Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Frozen Teardrop è un abominio inenarrabile, la cui unica ragione di essere è rivalutare la qualità artistica e letteraria delle peggiori fanfic in circolazione. Frozen Teardrop per me non è né sarà mai canonico. Frozen Teardrop è solo un brutto sogno e non è mai esistito.
Dunque, dal momento che qualunque post-EW è preferibile a Frozen Teardrop, questo è un caleidoscopio di futuri contingenti, spesso incompossibili.
Lo posto qui, perché altrimenti continuo a metterci mano e non scrivo le cosine che sono pagata per scrivere. Questa è fondamentalmente un'operazione d'igiene mentale, perché sono totalmente incapace di pensare a due cose contemporaneamente e devo in qualche modo elaborare l'ira funesta da Frozen Teardrop. In altre parole, è un lavoro scritto fondamentalmente per la sottoscritta, ed altrettanto fondamentalmente pubblicato perché la sottoscritta non continui a scriverlo. Ciò detto, nell'improbabile ipotesi che qualcuno passi da questi lidi, a me fa sempre piacere scambiare due parole – anche perché Gundam Wing ha più di vent'anni ed è difficile trovare leve della vecchia guardia con cui chiacchierarne.
"Comincionsi
le guerre quando altri vuole, ma non quando altri vuole
si finiscono."
–
Niccolò Machiavelli, Istorie
fiorentine III, cap. 7 –
I.1
"Padre,
perdonami perché ho peccato. In pensieri, parole ed omissioni.
Le opere,
quelle, già le sai. Sono imperdonabili".
Dietro
alla grata del confessionale, gli occhi di Duo sono l'unico
lampo di colore,
tra il cardinalizio ed il quaresimale.
"Che
penitenza credi di meritare? Mille Salve
Relena e l'assoluzione?" Il tono è rassegnato, stanco,
fattuale;
taglia più a fondo della falce di 'Scythe.
"Duo...
avevi ragione".
"Amen,
fratello. Rendiamo infine grazie a Zero-Due. Vattene in pace".
È quello il problema, gli vorrebbe
dire, a capo
chino e con un segno di croce. Poi lascia una manciata di monete
e accende due
candele mezzo consumate, ex
voto
rimesso quasi con devozione, per una fiammella tremolante:
almenonon l'ha
congedato con un Ritorna
solo per l'estrema unzione.
Relena
viene a Bruxelles per riferirgli la notizia di persona – Hilde
non ha avuto
cuore di chiamare –: un
guasto al
propulsore; nessun superstite; solo un relitto, polveri
pesanti, vuoto
siderale.
La
vita, senza Duo, continua come sempre, monotona, uguale.
D'altronde, non si
vedevano da anni – di rado sullo stesso corpo celeste; mai sullo
stesso
continente.
Duo è
morto; non cambia quasi niente. Heero lo accetta (è un fatto,
che altro si può
fare?), come ha accettato la guerra, la pace, e tutto il resto.
Per
qualche giorno ha meno appetito – sarà l'età, sarà un
raffreddore: nulla,
ormai, ha più lo stesso gusto. Dorme un po' meno; beve un po'
troppo e un po'
troppo spesso; acconsente solo a incarichi rischiosi da cui
nessun altro
sarebbe potuto ritornare... Insomma, niente di nuovo sotto il
sole.
Passando
il contropelo tra il mento e la gola, radendosi si taglia un
paio di volte – la
lama è ottusa, è un graffio, un incidente.
Lo
specchio si rompe. Ed Heero quasi si sorprende nel trovarsi
sulle mani vetro e
sangue.
Poi –
in una scheggia che si fa corteggiare dal lavandino, forse dal
pavimento – lo
taglia il suo sorriso di riflesso: contro lo stipite, a braccia
conserte, col
solito languore compiaciuto, nonostante gli anni Duo è
pressappoco lo stesso;
certo non è uno spettro.
La
faccia di Heero, le sue mani, il sangue, il resto del corpo,
sono una domanda;
il Bieco Mietitore li soppesa, come a metterli in tasca –
furbetto, gli occhi
da bambino, sembra felice, monello; sghignazza; gli ruba pure
l'anima di dosso.
"Heero
Yuy, possibile che in tutto questo tempo tu non abbia imparato
un
accidente?"
E poi
gli chiede dove sia l'ammoniaca, un accendino, e un orologio da
sacrificare per
rendere più fico il detonatore.
Gli
anni non sono stati indulgenti con nessuno di loro: troppe
atmosfere su ossa
ancora tenere come ali d'uccello, troppa morte nel cuore che ha
vissuto appena,
troppo sangue sulle mani e su tutto quello che dovessero
toccare, troppa guerra
combattuta e vinta da bambini, perché potessero esserlo.
Ventenni,
negli occhi hanno orrori inenarrabili, incancellabili, a cui non
possono
sfuggire, da cui non si storna lo sguardo – come un film datato,
o un album di
ricordi sfogliato in una casa di riposo.
Trentenni,
hanno acciacchi da vecchi, gli organi logorati, gli animi
stanchi.
Quatre,
se lo porta un colpo al cuore – a mezzogiorno, tra la terza
tazza di caffè e la
quinta sigaretta per quella riunione –, prima dei trentacinque.
Per
quasi due decenni, Trowa vive in un'ombra semicrepuscolare, tra
profili
sfocati, solidi come sogni, che soltanto lui riesce a vedere. Il
filo sotto i
piedi, lo può a malapena a indovinare; ogni passo è falso, la
meta una soltanto:
danza coll'abisso – e ci rimette un femore, tre costole, un
ginocchio, che non ritorneranno
mai del tutto a posto. Finisce col gettarsi in pasto ad un
leone, chiedendo per
piacere.
Wufei,
verso i quarantaquattro, ha perso il senno: rincorre gatti
immaginari; confonde
Cicerone con Confucio, conta la vita in multipli di cinque;
rilegge i lirici su
un quaderno bianco, tutte poesie d'amore, ad alta voce, per
l'ombra di Meilan
che vive con lui nelle sue stanze di libri chiusi e vecchie
alabarde polverose,
eternamente invincibile e quattordicenne. Le versa il tè, le
serve la cena, le
offre fiori di carta ed origami così delicati che sembrano sul
punto di
sgretolarsi – forse, soltanto così glieli può offrire. Una volta
al giorno, Duo
– col suo passo da ladro, stando attentissimo a non farsi vedere
– s'intrufola
da lui per sparecchiare, per lasciargli abbracciare l'illusione; ma, di tanto
in tanto, Fefè crede che siano stati i gatti ch'è convinto
d'avere.
