovato laggiù.
Johel afferrò subito la manovella e tirò su il secchio, Fisdril si sporse nel pozzo per prendere in braccio il bambino non appena fu a portata. Si infradiciò completamente la veste prendendolo in braccio, ma non gli importava. Non era mai stato il tipo di capoclan che rimane lontano dal suo popolo, la sicurezza di uno dei loro piccoli era di importanza capitale.
Amaryll era già corsa accanto ai due elfi e praticamente strappò il figlio dalle braccia di Fisdril non appena lui si girò verso di lei. Era preoccupata a morte che il piccolo avesse preso freddo e non smetteva più di ringraziare i due elfi e il drow per il loro aiuto.
I tre si allontanarono in fretta, visto che un po’ di gente si era girata a guardarli.
“Ma seriamente, un incantesimo di tracciamento sarebbe una brutta idea?” Buttò lì Daren, dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato.
“Non credo che esista Individuazione dei Bambini” scherzò Johel, ridacchiando. “Ma sei tu l’esperto.”
“Esiste Individuazione del Male, dovrebbe servire allo scopo.” Il drow rispose con un’altra battuta, guadagnandosi una pacca sul gomito dall’amico e un’occhiata in tralice da lord Fisdril, che non aveva ancora familiarità con il suo senso dell’umorismo. “Mia nipote ha lo stesso carattere e da piccola ha fatto le stesse idiozie. Mia sorella è una strega, ha creato un incantesimo di tracciamento per ritrovarla sempre, quindi non stavo scherzando sull'usare la magia.”
“È strano che tu te ne venga fuori con queste soluzioni assurde,” osservò Johel “quando la più semplice è sotto gli occhi di tutti: da sola non ce la può fare. Potrebbe trovarsi un compagno.”
Il drow lo guardò per un momento come se non capisse la correlazione, poi pensò alla famiglia di Johel. “Ah, già. Famiglia bigenitoriale. Non sono abituato a pensarci, ma per voi è la norma.”
L’elfo ranger stava per fargli una domanda, ma la ricacciò indietro e chiuse la bocca. Dopotutto non voleva sapere.