Dapprima
ogni mese, poi settimanalmente, infine ogni sera, Heero con Duo
passa buona
parte della notte a ricordare cose di guerra: sogni imitati, da
finto liceale;
fratture ignorate, che vent'anni dopo fanno male; dirsi
buongiorno a colpi di
pistola; come fosse inebriante scontrarsi nel vuoto; la gravità,
l'ebbrezza, perdere
i sensi, il precipitare; la libertà che senti quando credi di
stare per morire;
la leggerezza e la rassegnazione, il peso d'ogni giorno; il
dubbio d'essersi,
già allora, amati tanto; questa o quella missione; le colonie –
casa? – e il
loro tradimento; la convinzione folle che ci fosse speranza per
il mondo; il
matematico cinismo del Sistema Zero; le piccole stranezze, le
eccentricità, che
avevano gli altri; la sorpresa, la gioia, l'incredulità d'avere
un amico, finalmente.
Tante
cose, Heero le ha capite quasi immediatamente:
Wufei
vede male da vicino, eppure gli occhiali da lettura gli fanno
venire gli occhi
rossi. Beve tè bianco, come se in un sorso potesse sciacquar via
l'amarezza. Shenlong,
per lui, è e non è Nataku;
Nataku, per Wufei, è
la treccia per Duo.
La sete di giustizia, il disperato senso dell'onore, sono tutto
ciò che gli
rimanga della sua gente, di quello che sarebbe potuto diventare
un grande amore.
Wufei
spera ancora nella retribuzione.
Quatre
vede più di quanto lasci intendere: le cose come sono, quelle
possibili e
quelle da evitare; per lui l'impossibile è solo un parametro da
ridefinire. Beve
troppo caffè, ma preferisce un tè verde, bollente,
disgustosamente dolce. Il
suo senso di colpa è non tanto per gli atti, quanto per le
omissioni, per il
suo sangue, per il privilegio e la tragedia della sua nascita;
s'estende ad
includere le circostanze, le scelte degli altri, e – nei giorni
difficili – le
leggi della fisica. Spesso dorme male, e mai abbastanza; non è
accertato che
sia capace di sognare. Quando suona il violino o ascolta la
musica, prima della
melodia, sente la matematica. I silenzi di Trowa sono oggetto di
pura ed
assoluta riverenza, come se gli rivelassero infine qualcosa che
non si prevede
e che non s'aspetta, l'ottava meraviglia. Quatre s'aggrappa
all'immagine che
vorrebbe avere di sé, alla sensibilità, al tatto, a un'indole
gentile: se ne
riveste, come d'una corazza, perché è terrorizzato da quel che
cova in cuore – e
da come pensa con la testa.
Trowa
ha dieci decimi, vede con chiarezza. Non beve né tè né caffè, se
Quatre o la
parte non lo forza. Riesce a dormire in ogni circostanza – bene,
qualche volta.
È di poche parole, tutte pesate, tutte giuste; quasi tutte
buone. Il suo
silenzio è eloquente, e culla qualcosa di così gentile che
diventa fragile;
l'avvolge, ma non lo nasconde. Trowa ha la serietà e la
leggerezza d'un
trapezista; sotto ai riflettori, passa inosservato, come
un'ombra. Sa essere
chiunque, all'evenienza.
Duo è
un mistero, la contraddizione e il doppio di sé stesso – quasi
un segreto che
si rivela come una domanda.
Duo
beve tutto, purché lo tenga sveglio, senza preferenza; Heero non
è ancora
convinto che Duo dorma.
Di
tutti loro, indubbiamente è Duo il miglior pilota; l'infiltrato
più scaltro; la
minaccia inattesa che entra dalla finestra – come brezza –, fa
una carneficina
come fosse una festa, ed esce senza chiudere la porta. Ne fa un
punto
d'orgoglio, però non se ne vanta. Duo è competitivo e sa che il
vero
virtuosismo è nel controcanto: è più a suo agio sullo sfondo,
per fare quel che
deve – quel che vuole – e potersi defilare indisturbato; detesta
dover prendere
commiato, perché sa per esperienza che voglia dire essere il
solo che rimane –
e lo terrorizza.
Duo
non mente mai, ma offre spesso mezze verità, in apparenza senza
alcuna
importanza – Heero, tuttora, sovente non capisce quale sia una
perla di
saggezza e quale una sciocchezza.
Duo –
che corteggia la Morte e si definisce Gramo
Mietitore – ama la vita e gli esplosivi, quasi con
tenerezza.
Duo,
con Deathscythe, ancora si confessa – o meglio, coll'unico
bullone che gli
resta.
Duo è
una tempesta che cova in un mattino di sereno. Duo è la pace
nell'occhio del
ciclone. Duo è sorprendente e spiazzante come un giorno di
pioggia per chi,
dalle colonie, non l'ha mai vista.
Duo
fa lo scemo, però alla guerra, poi, ci va lo stesso.
Ma
c'è una cosa che Heero, come un profeta, ha saputo sempre
dall'inizio: tutti
loro sono armi, un poco difettate, di distruzione di massa – e,
senza disarmo,
non c'è armistizio.
Finita
la guerra, Heero è alla deriva: disperso in mezzo a chissà quale
mare – che, calmo,
fa tanta più paura di quand'è in tempesta –, non alza lo sguardo
e non parla;
forse è troppo impegnato a tenersi a galla.
Passa
le giornate a piegare origami – di carta da zucchero e carta velina, carta
bibbia e carta di riso; di carta riciclata e cartastraccia – in
gru, rane e
farfalle; insetti tristi; poligoni impossibili, deliri
matematici; figure
antropomorfiche spettrali, che sembrano cadaveri; cuori troppo
realistici.
Duo
ci prova, però anche lui ha i propri fantasmi e, per queste
cose, ha poca
pazienza; per vederlo così, non ha più la forza.
Trowa
– avendo giocato col fuoco, o forse perché è caduto un po'
troppe volte
battendo la testa – ha sensibilità nell'animo, ma non nella
punta delle dita.
Quatre
ha a malapena il tempo per un'email e una telefonata di
circostanza; potrebbe
non averne abbastanza neanche per il senso di colpa.
Dunque
è Wufei che siede con lui nelle ore più lunghe delle mattine
pallide, dei grigi
pomeriggi.
"Insegnami",
gli chiede.
E le
mani di Heero piegano più adagio, meticolosamente, come spiegando
il piano di un'ultima
battaglia.
Heero
stappa una bottiglia di vino, che ha per caso – cortesia di
Quatre per
costringerlo a scrivere o a chiamare, forse anche per
ricordargli di qualche
anniversario. Non ha badato affatto all'etichetta: Milliardo
sarà pure partito
soltanto con quel che aveva indosso, con Noin a seguito come
compagna o cane da
guardia, e un pezzo di sapone in tasca, per lavarsi l'anima; ma,
ancora adesso
che ormai è ritornato, quel rosso rubino gli ricorda la sua
uniforme ai tempi della
guerra – e questo a Heero basta.
Almeno
Zechs ha abbastanza rispetto da risparmiargli predica e movenze:
che le cose
stanno migliorando; che Relena è la stessa ed il potere non la
sta corrompendo;
che così è la vita; che i suoi compagni certo capiranno; che la
guerra è
finita... Neanche lui ci crede.