Arrivarono alla Porta dell’Acqua, facendo il resto della strada in silenzio.
Usciti dalla città svoltarono a sinistra, verso est, costeggiando l’ammasso di rovi e alberi fitti che nascondeva magicamente quell'antico insediamento elfico.
Ad un certo punto Lord Fisdril si fermò di colpo, in un luogo che ai due giovani sembrò simile a tutti gli altri angoli della foresta.
Vicino a loro c’era una quercia, uguale a moltissime altre anche se di notevoli dimensioni. Non c’erano molte querce a Sarenestar, le conifere erano più comuni, ma non era nemmeno uno spettacolo strano. L’unica particolarità era che qualcuno aveva appeso nastri colorati ad alcuni rami. Johel fu il primo ad accorgersene, perché sapeva cosa stava vedendo.
“Quella è… una Quarlamne?” Domandò, con voce spezzata. “Ma… non sapevo… chi era?”
Daren gli rivolse un’occhiata interrogativa, perché non aveva mai sentito quella parola.
Fisdril si avvicinò alla quercia e poggiò una mano sulla corteccia, con un sorriso tenue colmo di affetto e malinconia.
“Il suo nome era Arrik. Era un mezz'umano, vissuto molto prima che tu nascessi. Io ero un bambino quando è morto, combattendo per proteggere la nostra foresta. Non ricordo nemmeno chi fossero i nemici, ero troppo piccolo, nessuno me lo aveva detto. Ma ricordo lui. Gli amici vanno ricordati.” Affermò con solennità. “E Arrik lo era. Un Amico degli Elfi, un Ruathar. Aveva meritato questo titolo salvando la vita a mio padre, alcuni decenni prima. È merito suo se io e Tazandil siamo potuti venire al mondo. Per me era come uno zio, e quando è morto ne ho sofferto molto. Ogni anno, anche a distanza di secoli, nell'anniversario della sua morte, io e alcuni altri che l’abbiamo conosciuto veniamo qui e appendiamo un nastro ai rami della sua Quarlamne, come ringraziamento. Merildil riesce anche a parlargli. Una piccola scintilla della sua coscienza è ancora lì dentro, anche se in una forma più semplice ed elementare. La sua anima, ovviamente, è libera ed è stata accolta nella grazia di Arvandor.” Raccontò, come se fosse una spiegazione.
Per Johel lo era. Lui era un elfo dei boschi, conosceva le tradizioni legate agli Amici degli Elfi e sapeva con quale rispetto venissero trattati dal loro clan, ma Daren si stava facendo un'idea solo per intuizione.
“È sepolto sotto quest’albero?” Domandò, per conferma.
“È più di questo.” Lo corresse Johel. “Quando un Ruathar muore, viene sepolto nella terra insieme ad una ghianda. Quella ghianda cresce rapidamente, diventando una Quercia Benedetta, o Quercia-Anima come la chiamiamo in lingua elfica. Non c’è veramente la sua anima, lì, ma ne rimane una pallida impronta. Abbastanza perché l’albero sia quasi-senziente. La leggenda dice che le Querce Benedette abbiano poteri soprannaturali, con cui possono ancora venire in aiuto degli elfi in caso di bisogno.” Si avvicinò alla quercia e posò anch'egli una mano sulla corteccia. “È così strano pensare che mio padre, e quindi anche io, siamo qui grazie a un mezz'umano che non ho mai conosciuto. Zio, avresti dovuto dirmelo. Verrò anch'io alla commemorazione, il prossimo anno.”
“Se ti fa piacere, nipote...”
“Perché?” Li interruppe Daren, incapace di tacere. “Scusate, non voglio mancare di rispetto, ma… perché? Voi elfi vi salvate la vita a vicenda in continuazione, ma non vi ringraziate per questo.”
“Sì… ma lui non era nato come uno di noi. Non ci doveva niente.” Tentò di spiegare Johel. “Per questo il suo aiuto, la sua amicizia, hanno un valore diverso. Non era… tenuto.”
“È un discorso un po’ razzista. L’amicizia non è un legame saldo quanto la famiglia? Vi ho visti interagire fra voi, siete così uniti, anche con chi non condivide il vostro sangue…”
Johel e Fisdril si scambiarono un’occhiata.
“Il clan è come la famiglia.” Spiegò il giovane ranger. “Non importa se non condividiamo il sangue, ogni elfo Arnavel per me è come un cugino, siamo cresciuti insieme ed io appartengo a questi luoghi come loro. Ci apparteniamo a vicenda. Per quanto ne so, tutte le società elfiche sono molto chiuse. Una persona esterna, se riesce a diventare così intima con un qualsiasi clan elfico, dev'essere molto speciale.”
“Va bene, questo lo capisco.” Riconobbe il drow. “Ma se ha salvato il vostro parente è perché voleva farlo, se è morto difendendo la vostra foresta è perché era vostro amico. Trattarlo in modo diverso da come trattate gli altri è una cosa che non comprendo. È come rimarcare che non era uno di voi.”
Johel e Fisdril si guardarono di nuovo a vicenda.
“Non lo era.” Confermò Fisdril. “So che è difficile da capire. Lo era… ma non lo era. Un Ruathar è qualcuno che diventa importante per la comunità come un elfo, ma proprio perché non lo è, riceve allo stesso tempo un trattamento diverso. Meno intimo, in un certo senso, ma più onorifico. Ci sono stati casi di Ruathar umani o mezz'umani che fungevano da diplomatici con le popolazioni non-elfiche. Mettono la loro diversità al servizio della comunità, sono risorse preziose, e questo è riconosciuto come qualcosa di non dovuto, quindi da ricompensare.”
“Capisco quasi tutto.” Disse Daren, dopo un lungo momento. “Ma non sono d’accordo. Ecco cosa non è dovuto: aiutare un amico. Aiutare… una persona che ha bisogno, anche se è uno sconosciuto. Non è dovuto. Ma non è nemmeno una questione di dare e avere. È una cosa che si fa e basta. Si può fare, quindi si fa. Non è un obbligo, ma se non lo fai non puoi certo definirti un amico. E se vedi qualcuno che può essere aiutato e non lo fai, che cosa stai facendo della tua vita? Se al contrario lo aiuti, serve un ringraziamento? L’alternativa era la non-azione, e quella non è mai un’alternativa. Ringraziare qualcuno perché si è comportato da amico… è svilente. Ringraziare qualcuno perché si è comportato da persona decente, significa implicare che non è una persona decente, che poteva anche non farlo, girarsi dall'altra parte, ma ha fatto uno sforzo e ha fatto qualcosa di buono. È offensivo già verso uno sconosciuto. Verso un amico è… più che offensivo, è come dirgli che sotto sotto non ti fidavi, è una pugnalata.” Parlò tutto d’un fiato, incespicando un po’ sui concetti più complessi perché ancora non conosceva parole abbastanza raffinate in elfico. Sperò che comunque avessero capito. “Se io avessi una tomba e qualcuno venisse a ringraziarmi, ritornerei in spirito solo per dirgli di andare a farsi fottere con una picca.”
Johel era diventato sempre più pallido man mano che il suo amico continuava nel suo monologo, e Fisdril alla fine aveva un’espressione indecifrabile.
“Be’... sei stato eloquente.” Commentò infine, in tono stranamente tranquillo. “Ma non vederla in questo modo. Ognuno ha i suoi mezzi e i suoi limiti, anche nel mostrare amicizia. Tu ci hai dimostrato la tua amicizia con le azioni, e noi lo abbiamo capito, anche se sei del tutto incapace di sostenere una conversazione civile o di comunicare le tue buone intenzioni. Anche noi elfi abbiamo dei limiti. La nostra amicizia segue sempre dei sentieri un po’ paternalistici, perché nessun’altra razza è noi. Hai visto come siamo uniti, come clan. Far entrare un elemento estraneo nel clan è spaventoso e destabilizzante, quindi potrà solo essere come uno di noi, ai nostri occhi, ma mai perfettamente uno di noi. La gratitudine, che tu tanto aborri, è il nostro modo per canalizzare l’affetto e il dolore per la perdita di un non-elfo nell'unica direzione che sappiamo gestire: attraverso il distacco. Rendere l’altro Altro è l’unico modo in cui noi elfi lo possiamo inquadrare, comprendere e amare. Se tu avrai la forza di sopportare il nostro distacco e capire che è il nostro modo di mostrare affetto, noi potremo accettare il tuo distacco, questo muro di maleducazione che hai alzato per tenere fuori quasi tutti. Vedo bene che entrambi i nostri atteggiamenti sono… imperfetti. Ma nessuno è perfetto, non esiste una cultura che non abbia delle inutili rigidità, dei difetti e dei punti deboli. E se accetterai la nostra offerta di amicizia, prometto che non ti chiederemo mai di vestire il ruolo del diplomatico.” Concluse con una mezza battuta, riuscendo a risollevare un po’ quel clima teso.
“Mi stai… mi stai chiedendo…?” Sussurrò il drow, senza parole.
“Ti sto chiedendo se accetteresti di diventare un Ruathar, un Amico degli Elfi.” Chiarì Lord Fisdril.
Daren rimase in silenzio per molti secondi, sbalordito.
“Perché?” Riuscì a chiedere infine.
“Per tutto quello che hai fatto, dimostrandoci amicizia e meritando la nostra amicizia. Ma soprattutto, per quello che ti accingi a fare. Vorrei che tu partissi per questa missione di spionaggio sapendo che qui hai un posto dove tornare, un popolo che ti ha accolto. Mi rendo conto che non si tratta di un’accoglienza completa, noi non abbiamo bisogno di dirci a vicenda che siamo amici, mentre tu devi essere nominato Amico per essere al pari di uno di noi… ma questo è il massimo che possiamo offrire, e onestamente è la prima volta che qualcuno mi fa riflettere così a fondo sul fatto che non sia abbastanza. Tradizionalmente è considerato un onore.”
“Da parte di una società chiusa, è un onore.” Ammise Daren. “Perdona la mia irruenza, sono ancora capace di contestualizzare. In realtà… questa missione mi spaventa. Non per i suoi pericoli, sono immune a quel tipo di paura. Mi spaventa perché temo che mi metta davanti al fatto che non so chi sono, cosa sono. Non appartengo a nessuno. Appartengo a me stesso e in certa misura alla mia dea, ma non è… abbastanza. Non ho alcun punto di riferimento, né dei limiti entro cui definirmi.”
“Ti sentiresti più sicuro, sapendo che sei un Amico degli Elfi del clan Arnavel di Sarenestar?” Propose il capoclan. “Ti darebbe quel senso di appartenenza che cerchi?”
Daren non aveva parole per rispondere, una condizione più unica che rara. Guardò Johel come per chiedere conferma, ma l’amico era sconvolto quanto lui.
Alla fine, con un nodo alla gola, riuscì ad annuire.

           

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Capitolo 32
*** 1294 DR: La loro missione ***


1294 DR: La loro missione



Da qualche parte nel sottosuolo, ai piedi delle Montagne del Cammino

Thalaelsia Battlegrip aveva una missione, ma le cose non stavano andando proprio benissimo.
No, anzi. Quando l'avevano scoperta ad intrufolarsi nel magazzino più segreto dell’antica capitale del regno di Ultoksamrin non andava proprio benissimo. Quando era scappata in fretta e furia non andava proprio benissimo. Adesso si era infilata in una galleria che credeva fosse quella giusta, credeva che l'avrebbe riportata nel Buio Profondo e poi verso nord, verso Iltkazar, invece si era rivelata un vicolo cieco e davanti a lei c'era un crepaccio. Ma non un crepaccio da cui ci si potesse calare per scendere gradualmente, no: un crepaccio ripido e sdrucciolevole. Adesso le cose andavano proprio malissimo.
Come se non bastasse, cinque drow le stavano dando la caccia.
Sarebbe morta in quel modo vergognoso, fallendo la sua missione, senza la sua folta chioma castana e con la pelle pitturata di grigio.
Non era il modo giusto di morire, per una nana del Regno di Mithral.

Daren aveva una missione, e le cose stavano andando abbastanza bene, fino a quel momento.
Aveva trascorso gli ultimi cinque anni fingendosi un tiepido seguace di Vhaeraun, e non c’erano stati problemi. Le comunità drow sotto le Montagne del Cammino erano abbastanza di mente aperta, la maggior parte dei maschi erano seguaci di Vhaeraun, ma c’erano anche drow atei e fedeli di altre divinità oscure. Tranne Lolth. Il culto di Lolth era nemico, bandito, e lui non poteva davvero lamentarsene.
Gli scontri e i tafferugli non erano rari, molte volte aveva combattuto a fianco di quei drow contro i mostri delle gallerie, una volta perfino contro dei quaggoth guidati da un beholder, ma soprattutto contro i seguaci di Lolth della città di Guallidurth. Quelle sacerdotesse erano davvero molto agguerrite e testarde, e i vhaerauniti passavano tanto tempo ad approntare le difese quanto a ricostruire i templi che venivano distrutti nella guerriglia.
Daren trovava ironico il pensiero, ma non aveva mai combattuto tanti seguaci di Lolth agli ordini del culto di Eilistraee quanti ne stava combattendo ora fingendosi al servizio di un dio che le era nemico.
Aveva scoperto moltissime cose interessanti, ad esempio che c’erano tre insediamenti drow appena al di sotto della Superficie, sotto le colline pedemontane dove le Montagne del Cammino cominciavano ad essere ricoperte dagli alberi della Foresta di Sarenestar. Questi tre insediamenti occupavano roccaforti che un tempo appartenevano ai nani, nani degli scudi di un impero decaduto molti secoli prima. Non sapeva se fosse caduto proprio a causa dei drow, ma non lo credeva; questi erano chiaramente dei rifugiati, non un esercito di conquistatori. Le tre cittadine erano indipendenti nella propria gestione, anche se tutte e tre facevano capo alla città-tempio che sorgeva nel cuore dell’antica capitale di Ultoksamrin, una grande caverna che ora i vhaerauniti chiamavano Volta della Mezzanotte Ammantata. Non era una vera e propria città, perché ci vivevano solo le persone adibite alla cura del tempio, ma era l’insediamento più vasto e più protetto, ed era la residenza del chierico capo di tutta la comunità. Daren non era mai andato da lui per cercare di conoscerlo, non voleva attirare così tanto l’attenzione; aveva vissuto tranquillamente la sua vita di guerriero per alcuni anni, e poi l’occasione era capitata: l’aveva visto abbastanza da vicino, dopo una funzione religiosa. Daren non partecipava mai alle funzioni religiose, ma si teneva appena fuori dal tempio per far credere di stare facendo la guardia. Il chierico capo dei vhaerauniti si chiamava Vokkrzyr Rualfren, ed era un drow molto intelligente e lungimirante, anche se tutta la sua lungimiranza si concentrava sul desiderio di distruggere Guallidurth. Quando ne parlava, s’infervorava molto e la sua voce echeggiava dal pulpito attraverso mezza città. Nonostante la sua aspirazione ultima fosse a dir poco delirante (qualcosa sul fatto che i drow seguaci di Vhaeraun potessero prosperare sotto e sopra la Superficie, conquistando l’intera regione), i suoi metodi erano molto innovativi. Non parlava mai della perduta città di Allsihwann, ma ogni tanto parlava degli elfi dei boschi. Proponeva di stabilire una tregua con gli elfi. Di generare figli con gli elfi. I tratti drow erano spesso dominanti, e in quel semplice modo, presto avrebbero avuto una foresta in Superficie largamente abitata da drow. Secondo lui, quello era il destino della loro stirpe: inglobare le razze elfiche inferiori, non con la violenza ma soppiantandole un poco alla volta. A Daren, le sue parole ricordavano i dolci effluvi velenosi di alcuni fiori del Buio Profondo: ammalianti, ma pericolosi e tossici.
Al di là delle peculiari figure di potere che gestivano l’insediamento principale, Daren aveva avuto occasione di conoscere (non di persona, ma di fama) anche i drow che dominavano sulle tre cittadine di Dallnothax, Iskasshyoll e Holldaybim. Erano personalità molto più comuni, per gli standard drow, e ognuno aveva le proprie idee. Dallnothax era l’insediamento più addentro nella foresta, e aveva appreso che il gruppo di Zeerith era partito da lì. Tutta la cittadina, di stampo rigidamente patriarcale e teocratico, condivideva le sue idee espansionistiche. Anche Iskasshyoll aveva un’organizzazione patriarcale, ma era governata da un Consiglio di pochi chierici e figure più mondane come guerrieri e mercanti. Era l’unico insediamento in cui fosse presente un piccolo mercato interno per i commerci con i duergar ed altre razze. Una volta, alcuni anni prima, perfino un umano si era azzardato ad arrivare fin lì; Daren aveva visto la sua pelle in un negozio, l’avevano usata per disegnarci una mappa.
Holldaybim era una cittadina molto più interessante, largamente abitata da drow senza una particolare fede, o seguaci di divinità come Mask, Shar, perfino Kiaransalee, una dea drow minore e nominalmente alleata di Vhaeraun. Le singole ideologie degli abitanti, come anche la loro manifesta crudeltà, erano un boccone amaro da mandare giù, ma la reciproca tolleranza era davvero degna di nota.
C’erano anche cittadini comuni. Daren avrebbe dovuto aspettarselo, questi non erano profughi appena arrivati, vivevano nella zona da secoli. Quindi naturalmente avevano una loro economia e organizzazione sociale. C’erano artigiani, fabbri, mercanti, gente che aveva una vita normale e delle aspirazioni. C’erano bambini. Vedere i bambini era stato come un pugno nello stomaco. Era così strano che avessero il permesso di andarsene in giro per la città, come se potessero vivere una vita migliore di quella che avrebbero avuto a Guallidurth o a Menzoberranzan, eppure per la maggior parte i loro genitori e i loro maestri non li trattavano con maggiore affetto. C’erano cose che non sarebbero cambiate semplicemente cambiando religione, e una di queste era la paura che un individuo più giovane, come un figlio o un fratello, prima o poi diventasse abbastanza bravo da sostituirti.
Daren guardava quei bambini e si chiedeva se fra qualche decennio si sarebbero trovati sui fronti opposti di una guerriglia e se avrebbe dovuto combatterli, ucciderli. Spesso il culto di Eilistraee si dedicava al salvataggio e al recupero di bambini, ma bambini schiavi; questi invece avevano delle famiglie, dei genitori che li volevano, e in qualche raro caso, perfino che li amavano. Sarebbe stato giusto portarglieli via? L’elfo scuro allontanava quel pensiero dalla mente ogni volta che si presentava: non importava che fosse giusto o ingiusto, perché tanto non era possibile.