E
allora si sorvegliano in silenzio, una bottiglia di vino ed un
bicchiere in
mezzo, da un lato a quello opposto della barricata.
L'incanto
– l'illusione – della pace si spezza in un giorno banale, un
sabato di sole,
mentre s'affaccendano ad essere come tutti gli altri, in quello
che avanza
della calca del mercato settimanale, all'ora un poco tarda in
cui ci si affretta
per andare a casa a cucinare. Un paio di sacchetti della spesa a
testa, se la
prendono comoda, godendosi la gravità e l'atmosfera della Terra,
la compagnia
dell'altro, e qualcosa che immaginano somigli alla
spensieratezza, a passo
lento e lieve, senza altre faccende da sbrigare.
Oggi,
la cosa più eccezionale saranno Dorothy e Relena ospiti per
cena; e Duo ha
avuto la geniale idea d'invitare anche Quatre e Trowa, per
ridere di più
disgrazie altrui ed avere qualcun altro a compatirlo
sogghignando sotto i
baffi, impercettibilmente. Che Heero non possa farci niente, è
inutile dirlo:
già è tanto che l'idiota si sia degnato d'avvisare, tra il
chiosco delle spezie
e quello della frutta.
La
questione più spinosa – italiano, arabo o orientale? – è stata
lungamente dibattuta,
risolta ed archiviata. Duo squamerà il pesce, affetterà le
verdure per la
zuppa, poi sarà prontamente esiliato sul divano, per ridurre al
minimo la probabilità
di esplosioni o d'avvelenamento – Milliardo è ancora convinto
che si sia
trattato d'un atto intenzionale e premeditato; Heero, dal canto
suo, vivendo in
quell'appartamento, avrebbe fatto volentieri a meno della
(tuttora persistente)
puzza di bruciato.Entrambi non sono inclini a incaponirsi sul
servizio di
bicchieri, posate e piatti da portata: per Heero non fa
differenza e non
gl'importa; Duo non avrebbe problemi a far mangiare gli invitati
in piedi,
colle mani, dalla pentola. Con un po' di fortuna, un paio di
birre
strategicamente piazzate, ed una buona dose di santa pazienza –
Heero non ha
ancora assassinato Duo: è la prova provata che ne ha tanta –,
non ci sarà
niente da ridefinire, spanna a spanna, come un confine in una
guerra di
trincea. Tutto sommato, si prospetta una piacevole serata; dovrà
soltanto
premurarsi che tutte le lame siano ben smussate, nel caso ci
scappi la
coltellata.
Meditazioni
oziose, non valgono a distrarlo, né contano più niente, quando
infine li vede. Accanto
a lui, Duo è una statua di sale, questione d'un istante.
Seduti
al bar, sul ciglio della strada, ciascuno di fronte a una
granita troppo allegra,
troppo colorata, il Dottor J e G, il Professore, sembrano
pensionati, vecchietti
in vacanza; sventolano il giornale, sorridendo – un passate
curioso di certo
penserebbe che stiano richiamando l'attenzione dei nipoti.
Stanno benissimo,
per essere due morti.
"Domani.
22:00. Portate Zero-Tre e Zero-Quattro", ordina J, diritto al
sodo,
alzandosi e appuntando su un tovagliolo solo le coordinate, con
la mano di
carne. G lascia una mancia generosa al cameriere, a loro un
saluto.
Nella
fondina – senza cui non esce – discretamente coperta dalla
giacca, la pistola
a Heero non è parsa mai così pesante.
"Almeno,
per stasera non dovremo disdire", osserva Duo, approfittandone
per fare
una pausa: requisita una sedia, i piedi sul tavolino, sbuccia
una mela sottratta
dalla busta della spesa.
Il
coltello a serramanico gl'è passato dallo stivale alla mano così
velocemente
che finanche Heero ha avuto difficoltà a seguire il movimento –
ma non esita ad
accettare lo spicchio che gl'è offerto, in bilico tra un pollice
e il filo del
rasoio.
Zero-Uno
è l'ultimo della lista, dunque se lo aspettava; non è comunque
pronto.
Questo,
qui e adesso, non è un futuro che il Sistema Zero ha computato:
questo, qui e
adesso, è un sacrificio umano, troppo umano – forse alla pace,
forse alla
guerra, forse allo spietato ordine del mondo, forse al passato
che hanno
condiviso, al tempo sprecato –; l'esito è tanto infallibile
quant'è stato
inatteso.
La
consapevolezza segue al primo affondo, sul filo del rasoio,
preciso per intento
ed esperienza: è già finita, non in un fiotto, ma con una calma
ineluttabile,
goccia a goccia. Non può fare niente, se non provare con le mani
a tenersi le
budella dentro, ad afferrare un attimo ancora, caldo,
appiccicoso e che macchia
le dita scivolando via, senza scampo.
Perché?, vorrebbe chiedergli, ma ha troppo sangue
in bocca – e
la domanda, in fondo, non ha senso.
Zero
è una sua vecchia conoscenza: è familiare, noto, pensano allo
stesso modo;
sarebbe stato un amico, se un Sistema potesse capire il
sentimento.
Sin
dall'inizio, Zero è stato il principale indiziato: l'unico –
credevano – in
grado di riuscire nell'impresa, soltanto per un calcolo
efferato.
Ma
oltre al calcolo, Heero ha davanti anche tristezza e
risentimento, cose che
Zero non è in grado di provare.
Bizzarro – pensa – quanto
sia facile dimenticare che un pilota solo ne abbia sconfitti
due al contempo, quasi
senza sudare. Bizzarro, quanto sia facile ignorare un numero
di mezzo.
Bizzarro, quant'è facile perdonargli il dolore, l'assassinio,
finanche il
tradimento.
Zero
non s'inginocchierebbe mai di fronte a un moribondo, a
sfiorargli una guancia e
segnargli la fronte, in un addio e una benedizione.
Zero
non si prenderebbe mai la briga di spiegare che soltanto così,
soltanto
eliminando tutti loro, la guerra potrà davvero finire.
Zero
non saprebbe dire mi
dispiace. Zero
non capisce amore o devozione.
No, non
è Zero che lo guarda, cogli occhi di una Morte che Heero conosce
troppo
intimamente.
"Ti
voglio tanto bene", non è Zero infine a confessarlo, un peccato
regalato
che non ha assoluzione.
Duo
si porta la stessa lama alla gola; in un sorriso scarlatto,
mischia il loro
sangue per l'ultima volta.
Heero
lo sa: sa che non è Zero, sa che è necessario e personale – e
che avere appena
il tempo di vederlo morire, è la sua punizione. Un istante dopo,
non importa.
È
cominciata così come comincia sempre tutto, tra di loro: con una
sfida, che
sembrerebbe all'ultimo sangue, ma è appena semiseria; una
competizione tra
compagni cui piace vincere, giocando ad essere rivali, per
l'euforia di confrontarsi
finalmente con qualcuno ad armi pari. O forse era cominciata
tanto prima, con
un paio di colpi di pistola, sparati senza mirare né alla testa
né al cuore.
Per
capire che Duo, a suo modo, è affidabile, talentuoso, e
competente, c'era
voluto un istante – col braccio dominante fuori uso,
all'improvviso; una
pallottola precisamente a un centimetro e mezzo dall'arteria
femorale; e lo
stupore che qualcun altro al mondo potesse capire.
Negli
anni che entrambi hanno smesso di contare, quasi ogni giorno è
stato una
battaglia – che si combatte con rispetto, con onore, e perché si
vuole – in cui
arretrare talvolta è necessario come un passo di danza, ma è
anche l'avanzata
che vince la guerra, senza che nessuno perda.
Come
per ogni missione, Heero non ha mai avuto dubbi, non ha fatto
domande, e sotto tortura
non ha detto niente. Però, a un alleato bisogna far rapporto,
chiedere o dare
indicazioni e direttive: anch'io;
che
vuoi per colazione?; non fermarti; resta; per favore.
"C'è sempre un'altra guerra", ringhia
Wufei,
con sacrosanta indignazione, la voce distorta dall'ira, dallo
sforzo e dal
ripetitore di scarsa qualità – com'è d’altronde il resto del
robot inferiore
che si trova costretto a pilotare.
"È la stramaledetta natura umana",
sentenzia
Duo, di nuovo nei panni di giudice e giuria. "Siamo una massa di
carogne e
di cretini". Elettosi boia, decapita tre avversari di fila, in
un colpo
solo, con una barra di metallo che mezz'ora fa era un lampione.
"Noi per
primi", è un pensiero detto sottovoce, mentre gira un angolo di
corsa, o quanto
di corsa quest'ammasso di ferraglia possa andare. "Oh, coraggio,
Ronzinante! Non mi abbandonare!", incita il catorcio, che
nonostante tutto
ha battezzato con l'olio del motore ed uno sputo, poi nel sangue
nemico. Ribadisce
il concetto con un paio di colpi bene assestati al pannello di
controllo; dalla
trasmittente, suonano come bombe.
"La guerra non è mai finita", osserva
Quatre
dalla retroguardia, con acume politico oltre che militare – non
che,
nell'infuriare dell'ennesima schermaglia, abbia la voglia o il
tempo di stare a
pensare alla diplomazia e agli assetti cangianti sullo
scacchiere
internazionale. "Zero-Tre, avanza a ore due. Zero-Uno, ore
dieci. Proviamo
a circondarli e a chiuderla qui, almeno per oggi", aggiunge,
conciso;
tutti gli altri sentono chiaramente che sta trattenendo
un'imprecazione o una
bestemmia, uno dei novantanove nomi di Allah (o di qualunque
cosa in cui, di
questi tempi, creda) sospeso tra la gola e le labbra, sulla
punta della lingua.
Trowa esegue alla lettera, senza dire
niente. Ar-Raḥmān, Ar-Raḥīm, Al-Malik... Strattonando i comandi, conta tra sé e
sé, per vedere
quanti ne ricordi. È un esercizio ozioso: già sa la risposta; sa
quali, perché,
e come si scrivano in caratteri arabi, con le dita, su una
schiena nuda. I
freni funzionano male, il braccio sinistro a stento si muove; se
lo farà
bastare. Ognuno, in battaglia, si consola come può, con quello
che gli pare.
Dopo una vita a farlo, uccidere richiede scarsa concentrazione,
come mangiare fuoco
negli ultimi spettacoli d'una tournée che si è trascinata troppo
a lungo.
"Qui Zero-Uno. Ricevuto," conferma Heero.
È
stanco, è dolorante, è sudato: manca l'aria, in quest'abitacolo
con cui non ha
ancora familiarizzato – ed è progressivamente più convinto che
il sistema di
ventilazione non sia rotto, bensì difettoso. Wing, lui gli manca
come un arto
amputato. E gli manca anche la certezza d'essere un uomo
d'onore, di parola;
presto gli mancherà pure il coraggio di guardarsi in faccia,
sebbene con
vergogna. È stato un ragazzino scellerato, si è fatto una
promessa che mai avrebbe
potuto mantenere; forse anche allora lo sapeva – avrebbe dovuto
– ma
ingenuamente ci sperava. Heero è comunque un soldato: ha ucciso,
sta uccidendo,
ucciderà ancora, perché deve, anche se non vuole; e che non
voglia non gli
dovrebbe importare, come non importa quasi a nessun altro.
"Passo e chiudo."
Ma il canale privato, quello tra loro due,
è sempre
aperto: sull'interferenza statica di fondo, la voce di Duo gli
fa compagnia,
con un flusso di parole di cui è irrilevante il senso (rimpianto
per G o un
qualunque ingegnere che sappia il suo mestiere, giudizi
impietosi sui propulsori
e sul baricentro, improperi da far arrossire uno scaricatore di
porto, assiomi
a caso di matematica pura, leggi della fisica quantistica); poi,
canticchiando que serasera tra una sprangata, una granata ed una serie
di spari, rigorosamente
a ritmo. Alla metà della seconda strofa, Zero-Due l'ha quasi
raggiunto; Heero
lo vedrebbe, se questa carretta avesse sensori sul retro – ma
per saperlo, non
he ha bisogno. Al ritornello, l'ha superato e gli apre la
strada: come spesso
in passato, sorridendo e parlando d'altro, fa il suo lavoro
sporco per salvare
quanto sia possibile salvare, parandosi tra la coscienza di
Heero e la carne da
macello.
"Duo... grazie", gli dice dopo, quando per
oggi
è tutto finito e sono entrambi di nuovo all'aria aperta – che è
sporca di
polvere e rovina, di spazzatura e di qualche cadavere che
brucia.
Duo non alza lo sguardo, ma
stringe un po' più
forte la sua mano. "Mi dispiace d'essere arrivato tardi, che sia
stato
troppo poco", di aver
solo limitato
i danni, di non avertelo impedito, di non averti salvato.
"Diavolo, Ronzinante
è lento!" Si sta scusando di non essere onnisciente,
onnipresente e onnipotente, di non essere Dio; e benché sia un
miglioramento
rispetto a qualche anno addietro, quando ne era convinto, per Heero è
un nonsenso.
"No, Duo, quello non importa. Grazie... di
essere
mio amico".
L'impatto
giusto, l'angolo perfetto, l'irresistibile pressione che
trapassa le cervella –
senza sforzo, senza resistenza –, e tutti s'afflosciano come
bambole di pezza.
Lei è
andata giù diritta, una mazza di scopa: probabilmente Relena è
l'eccezione
anche alla fisica e alla morte. Non alla politica.
Ed
Heero, con orrore, è colpito in faccia dalla consapevolezza di
non provar
nient'altro che rassegnazione, un po' d'amarezza.