In cinque anni aveva scoperto molte cose sull’organizzazione dei tre insediamenti e del tempio centrale, ma c’era ancora tanto che avrebbe voluto scoprire… e poi era arrivata quella maledetta nana, che nel giro di poche ore aveva mandato tutto all’aria.

Thalaelsia andò ad incastrarsi nel punto più stretto del cunicolo, dove quantomeno avrebbe affrontato un solo bersaglio alla volta. Se doveva morire, avrebbe venduto cara la pelle.
Sollevò il suo martello da guerra appena in tempo per parare i rapidi affondi del drow che aveva davanti. “Moradin, dammi la forza.” Sussurrò, per tenere a bada la paura. Non era una guerriera. Sapeva usare un’arma, come qualsiasi nano, ma era una studiosa e un’esploratrice, non una combattente.
Non avrebbe dovuto farsi carico di una missione così folle, cosa credeva di dimostrare?
Il drow sbatté una delle sue spade corte contro il martello da guerra, il rumore del metallo che impattava contro metallo fu accompagnato da una piccola scintilla elettrica. La nana deglutì a vuoto. L’altra spada si unì alla prima incrociandosi intorno al manico del martello e il guerriero alzò le braccia di scatto, cercando di farle volare via l’arma. Thalaelsia non si aspettava che un drow avesse tanta forza, ma la sua presa resistette. La mossa costrinse le sue braccia verso l’alto per un momento, ma per fortuna non c’era spazio perché un secondo nemico si inserisse nella mischia e la colpisse in quel momento in cui era vulnerabile.
Resistette, ma dovette fare un passo indietro per sottrarsi ai rapidi colpi del nemico. Poi un altro. Presto la comoda strettoia diventò solo un ricordo, le pareti intorno a lei si stavano nuovamente aprendo. Il crepaccio era sempre più vicino, alle sue spalle.
Sentì i drow ridere e dire qualcosa nella loro lingua crudele, e il guerriero con cui stava combattendo rispose allo stesso modo, con voce strafottente; poi rimise nel fodero una delle sue spade come per far vedere che poteva ucciderla anche con una mano sola. Thalaelsia provò il fortissimo desiderio di spaccargli la faccia con il suo martello. Se solo fosse riuscita a colpirlo una volta...
La punta della spada del nemico descrisse un arco orizzontale più o meno all’altezza del suo viso. Thalaelsia non aveva altra scelta, anzi non ebbe nemmeno il tempo di pensarci, fu una reazione istintiva: si sbilanciò all’indietro. Era una nana molto giovane e in piena crescita, di corporatura esile (per gli standard della sua razza) e non aveva ancora il comodo baricentro basso dei suoi simili. Era per questo che era venuta lei ad infiltrarsi ad Ultoksamrin, dopotutto: era l’unica con un fisico abbastanza asciutto da potersi far passare per un duergar. Purtroppo, anche se i mercanti duergar erano accettati nella cittadina di Iskasshyoll, non significava che avessero il permesso di muoversi in territorio drow e raggiungere gli altri insediamenti. Si era messa nei guai a causa della propria ignoranza e ora il suo mascheramento da duergar non l’avrebbe aiutata.
Nemmeno il suo fisico la stava aiutando. Se fosse stata una nana adulta, piegarsi all’indietro non l’avrebbe fatta sbilanciare. Invece stava accadendo. Stava per cadere...
Thalaelsia spostò il piede sinistro all’indietro, per cercare di recuperare stabilità. Il terreno cedette, e lei continuò a cadere.
La sua ultima possibilità era cercare di aggrapparsi da qualche parte, ma l’unica cosa a cui poteva aggrapparsi era il drow. Ci provò comunque, in modo istintivo. Lui era ancora molto vicino.
Straordinariamente, ci riuscì. Afferrò un suo avambraccio, quello che non reggeva la spada. Poi la gravità la reclamò all’improvviso. Il suo corpo divenne pesante come un macigno, e sentì che avrebbe perso la presa su quel fragile appiglio.
Il drow ruotò l’avambraccio nella sua stretta e con la mano le afferrò il polso. Thalaelsia non fece in tempo ad accorgersene, e nemmeno a stupirsi: lo trascinò nel crepaccio con sé, e un istante dopo stavano cadendo nel vuoto.