"La
Pace è finita. Questa è la dichiarazione d'una nuova guerra", è
tutto quel
che pensa. "Sbarrate le uscite, inclusi i dotti d'aerazione, le
fogne e le
finestre", è quello che dice. E già marcia all'ingresso
principale,
inamidato quanto l'uniforme, trascinando sulla bocca dello
stomaco un peso
piccolo piccolo, che quasi non sente e forse è il suo cuore.
È Duo
che corre accanto a lei, contro il buon senso a tamponarle le
ferite, a
mormorarle parole rassicuranti (le sole che conosca, tutte
vagamente
salmodianti, in una lingua morta, retaggi dell'infanzia), ad
inginocchiarsi nel
suo sangue, perché qualcuno deve. Gli bagna i vestiti, gli
sporca le mani;
dispettoso, gli s'infila nelle scarpe, come pioggia che l'avesse
aspettato in
una pozzanghera in cui si decide di saltare; lento, ancora
caldo, come una
carezza, piano gl'inzuppa la punta della treccia, gli resta nei
capelli e fa
amicizia col resto dei defunti che Duo si porta dietro, sulle
spalle, ma che ancora
oggi non sa come piangere.
Poi,
come un cappellano militare, le chiude gli occhi e la saluta con
un bacio sulla
fronte – lei che fu la sua rivale, l'amica migliore –, un'altra
gentilezza che
non serve a niente.
Come
la verità sbattuta in faccia, con una pistola piantata in mezzo
agli occhi, una
nove millimetri a punta cava diventa complicata da ignorare.
Eppure,
una parte di Heero cerca comunque scuse, o una spiegazione, il
trucco
seminascosto dal sipario che sveli l'illusione; almeno una buona
ragione. Questa
parte di Heero, che ostinatamente vorrebbe aggrapparsi ancora a
una speranza, però
non è disarmata né ha entrambe le braccia fratturate; un taglio
di machete da un
lato all'altro della spalla, passando l'osso come fosse burro; e
la canna d'una
semiautomatica posata sulla fronte, ancora bollente, in uno
strambo bacio della
buonanotte.
Da
protocollo, questa parte andrebbe eliminata, immediatamente,
prima che possa
compromettere il resto della missione. Ma la missione è già
naufragata; e tutti
loro, i rimasti, saranno sommersi dai marosi, spolpati dalle
onde alla deriva –
inclusa la parte difettata e le altre parti di Heero, che a
stento sta in piedi
e senza dubbio sragiona.
Oltre
alle fratture, oltre alla ferita, oltre all'intimità
indesiderata con una
Magnum – che ha i suoi anni, ma è perfettamente curata, e puzza
di polvere da
sparo consumata, lealtà cieca, del sangue sulle mani da una vita
–, Heero probabilmente
ha almeno una contusione. Lo stomaco gl'è stretto in una morsa e
dalla nausea (o
forse è solo l'agonia); il neon anonimo è stranamente morbido,
sfocato; la
stanza (tutta: il muro segnato dagli spari, sotto la sua
schiena; il soffitto,
sul punto di cadere; il pavimento, ch'è pura gravità,
esponenziale) respira, si
contrare, sembra farsi più piccola e più grande, quasi viva,
trema come una
convulsione. E la voce del buon senso è diventata quella di Duo,
con tanto di
tono, di registro, del monologo che già gli ha ripetuto quasi
all'infinito –
uscendo di casa, trenta secondi dopo la convocazione;
bisbigliando, in un
controcanto sottovoce, per tutta la riunione; poi saccheggiando
l'armeria, tra
un ordine, un per favore
furioso
quanto una bestemmia, ed un segno di croce; sul jet anonimo e
straordinariamente
silenzioso, pilotando con una tensione che non gl'aveva mai
visto addosso; infine,
un attimo prima d'andare a piazzare gli esplosivi nei punti
nevralgici della
base nemica, supplicandolo, con disperazione... Aspettami. Non fare niente d'avventato. Non entrare da
solo, nel caso
fosse vero.
È
vero. È tutto vero. Heero non ha aspettato.
Ed
ora non c'è niente a frapporsi tra lui e Trowa – tranne la
pistola sulla pelle,
pesante come un abbraccio troppo forte quando ci si saluta a
malincuore.
Vent'anni
d'amicizia giacciono di lato, trafitti dal coltello ormai
spezzato che Heero
non ha usato – avrebbe potuto, avrebbe dovuto; il cuore gliel'ha
impedito.
Trowa
l'aveva raccolto quando era appena un burattino rotto,
autodistrutto; l'aveva
portato a casa, cullato nel pugno di Heavyarms; l'aveva curato;
l'aveva
nutrito; l'aveva ascoltato confessare che morire fa atrocemente
male, e insieme
ne avevano riso; l'aveva accompagnato nella sua cerca della
redenzione, per tenergli
la mano e seppellirlo nel caso in cui avesse ottenuto la sola
che potesse
comprendere o volere, la sola commisurata all'errore. Vent'anni
d'amicizia... La
parte sciocca di Heero, no, non ha potuto; nessun'altra ha
osato.
Ma vent'anni
d'amicizia – di guerra che, bambini, non hanno saputo lasciar
nel passato – sono
fuochi di paglia di fronte a Quatre e ad ogni sua parola, ad
ogni suo desiderio
sottaciuto, anche se Quatre è impazzito. Per Trowa tutto vale il
prezzo d'un
sorriso, pure la pace per cui hanno combattuto; l'orrore d'una
sorella tradita
e di un vecchio amico; finanche Wufei, ch'è saltato in aria col
Senato.
Heero
vorrebbe potersi dire che, al posto suo, se fosse stato Duo ad
aver perso il
senno e la morale, l'avrebbe giustiziato; però non può mentire.
D'altronde, Duo
è vissuto sempre delirando, col cuore al posto giusto, ma lungi
dall'essere uno
stinco di santo; e raramente Heero l'è stato a sentire, sebbene
troppo spesso
abbia avuto ragione. Avrebbe dovuto ascoltarlo, avrebbe dovuto
aspettarlo,
lasciarsi accompagnare e custodire... Poco male: Duo ha sempre
vestito meglio i
panni dell'angelo vendicatore.
Zero-Due
verrà, sta già venendo: arriverà discreto, arriverà in silenzio,
l'ombra d'una
morte rapida, gentile – ché questa volta viene a spigolare un
compagno d'arme,
quasi un fratello. Forse ormai ha mietuto o sta mietendo; ma,
Heero, lo dovrà
vendicare, ché per salvarlo neppure il Mietitore può arrivare in
tempo.
Heero,
è da una vita ch'è pronto a morire: certo, ha qualche rimpianto;
ma questa è la
sua ora e lo accetta in pace. Rivolge, dunque, l'ultimo pensiero
a chi è
dovuto; recita le sue prime ed ultime preghiere: che Duo abbia
pietà, prenda la
sua vendetta; che non sia crudele e non renda Trowa il solo
sopravvissuto, con
tutto quello che ha tradito, che ha sacrificato, alla fine per
niente – soltanto
un altro po' di sangue che, dopo averne versato così tanto, è
insignificante.
Annuisce
infine a Trowa e alla pistola.
Per
premere un grilletto basta un secondo: poco, troppo poco, per
ammazzare
vent'anni d'amicizia – una parte di Heero ancora ci crede,
ancora ci spera.
Mariemaia
non ha altro da fare che ricordar la guerra – e, alla sua età,
così si ricorda:
come si sogna.
Due
volte all'anno, Heero va a lasciarglielo avere – un dono di
Natale, uno di
compleanno – ed a veder Wufei, che veglia su di lei come un
compagno di cella o
un fratello maggiore, un guerriero sconfitto che non abbia un
altro comandante
da seguire, guardiano e tutore dell'orfana cui ha ammazzato il
padre.
Une
apre la porta come un cappellano schiude i cancelli d'un vecchio
cimitero; e
Heero scende nella tomba a conferire – da soldato scelto a
generale, da bimba a
ragazzino – coll'ultimo fantasma di cui è l'assassino.
La
prima volta, sei mesi dopo la sua sola sconfitta, lei ha otto
anni appena da
qualche ora; il rimorso negli occhi ha lasciato il posto ad una
qualche
tristezza, quella malinconia che prende chi è sempre vissuto con
assoluta
certezza e poi l'ha persa. Nei toni pastello, infantili, dei
suoi vestiti,
della sua cameretta, immobile sulla carrozzella, sembra una
statua sepolcrale,
un angioletto grottesco, colla faccia di pietra e la testa
rossa. Lei non gli
dice niente, niente gli domanda – forse non c'è niente da
aggiungere, forse c'è
troppo che ancora non capisce –; lui non le risponde. Nella luce
del maggio, alla
finestra, Wufei legge sottovoce versi sui campi, sul bestiame,
sulla pace, con
la spada al fianco ed in alta uniforme.
La
seconda volta, lei è già stanca, consumata da una fame segreta
che le ha
scavato il viso, rendendola più gracile e più grande. "La pace è
logorante", gli spiega, la voce bianca, nitida e squillante – la
cosa più
viva, più brillante, in quel mattino esangue di dicembre –,
svelando ed
assolvendo quello che anche lui sente. Dal suo canto, Wufei ha
un libro chiuso
di poesie in grembo – parole antiche, ideogrammi eleganti,
sull'assenza, la
quiete, l'inverno. Une entra portando tè e biscotti, un'offerta
votiva per i morti;
di loro tutti, morti a loro volta, nessuno l'accetta.
La
nona, Mariemaia veste abiti più pallidi, spogliati di colore,
quasi una divisa
carceraria sul fondo cipria e confetto della carta da parati coi
soliti caroselli
stregati e carillon rotti, che sono tagli per misurare i giorni
in cella quando
il tempo non passa, quando la condanna non si sconta. Ha le
braccia e le gambe
troppo lunghe, le ginocchia magre, sempre ferme; è in quel limbo
indeciso tra
infanzia e adolescenza, quando in atto si è nulla, in potenza
chiunque – a meno
che ogni alternativa non sia stata bruciata, assieme ad un
accordo di non belligeranza,
alla beata innocenza e al resto d'una vita, in un colpo di stato
a sette anni, durante
le vacanze. Che stia crescendo, anche a Heero è evidente; così
come evidente
che per nessuno di loro cambierà niente. Sulla scrivania, tra la
polvere e la
carta da lettere che Mariemaia non usa, Une ha deposto fiori di
campo –
ginestre, malva, camomilla; giunchiglie, fiordalisi e margherite
– che già stanno
sfiorendo e odorano di sterpaglie secche, come l'aria attorno a
certe lapidi
coi nomi consumati dalla pioggia e dal vento, o dalla lima di
chi se ne
vergogna. Wufei scorre un romanzo di formazione o sul venire al
mondo; solo con
un dito tiene il segno.
La
tredicesima volta, lei lo accoglie col fuoco negli occhi: è un
fervore, un'arsura
nuova, che Heero riconosce e che lei ancora non capisce, ma che
la consuma
laddove lo spirito si trasforma in un fatto materiale, al posto
di quello che
non sentirà mai per davvero sotto al mezzo busto – le cosce, le
caviglie, ciò che
le si cela tra le anche – per una pallottola rimbalzata male tra
la dodicesima
costola e la spina dorsale. "Lo sai che siamo vivi tutt'e due?",
gli
rivela comunque, temeraria, vorace ed incurante, in un'offerta
ed un giuramento
segreto, o una trattativa che sa di congiura e profuma
d'intrigo, di guerra promessa. Wufei sfoglia un volume di poesie erotiche che sono
forse anche
d'amore, distrattamente, ripetendo a mente l'Arte di Sun Tzu, quasi sorpreso di ricordarla
ancora tutta, parola
per parola.
La volta
dopo, Heero ritorna trascinando Duo per mano e per la treccia,
come uno scudo o
un vessillo sfacciato in mezzo alla battaglia, con l'onestà
crudele che a
un'altra combattente non vuole risparmiare e che le deve. Ma
Mariemaia si
limita a guardarli tutt'e due, con triplicato ardore ed un
sorriso ferale, come
se Zero-Due fosse un regalo nuovo da scartare – e forse lo è;
meglio: è un'arma
da usare, se solo Heero glielo lasciasse fare. "Che cosa vuoi da
me?", l'accusa lui, ed è una scusa, quasi una difesa; tuttavia è
esitante.
"Niente che tu non possa darmi, Zero-Uno. Niente che tu non
m'abbia già
dato", gelida e dolce, lei gli risponde. Wufei scuote il capo,
corruga la
fronte; tra il divertito e lo sconsolato, guarda al trattato
sulla retorica, la
diplomazia, la persuasione, che mezz'ora prima le stava
declamando.
La
volta ancora successiva non è né a mezz'estate né d'inverno; è
bensì una visita
d'urgenza, che interrompe il rito e spezza l'incanto, prima del
tempo: comunque
vada, non ce ne sarà un'altra; i caroselli stregati, i carillon
rotti, non
staranno più fermi su sé stessi contando un altro anno. Heero
entra con Duo e
due borsoni a testa, pesanti come pesa solo il metallo – è un
peso familiare,
che lo fa sentire più leggero. In piedi, tra il muro e il
secretaire, c'è anche
Trowa, serio e silenzioso come sempre; con la grazia usuale e
con riverente
gentilezza, regge la testa di Quatre fluttuante nello schermo,
su un canale
certo così sicuro che neanche Heero lo potrebbe craccare.