Thalaelsia sbatté la schiena contro una parete obliqua, pochi metri più in basso, ma la velocità della caduta le impedì di aggrapparsi o fermarsi. Il drow rimise nel fodero anche l’altra spada - non sembrava preoccupato per la caduta - e afferrò la nana con entrambe le mani. Le sembrò, per un assurdo momento, che lui le stesse dando uno strattone per farla girare… e poi erano di nuovo in caduta libera.
Provò una sensazione di capogiro, che poteva essere dovuto alla caduta, o al fatto che stesse ruotando su sé stessa. Poi vide la luce.
Un momento prima era immersa nella completa oscurità e doveva basarsi sulla sua abilità innata di scurovisione per poter vedere qualcosa… e un momento dopo era tutto tremendamente luminoso, accecante.
E freddo.
L’atterraggio fu doloroso e traumatico, ma non quanto aveva temuto. Erano atterrati nella neve. Il sole splendeva alto in cielo, erano circondati da alberi appesantiti da una bianca coltre fredda, e il terreno era coperto da uno strato di neve alto almeno quanto uno gnomo.
Il drow era un altro fattore che aveva attutito la caduta. Si trovava proprio sotto di lei, e si lamentava debolmente massaggiandosi la testa.
Thalaelsia gli era caduta addosso, o meglio, erano caduti insieme e lei si era ritrovata sopra. Quindi alla fine era riuscita a colpirlo, in un modo o nell’altro.
“Ouch… levati… levati!” Le ordinò lui, parlando nella lingua comune degli umani. La giovane era così sconvolta che si alzò davvero. “Oooh… nota per il futuro: mai più. Mai più atterrare sotto a un nano!” Si lamentò l’elfo scuro, passando a massaggiarsi il naso. “Che cosa diavolo credevi di fare, eh?” Thalaelsia lo guardò completamente destabilizzata, poi si accorse che aveva ancora il martello da guerra in mano. Lo brandì con aria minacciosa, anche se non aveva intenzione di colpire prima di aver avuto qualche risposta esauriente.
“Resta immobile o ti ammazzo, drow!” Minacciò in modo quasi credibile, facendo ondeggiare il martello vicino alla sua testa. In quel momento, dopo una caduta vorticosa, non si fidava molto della sua mira o della sua stabilità, ma il nemico non aveva bisogno di saperlo.
Un momento dopo però le venne preclusa qualsiasi possibilità di mettere in atto la sua minaccia, perché si ritrovò intrappolata all’interno di una sfera trasparente, costretta a guardare il drow attraverso quella parete arrotondata senza poterlo colpire. Provò a toccare quella strana sostanza che sembrava vetro: in realtà era abbastanza elastica.

Daren nel frattempo si guardò intorno, stupito per quell’aiuto tempestivo. Uno gnomo stava fluttuando nell’aria, circa tre metri al di sopra del manto nevoso. Il volto del drow si rilassò all’istante, aprendosi in un sorriso quanto mai entusiasta.
“Valni Wilhik! Sei migliorato un sacco!” Lo salutò. Lo gnomo lo guardò con espressione incredula per quel complimento, e Daren capì che da lui non se lo aspettava. “Be’, dopotutto, non è che potessi peggiorare” concluse, per non deluderlo.
“Ah! Mi pareva. Per un attimo ho creduto che qualcuno ti avesse sostituito” rispose lo gnomo, in tono sarcastico.
Daren si alzò in piedi e si spazzolò gli abiti, scrostando un po’ di neve dal suo mantello e facendo scrocchiare le spalle e la schiena, che nella caduta avevano preso un po’ di botte.
“No, che dici. Lord Fisdril dice che sono insostituibile. Penso che intenda questo, nessuno mi può imitare.”
Lo gnomo rise e si avvicinò camminando nell’aria. Il guerriero capì che non era un incantesimo di levitazione, ma qualcosa di un po’ più avanzato. Sì, il piccoletto era davvero migliorato.
“Lord Fisdril lo dice solo perché è gentile. Allora, sei andato in una città di drow e hai pescato un duergar?” Domandò, guardando dall’alto in basso la nana nella sfera.
“Non è un duergar, è una ragazza della stirpe dei nani.” Lo corresse Daren. “Se guardi con attenzione, la pittura sulle sue mani sta iniziando a venire via. Tutti si preoccupano sempre della faccia, ma le mani sono più soggette a sfregamenti… sono loro la parte da trattare con più cura. Perché si spacciasse per un duergar, non glie l’ho chiesto e non sono affari miei. Ma stavano per ucciderla e francamente non mi andava di guardarla morire.”
Lo gnomo guardò la nana con più attenzione, e quella ricambiò lo sguardo. Nessuno dei due lo poteva immaginare, ma Thalaelsia Battlegrip era una nana istruita e sapeva parlare la lingua elfica, almeno i rudimenti. Aveva capito buona parte del loro discorso.
“Capisco le tue ragioni, amico.” Commentò Valni alla fine, in tono solenne ma comprensivo. “Ma secondo la legge dei nani, ora che l’hai salvata la devi sposare.”
Thalaelsia sussultò a quell’affermazione ridicola e oltraggiosa e anche un po’ sessista.
Ehi! Dannato prestigiatore scaccola-draghi con la polvere nel cervello! Non è affatto vero!” Protestò a gran voce, in nanico, perché gli insulti in elfico semplicemente non rendevano.
Valni Wilhik si stava godendo l’espressione sconvolta e affranta del drow, ma quando la nana gli rovinò il divertimento si girò a guardarla con sufficienza.
“Voi nani non ce l’avete il senso dell’umorismo, vero?”
L’esploratrice diventò rossa, poi livida di rabbia.
“Ho appena fallito una missione per recuperare l’onore del popolo nanico del Profondo Shanatar, sono stata attaccata dai drow, da questo drow nientemeno, sono caduta in uno schifoso crepaccio, sono piena di lividi, ho freddo e sono in una bolla per pesci rossi. Scusa se il mio umorismo non è al suo meglio.”
Lo gnomo agitò una mano e la sfera magica si dissolse.
“Va bene. Pulisciti quella faccia da duergar. C’è un villaggio qui vicino, gli elfi ti daranno alloggio finché non ti sarai ripresa dalla caduta.”
Thalaelsia arrossì di nuovo.
“Non ho bisogno di riprendermi. Sono una nana. Sto benissimo!”
Lo sguardo vacuo di Wilhik non vacillò nemmeno.
“Non possiamo lasciarti andare da sola… ovunque tu debba andare… così, nella neve, senza una direzione. Rimani, finché non avremo capito come farti tornare a casa tua.”
La cocciuta nana valutò rapidamente le sue opzioni. Fra poco sarebbe calato il buio, avrebbe fatto ancora più freddo, lei si trovava in una regione sconosciuta e davvero non sapeva da che parte andare.
Accettò l’invito dello gnomo.

Prima di sera arrivarono ad un villaggio che nominalmente faceva parte del clan Arnavel, ma tutti sapevano che apparteneva al clan Gysseghymn, ora non più indipendente. La notizia del loro arrivo si era sparsa molto rapidamente, ed il mattino dopo Johel, Merildil e Lord Fisdril erano già lì al loro risveglio.
Daren aveva atteso il loro arrivo per cominciare a raccontare tutto; non scese nei dettagli delle cose che aveva scoperto, quelli erano solo per le orecchie del Consiglio, ma descrisse la situazione generale, raccontò come se l’era cavata, e come alla fine era dovuto scappare attivando il teletrasporto di emergenza che il maestro di Wilhik gli aveva fornito cinque anni prima.
Nessuno lo biasimò per quella scelta, Johel meno di tutti, anche perché dopo cinque anni sentiva davvero la mancanza dell’amico ed ogni giorno era sempre più preoccupato che fosse stato scoperto e ucciso. Anzi, quella scelta si rivelò doppiamente valida quando Thalaelsia rivelò qualcosa su sé stessa: proveniva da Iltkazar, apparteneva ad una gilda che si occupava del ritrovamento di antichi tesori e leggende dei nani, ed era imparentata con la famiglia reale. Fisdril decise subito che l’avrebbero riaccompagnata a casa con una delegazione, e sarebbe stata una buona occasione per riallacciare rapporti diplomatici con i loro vicini nani. Forse in futuro avrebbero potuto essere utili alleati contro i drow, se si fosse arrivati a tanto.