Mariemaia ha l'età
che aveva lui quando si trasformò in una stella cadente per
un'operazione di
violenza e terrore, di liberazione – in cui avrebbe potuto
perder tutto, ma per
fortuna non aveva niente. Come una stella fissa, oggi lei è
raggiante, fulgente
in un bagliore di sangue. Une è discretamente assente, in
avanscoperta o per
poter negare. Stavolta Wufei non sta leggendo niente, però ha in mano
una mappa
ed un giornale – non importa quale: la prima pagina è comunque
un necrologio
per Relena Darlian; qualcuno annuncia anche un funerale.
"Bene,
signori!", sorride la ragazzina che è ritornata ad esser
generale.
"Qual è la situazione? Abbiamo una guerra da finire. È giunta
l'ora di
resuscitare".
Con
un paio di firme e dichiarazioni d'intenti, cambiano i tempi,
cambiano i governi,
da un giorno all'altro, come calzini sporchi; però, a conti
fatti, non cambia
quasi niente.
Quatre
ancora crede che la vita sia una partita a scacchi, e che si
vinca solo calcolando
ogni mossa freddamente, sin dall'apertura, con tutti i dovuti
sacrifici –
pedoni, cavalieri, talvolta una regina, più spesso i nostri
amici. Le scuse ed
il senso di colpa non valgono a lavargli il sangue dalle mani, o
la coscienza;
ma, qualche volta, va al circo a confessarsi dagli spalti,
cercando
l'assoluzione nel volteggiare d'un trapezio, nel richiamo del
vuoto, nel canto
d'ogni lama che Catherine tira, per sentirsi ancora in grado
d'avere paura.
Trowa,
lui trova la bellezza in qualunque cosa: in Elsa ed Aslan, i
suoi vecchi leoni,
che hanno perso i denti senza mai conoscere la caccia, nel loro
disprezzo del
fuoco e della frusta, nel terrore dei topi e dei bambini; nello
sguardo più
freddo, più calcolatore, di Quatre mentre pensa e non vuol farsi
vedere; nei
costumi di scena che odorano di fieno, di sabbia, di sudore, e
che il
capocomico stende ad arieggiare, fischiettando, ma lava
raramente; nel veleno
di Nag, il cobra reale stanco di sognare, che il mese scorso ha
morso fatalmente
il suo incantatore; nel plauso della folla – se chiude gli
occhi, ha il suono
della pioggia che cade sul metallo, o dell'ultimo nastro nel
braccio di
Heavyarms quando non s'ha quasi più niente da sparare. Forse
aveva visto una
bellezza assurda, orripilante, anche nella carezza del vuoto
siderale, quando
non aveva potuto fare altro che fluttuare e ripensare a Zero –
Zero-Quattro? –
che l'aveva abbattuto e abbandonato senza lasciarsi commuovere,
aspettando che
l'ossigeno finisse. Una bellezza così, s'ha da dimenticare,
talora assieme al resto
che non si riesca più a sopportare (lo scopo, la missione, il
suo ed il nostro
nome); ma si continua comunque a respirare con orrore e
parsimonia, perché si
sa che l'aria potrebbe non bastare.
Per
Wufei, il mondo è una biblioteca, o un grande cimitero (che poi
è la stessa
cosa); probabilmente, lo sarebbe anche il paradiso, se lui ci
credesse o almeno
ci sperasse. Avendo perso troppo e non volendo scordarlo, cerca
in tutto una
storia – nel nome d'ogni strada; nel filo d'una spada
arrugginita, nel sangue
che la incrosta e che lui non osa ripulire; nel pezzo di Nataku
che si porta in
tasca, quella interna alla giacca, sopra al cuore –: qualcosa da
mandare a
memoria e tramandare, un'etichetta impressa nella carne, incisa
nella pietra,
che sia quella vera, quella giusta.
Heero,
per chi lo conosce, è come sempre: sotto al gundanium e
all'addestramento,
sotto ai suoi muscoli che piegano il metallo, nel midollo dolce
delle ossa, ha
la stessa costanza, la stessa tenerezza; conscio d'essere
un'arma, s'augura
comunque di non doverla usare – per lui, la pistola è un peso
familiare contro
al fianco; tra le dita, è l'opportunità di non sparare.
Duo
lo capisce, come ha capito tutto, dall'inizio; non è un
sacrificio provare a
lasciarglielo avere – del resto, coi comandi e col coltello, è
sempre stato un
poco più veloce; e ha sempre avuto la coscienza flessibile, il
tocco leggero, e
la discrezione di chi ha imparato a rubare per mangiare. Così lo
protegge, è un'ombra
gentile che lo avvolge, in cui nessun altro si potrebbe
avventurare – Heero fa
finta di niente, spesso neppure se ne accorge –: smonta assieme
a lui questo o
quel motore, per migliorarlo, per ricostruire; gli mostra la
luna dalla Terra, che
sembra così fascinosa, troppo bella, per essere davvero una
grossa roccia;
veglia su di lui, dormendogli accanto con un occhio aperto,
quello affilato,
che mappa innanzitutto ogni via di fuga e vede tutto come
un'arma impropria, uno
strumento di morte – ed ogni vita come un prezzo da pagare, ma
comunque a
sconto.
Wufei
scrive romanzi di guerra – per finirla; forse per vincerla,
almeno sulla carta.
Talvolta vomita qualche lirica d'amore, un racconto o due sul
tradimento, sopra
il riscatto, sulla resurrezione – perché e percome, non è pronto
ad ammetterlo:
non sa come dirlo. Progetta oziosamente una novella che parli di
perdono e pentimento,
di un'altra occasione; tutta al futuro, come una profezia a
lieto fine – vorrebbe
averne il tempo, ma ha poca convinzione. Una sola pagina di
lasciti e di scuse,
saluti e confessioni, da mesi è ripiegata in un cassetto, tra In riva all'acqua ed un
fiore secco,
fermata da un anello troppo stretto.
In
ogni parola, cerca la verità col lanternino; ricuce il passato e
il proprio
volto, come un mostro, per dirsi di conoscere chi è stato,
d'essersi capito. Con
la sintassi, ricostruisce l'ordine del mondo, anche se è finto.
Occasionalmente,
s'intinge il pennino in una vena – quando la notte è fonda e la
luce, fioca, a
stento s'indovina –, dicendosi che magari stasera sarà la volta
buona.
Heero
gli fa da editore, talora da censore; è troppo gentile: se la
memoria diventa
ingannevole, lo vuole risparmiare, perché sa bene che cosa
significhi avere
troppo onore – e che sopravvivere fa male da morire.
Wufei,
tuttavia, chiede comunque a Duo, perché è suo amico e non gli può
mentire.
"Fefè,
è troppo nobile: non c'è abbastanza sangue; non fa abbastanza
orrore".
Duo
e Relena, in comune, non hanno quasi niente – tranne una certa
tendenza a non
lasciarsi ammazzare (nonostante se la vadano a cercare) e a
mandare i piani di
Heero a farsi benedire; poi, forse, tutt'e due gli vogliono
bene.