Qualche giorno dopo, a Myth Dyraalis, mentre si facevano i preparativi per la partenza di Thalaelsia, Daren trovò il tempo per aggiornare il Consiglio sulle cose che aveva scoperto in quegli anni.
“Difficile dire quanti siano.” Spiegò. “Spesso si spostano fra una città e l’altra e non è mai stato fatto un vero censimento. Però, a spanne, direi che sono più di diecimila, divisi fra i quattro insediamenti. Il loro capo è un chierico molto potente, di sicuro più potente di Zeerith, altrimenti non sarebbe il capo. E quanto a questo… non sembrava che fosse granché dispiaciuto per la morte di Zeerith.” Passò a raccontare della politica violenta ed espansionista del villaggio di Dallnothax, che non era condivisa dalle altre cittadine.
Gli elfi e gli gnomi si guardarono a vicenda, discussero molto quel giorno, ma non arrivarono ad una conclusione. Erano tutti preoccupati per la presenza di quei drow, ma erano anche troppo timorosi per attaccare. Daren aveva visto di persona le molte difese di cui quella regione disponeva, ma soprattutto nessuno di loro voleva andarsi ad invischiare in una zona così turbolenta e squassata dalla guerriglia.
Una cosa però la decisero all’unanimità: lasciar trapelare nei regni umani la voce che l’intera zona nord-occidentale della foresta fosse invasa dai drow. Decisero di esagerare i numeri, perché gli umani stavano diventando sempre più molesti, tagliando alberi e cercando di guadagnare terre per i campi. Se li si poteva scoraggiare con le minacce, anziché con le frecce, gli elfi lo preferivano. Dopotutto c’era un fondo di verità.

Prima della fine del mese, Johel e Daren si stavano preparando a lasciare la città, per tornare ai doveri di pattuglia nella zona settentrionale. L’elfo dei boschi però si accorse che il suo amico stava impacchettando tutti i suoi averi, senza lasciare nulla in città, come se non si aspettasse di tornare a breve.
“Ehi, nessuno ruberà le tue cose.” Scherzò. “Saremo di ritorno in città alla prossima luna piena.”
Il drow interruppe il suo lavoro e si sedette sul divano di giunchi che di solito usava per fare la reverie. Sembrava che qualcosa lo rendesse esitante.
“Daren? Va tutto bene?”
“Sì” rispose sbrigativamente. “Più o meno. Sono stato a lungo lontano, in mezzo a persone con cui non potevo parlare. Ho mantenuto la facciata del drow diffidente e quasi paranoico, come scusa per non allacciare rapporti personali con nessuno. Per questo, nessuno ha sospettato che fossi una spia: una spia avrebbe cercato di fare amicizia con persone importanti. Io credo nel valore dell’apprendere lentamente, attira di meno l’attenzione. Ho impiegato cinque anni ad acquisire quelle informazioni, e in quei cinque anni mi sono chiesto spesso come procedesse la vostra vita qui, se andasse tutto bene. Adesso sono tornato, ed è… strano. Poter di nuovo parlare con le persone è strano. La gente è amichevole con me, non ci sono abituato e non capisco bene per voi dove finisce la gentilezza e comincia l’amicizia, o qualcos'altro. La confusione che provavo in questi primi giorni mi ha impedito di riconoscere un particolare approccio per quello che era.”
Johel ascoltò con attenzione, ma gli ci volle qualche secondo per parafrasare le frasi criptiche del suo amico.
“Oh. Oh, capisco. Qualcuno… o meglio qualcuna… è stata troppo amichevole con te? Hai ricevuto delle avances?”
Daren aveva la pelle nera, come tutti i drow, quindi non si vedeva quando arrossiva. Per fortuna.
“Già questo sarebbe difficile da gestire, per me. Ma è peggio di così.”
“Peggio? Cosa c’è mai di male in un flirt? Io non ti ho mai capito, insomma, ti piacciono le donne o cosa?” Domandò Johel, ma senza cattiveria, solo per curiosità.
“Sì, sì, mi piacciono” mugugnò Daren. “Sono carine, sono fatte nel modo giusto, è solo che… se ti leghi ad una donna le darai il controllo della tua vita. E non se ne parla, amico. Assolutamente, da parte mia, non se ne parla.”
“Non devi per forza legarti.” Il ranger si strinse nelle spalle. “Io ho avuto un sacco di avventure, e non mi riferisco a quelle con arco e spada.”
Daren ridacchiò, ma solo per allentare la tensione che sentiva.
“Mi dispiace. Sono condizionato dal mio passato, concedere ad una donna il potere di sapere che la desideri per me è pericoloso.”
“Potere? Che cosa stai dicendo, le relazioni non sono una questione di potere.” Johel agitò una mano come a voler dissolvere quell'idea ridicola. “Non sei più in mezzo ai drow.”
“La malizia e l’astuzia femminile non sono una caratteristica solo dei drow.” Borbottò il guerriero. “E comunque ci penserò se e quando incontrerò una persona con cui io possa liberamente intrattenermi, cosa che finora non è successa.”
“E questo flirt…?”
“Totalmente non richiesto da parte mia” sottolineò Daren. “Questa ragazza è attratta da me solo perché sono una curiosità, perché sarebbe una cosa trasgressiva.”
A questa spiegazione, Johel cominciò ad avere un tremendo sospetto. “No, aspetta, non vuoi dire…? Mia cugina?”
L’amico si limitò ad annuire.
“Ho parlato con i tuoi zii. Ovviamente hanno capito la situazione e non mi imputano alcuna colpa, ma quando ho proposto che avrei lasciato la foresta per un po’ di tempo mi sono sembrati sollevati.”
Johel si passò una mano sul viso, sconcertato. Aveva sperato che, dopo cinque anni di assenza, avrebbe potuto passare un po’ di tempo con il suo amico. Che Daren avrebbe avuto occasione di inserirsi nelle dinamiche sociali del suo popolo e avrebbe sentito sempre meno di essere diverso. Invece ora questo, e lui che se ne voleva andare subito.
“I miei zii si sono comportati molto male.” Mormorò alla fine, sentendosi a terra.
“No” obiettò Daren in tono calmo ma deciso. “Non fare il bambino, io posso essere un Ruathar, posso essere completamente accettato dalla tua gente, ma nessuna figlia di un capoclan elfico dovrebbe mai intrattenere una relazione con un drow. Sono io il primo a capirlo, e soprattutto non lo voglio. Mi offende che lei sia attratta da me solo per spirito di ribellione, o perché sono esotico. È molto giovane quindi ci passerò sopra, ma nel suo capriccio non capisce che non può essere davvero attratta da me, non ci conosciamo affatto, e non capisce neanche che in questo modo mi costringe ad andarmene finché non sarà cresciuta e maturata.”
“E se per allora dovesse essere ancora attratta da te?” Indagò il ranger. “Non hai pensato che la sua infatuazione potrebbe essere genuina?”
Daren scrollò le spalle. “È una sciocca domanda ipotetica, ma diciamo che quando sarà cresciuta sarà anche abbastanza matura da accettare un rifiuto.”
Johel ci pensò un attimo, poi annuì. “Se te ne vai, verrò con te.”
“Adesso? Con la tua foresta in fermento perché deve capire come gestire la vicinanza di quei drow?” Gli fece notare. “Forse non è il momento giusto. Potresti rimanere qui qualche altro anno e poi raggiungermi, e allora potremmo ricominciare a girare il mondo e tornare qui di tanto in tanto, come abbiamo fatto per decenni.”
Johel si passò di nuovo una mano sul viso, riflettendo sui suoi doveri di ranger, verso la foresta e verso la sua famiglia. Era nipote del capoclan e figlio del ranger più rinomato e importante della foresta, certo che non poteva andarsene all’avventura in un momento del genere.
“Va bene. Odio che tu sia così ragionevole. Fra qualche anno…” Accettò quel compromesso. “Ma non partirai subito, vero? Verrai a pattugliare nel nord, con me?”
Daren lo rassicurò con un sorriso. “Verrò a pattugliare nel nord della foresta, ma quando tu tornerai a Myth Dyraalis fra un mese, io andrò via.”
“Oh, bene! Ho un mese per farti cambiare idea.”
“Non cambierò idea.”
L’elfo gli sorrise come in segno di scuse; sapeva che non avrebbe cambiato idea, ma ci avrebbe provato comunque.

I due guerrieri dovevano dirigersi verso nord, ma decisero di allungare la strada uscendo dalla porta meridionale, la Porta dell’Acqua, e poi costeggiare la città spostandosi verso nord. Volevano passare dalla Quarlamne.
Quando arrivarono davanti all'imponente quercia, Johel posò a terra il suo zaino e si arrampicò velocemente sul tronco. Arrivato alla prima biforcazione, estrasse dalla tasca un nastro di stoffa verde e lo legò attorno a uno dei rami, facendo un nodo lasco che potesse sciogliersi facilmente. Voleva mandare un messaggio alla quercia, non ostacolare la sua crescita.
“Io non ti ho mai conosciuto, Arrik Amico degli Elfi.” Cominciò a parlare all’albero, accarezzando la ruvida corteccia con una mano. “Mio zio Fisdril mi ha parlato un po’ di te, del tuo coraggio e del tuo cuore sincero. Mi verrebbe spontaneo ringraziarti, perché hai salvato la vita di mio nonno e perché ora io sono vivo grazie a te. Ma se ti ringraziassi, il mio amico mi potrebbe tirare un sasso, e ha una buona mira anche a questa distanza. Quindi… ti prometto che sarai ricordato. Dovresti essere dentro la città. I bambini dovrebbero poter giocare sotto le tue fronde e vederti ogni giorno. Dovresti essere circondato dalle voci delle persone che hai amato. Ma tu sai che sei più utile qui, a difesa della città, quindi ti prometto che sarai ricordato. Racconterò le tue gesta ai miei figli, un giorno, e ai figli degli altri elfi di Myth Dyraalis.”
L’albero ovviamente non rispose. Le fronde si agitarono debolmente al vento, ma Johel era di umore troppo tetro per accorgersi che non c’era vento. Scese dalla quercia, tornando accanto a Daren.
Il drow fece un passo avanti a sua volta, sorprendendo il ranger con quella decisione improvvisa.
“Io… ah… non ho mai parlato con un albero.” Cominciò. “Mi sembra una cosa stupida perché non credo che tu possa capirmi. Però, se mi capisci… io non so come si fa il Ruathar. Mi hanno detto che non è una cosa che fai, è una cosa che sei, ma io non so bene chi sono e non so come devo comportarmi. Me ne andrò dalla foresta, e non so se questa è una cosa da Ruathar. Temo che ogni cosa che farò sarà una decisione sbagliata. Quindi… chiederò a Johel di raccontarmi le tue imprese, e spero che mi siano d’ispirazione.” Piegò le labbra in un ghignetto, anche se sapeva che una quercia non poteva vederlo. “Nessuna pressione, eh?”

Qualche minuto dopo si lasciarono alle spalle la quercia benedetta e la città di Myth Dyraalis.
“Non pensavo che gli avresti parlato” commentò Johel, rompendo il silenzio.
“No. Nemmeno io” confessò il drow “ma a volte mi chiedo se lui abbia avuto i miei stessi dubbi. Era mezzo elfo e mezzo umano, e non è strano per loro avere dei conflitti di identità. Ma magari mi sbaglio. Magari era una persona felice e realizzata e pienamente in controllo della sua vita.”
Johel rimase zitto ancora per un lungo momento.
“È questa la simbologia della quercia, sai? È un albero sacro e rappresenta la stabilità, la sicurezza.” Guardò Daren con aria critica, poi gli rivolse un sorrisetto. “Secondo me, tu romperai la tradizione. Sulla tua tomba nascerà un agrifoglio.”
Il guerriero fece una faccia che lasciava trapelare solo dubbio e incertezza.
“È una specie di battuta elfica? Perché non capisco…”
“L’agrifoglio è una pianta con foglie spinose e bacche tossiche, che ingerite provocano vomito e problemi intestinali.”
Daren spalancò gli occhi. “Sembra proprio il mio albero!”
Johel rise, pensando alle astruse teorie di certi druidi e sciamani sulle corrispondenze fra uomini, animali e piante.
“Sì, decisamente. Hai in te lo spirito dell’agrifoglio!”
Anche Daren rise. Non aveva avuto molte occasioni di scambiare battute umoristiche negli ultimi anni, e ridere gli era mancato.


***** Fine *****



           

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Capitolo 33
*** 1316 DR: Epilogo ***


1316 DR: Epilogo, ovvero Un'altra missione, molti anni dopo



Nightal 1316, isola di Evermeet

L’elfo del sole camminava lentamente lungo le strade lastricate. Non aveva alcuna fretta e si stava godendo quella passeggiata lungo un percorso lineare, senza ostacoli. Un lusso che aveva quasi dimenticato, dopo la lunga missione nel sottosuolo da cui era tornato solo alcune settimane prima.
Aveva in mano un fascio di fogli per appunti, tenuti insieme da lacci di cuoio. Non si trattava di documenti ufficiali, quelli non potevano uscire dal suo studio, erano soltanto fogli bianchi. La perfetta rappresentazione dell’ignoranza, lui pensava. Ma era un’ignoranza positiva, consapevole, era l’ignoranza del ricercatore.
I suoi passi lo portarono fino ad una piccola bottega. La porta era aperta, nonostante fosse ormai pieno inverno, perché quella parte della città di Leuthilspar era protetta da incantesimi che mettevano al riparo dagli elementi. Era la bottega di un conciatore, in vetrina erano esposti lavori bellissimi, sembrava che quell'elfo dei boschi sapesse lavorare le pelli di qualsiasi animale o bestia magica.
Yalathanil Symbaern entrò nella bottega e si richiuse la porta alle spalle, attirandosi un'occhiata sorpresa da parte del proprietario. Un simile comportamento era quantomeno maleducato. Dopo un momento di stupore, il vecchio elfo dei boschi riconobbe le vesti del nobile elfo del sole. Si alzò dal suo sgabello, mettendo da parte il suo lavoro per servire il nuovo cliente.
“Benvenuto, lord…?”
“Symbaern. Sono lord Yalathanil Symbaern.” Si presentò lui, e l'altro elfo riconobbe il nome di un'importante Casata nobiliare.
“La vostra presenza è un onore, nobile Symbaern.” L'elfo dei boschi piegò il busto in un inchino, ma non era un inchino profondo. Un tempo, il vecchio conciatore era stato un capoclan, e le vecchie abitudini sono dure a morire.
Yalathanil si accorse della cosa e si concesse un sorriso soddisfatto. Adorava avere ragione. E gli succedeva spesso, quindi viveva in uno stato di costante beatitudine.
“Temo di non essere qui in veste di cliente, mio caro… lord Llaemryl.”
Il vecchio elfo dei boschi spalancò brevemente gli occhi, sorpreso. Aveva abbandonato il suo vecchio titolo ben prima di arrivare ad Evermeet.
“Non sono più un lord, era un titolo onorifico conferito ai capiclan. Non si tratta di nobiltà come la intendete qui, con titoli e possedimenti ereditati per discendenza di sangue” spiegò pacatamente, non per minimizzare la sua vecchia posizione ma per rifiutare il titolo di lord, che a suo parere non gli perteneva più.
“Ciò non di meno, eravate un capo, avevate delle responsabilità. Non voglio chiedervi per quale motivo avete lasciato la vostra foresta, ma… si trattava della foresta di Sarenestar, vero?”
“Lord Symbaern, cosa sta succedendo esattamente?”
Yalathanil non voleva mettere in allarme l’anziano elfo, che era venuto ad Evermeet per vivere tranquillo i suoi ultimi decenni.
“Non sta succedendo nulla di allarmante, ma desidero approfondire le mie ricerche su una persona con cui ho dovuto collaborare di recente. Voi conoscete un elfo di nome Johlariel? Dovrebbe provenire dalla vostra stessa foresta.”
“Johlariel Arnavel? Certo, tutti lo conoscono, è un buon ranger, nipote di lord Fisdril, e un giorno potrebbe perfino diventare capoclan.”
L’elfo del sole per un momento fu preso in contropiede da quella descrizione. Un buon ranger? Certo, lo era, e anche molto coraggioso. Ma un nobile? Non si era mai comportato come se lo fosse.
Gli elfi dei boschi erano strani.
“Sì, proprio lui. Ho avuto il… piacere di conoscerlo. Ma ora mi vorrei concentrare sulle sue amicizie. So che appartenevate a un diverso clan, ma sapete per caso se aveva un amico che… come posso dire, vi potrà sembrare strano, ma aveva un amico mezzo umano che non era originario della vostra foresta?”
Llaemryl guardò l’elfo del sole con sguardo vuoto. Guardò anche il suo blocchetto per appunti.
“Penso che vi aspettiate una storia molto interessante, su questo mezzo umano.” Commentò. “Ma io non ne so nulla. Sono passati più di vent’anni dall’ultima volta che l’ho visto, potrebbe aver conosciuto un mezzo umano dopo la mia partenza.”
“Potrebbe non essere un mezzo umano.” Azzardò Yalathanil, ricordando le ultime parole che quel guerriero gli aveva rivolto: “Solleva il tuo cuore, dunque. Non sono davvero un mezzelfo.”
L’ex-capoclan si strinse nelle spalle. “La vostra richiesta si fa sempre più criptica.”
“Non so con esattezza cosa sia.” Ammise Yalathanil, sempre più a corto di pazienza. “Ma potrebbe discendere, anche alla lontana, dal popolo degli elfi scuri.”
“Ah.” Mormorò il vecchio elfo dei boschi, irrigidendosi all’improvviso. “Be’, sì. Penso che vi stiate riferendo al suo amico drow.”
Il nobile elfo del sole sembrò congelarsi sul posto. La mano che reggeva una piuma magicamente inchiostrata, pronta per prendere appunti, rimase bloccata a mezz’aria. L’idea di aver camminato nel sottosuolo accanto ad un drow lo aveva paralizzato di terrore retroattivo.
Solo dopo un lungo momento, trovò di nuovo la voce.
“State scherzando.”
“Non mi permetterei mai.” Negò lord Llaemryl. “Non con voi, e non su un simile argomento. Ma, per quanto io stesso sia poco felice della cosa, il drow si è comportato come un amico sincero, chiunque nella foresta di Sarenestar ha dovuto riconoscerlo.”
Yalathanil abbassò lentamente la mano che reggeva la piuma.
“Mi piacerebbe approfondire la cosa.” Propose con cautela. “Avete un po’ di tempo da dedicarmi?”
Llaemryl gli fece cenno di precederlo nel retrobottega. “Certamente. Non sono la persona più informata sull'intera vicenda, ma sono al servizio di Evermeet.”


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E così si conclude una storia che giudico una delle più importanti nel ciclo di questi personaggi. Mi sembrava giusto chiuderla con un cameo ad un'altra storia, Jolly Adventures; un mini epilogo come quelli nei film della Marvel dopo i titoli di coda, e con un formato nel titolo che ricorda i titoli di Jolly Adventures. Spero che L'Amicizia non genera debiti vi sia piaciuta.

     

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