Per
questo, sei mesi e mezzo dopo la Battaglia di Natale e tanto
dormire, Heero di
punto in bianco decide di partire, prendendo solamente il tempo
per prenotare
un posto a sedere sul primo volo diretto, oggi stesso, usando
quello che oramai
è il suo nome. Il tempo che non prende, è quello per
interrogarsi ed esitare;
nel dubbio, non prende neppure il tempo per salutare, né prende
altro – ma non
c'è niente che gli possa servire.
Relena,
che lo conosce e non avrebbe avuto bisogno di sorvegliarlo per
intuire la sua
destinazione, lo aspetta già al porto spaziale, davanti al
tornello
dell'imbarco, con un abbraccio, parole criptiche
d'incoraggiamento ed uno zaino
col cambio d'un giorno, tre paia di calzini, una pila eccessiva
di boxer e –
nell'incertezza – di mutande, ed un maglione pesante, perché "il
controllo
climatico su tutta L2 è obsoleto, volatile, incostante". Come
quel
deficiente.
In
cima c'è un biglietto, che Heero vede solo quando è ormai
intrappolato nella
poltrona al centro, tra un uomo obeso–
che russa da mezz'ora prima di romper l’atmosfera – ed una donna
che piange,
discretamente, nascosta tra le rughe e un fazzoletto.
Coraggio. Avanti tutta. Niente
prigionieri. Non guardati indietro.
Heero
l'ha letto quasi sorridendo, pensando a Relena ed al suo
pacifismo, che non le
ha mai impedito di sparare ad una rosa all'occhiello, né
d'ordinare a lui
d'ucciderle il fratello; e ancora le permette di parlargli in
una lingua che
possa capire, per ficcargli in testa che la felicità è l'ultima
missione, e che
fallire non gli è consentito.
Per
tutto il viaggio, stringe le carta in pugno, senza pensare,
senza prendere
sonno: non c’è mai riuscito, a meno che non fosse Duo a pilotare
–neppure in Wing,
con davanti troppe ore di
navigazione ed alle spalle, dietro agli occhi chiusi, troppe
battaglie che
avrebbe soltanto voluto poter non rivedere.
Sbircia
dall'oblò il nero clericale tra le stelle fisse, piantate come
chiodi a reggere
niente. Di tanto in tanto, un frammento di relitto gli fluttua a
un paio di
metri dalla faccia; bussa contro al vetro, memento minaccioso,
di passaggio:
per l'universo, è appena spazzatura, un avanzo, un rifiuto che
non val lo
sforzo del riciclo; per Heero, è quel che resta dei giorni più
bui – le spoglie
di qualcuno che, verosimilmente, ha ucciso lui.
Passato
il lato oscuro della Luna, scruta il sedile di fronte con
rancore; sa che dalla
cabina di comando si scorge in lontananza la destinazione: è la
seconda a
destra nell'ammasso, stando alla cartolina che riporta soltanto
una falce (o
forse un sorriso?) e un indirizzo, nella grafia minuta e
stravagante,
decifrabile a stento, che gl'ha scritto sul cuore.
La
discesa è lenta, quasi impercettibile, inesorabile come una
marea; l’attracco è
uno schianto che gli esplode in petto, con un misto di terrore e
eccitazione,
che non credeva di poter sentire, non senza rischiare di morire.
E forse lo
rischia: la depressurizzazione gli spezza le ossa, gli stritola
i pensieri, gli
schiaccia pure il sangue nelle vene – come un tuffo in picchiata
verso la
termosfera, per fermare un grave che non avrebbe dovuto poter
rallentare, non
con quella massa, quell’accelerazione.
Duo
è da sempre così: una caduta libera; finché si precipita, non
c’è da temere. E
Heero, che si è già buttato a capofitto – o c’è inciampato; è
scivolato, senza
rendersene conto –, si getterà ai suoi piedi a supplicarlo di
rimaner per lui
la gravità ed il vuoto, di non lasciarlo atterrare; e gli
rimetterà le cose
splendenti, spaventose, che si è scovato in petto, come nuove,
ma non sa
maneggiare. Duo è un ottimo ingegnere, un pilota brillante; ha
un intuito
selvatico e geniale – un puro istinto per la matematica; per la
natura umana,
profonda comprensione –; ha un senso morale: saprà quello che è
giusto fare,
saprà come.
Heero,
dal canto suo, sa solo come vincere una guerra: a denti stretti,
pugni chiusi,
e a testa alta;sputando
l’anima,
pulendola da terra con quattro stracci e un po’ di segatura, per
non perderla
tutta; squartando e ripartendo la speranza – in Relena, l’amica
in cui si
sarebbe rispecchiato, se fosse stato un uomo migliore; negli
altri, che avevano
qualcosa da sacrificare, pronti più di lui a perder tutto; in
Zero-Due, l’ombra
e il guardiano, giullare e giustiziere, il compagno fidato che
non ha potuto
abbandonare, quello che ha sempre creduto nel futuro, donandogli
qualcosa da
agognare, di soppiatto; l’ultimo quarto, quello personale,
riposto in Wing, tra
il Sistema Zero ed il motore, o nel pulsante di autodistruzione.
Della pace,
però, non sa un bel niente; dunque ha bisogno di farsi guidare,
e di qualcuno
che non sia da proteggere bensì da custodire, da cui ritornare,
che possa
capire.
Sospeso
sulla rampa, un attimo, tentenna, si sente esitare; somiglia a
uno svenire. Gli
altri passeggeri, che hanno ancora fretta di sbarcare, lo
urtano, lo fanno
sobbalzare; per poco, il ciccione non lo scaraventa oltre il
parapetto, con
un’occhiataccia e borbottando un insulto. La punta di una scarpa
sfiora il
secondo scalino, appena appena, in bilico tra i piedi per terra
e la mezz’aria,
su un precipizio il cui fondo non s’osa neppure immaginare: è un
pendolo
impossibile, una carezza oscena; traccia la linea d’un confine
che lo
paralizza, col più puro terrore sia di discendere sia di
risalire. Allora Heero
stringe il corrimano così forte da imprimere al metallo la forma
delle dita,
probabilmente pure quella delle nocche: se lo lasciasse,
annegherebbe – senza
mare, senza sole né sale –; sarebbe alla deriva a consumarsi,come un’impurità
nell’aria rifiltrata,
artificiale.
La
donna triste che era alla sua destra, è l’ultima ad uscire,
fermandoglisi
accanto a sfiorargli un braccio con l’indice ed il medio in un
guanto da lutto;
con quella simpatia egoista, sussiegosa, di chi ci crede affetti
dalla stessa
lebbra, gli dice in uno sguardo di scernere il suo male, per
davvero, d’averlo
patito, d’averci creduto, finché non è passato, come tutto il
resto, assieme
alla pena che, in fondo, non è valso.
“Si
viene su L2 per essere dimenticati, o per dimenticare”,
aggiunge, in una chiosa
all’essenziale. “L’una o l’altra cosa. O entrambe, normalmente”.
Poi gira su
tacchi troppo alti per non far rumore, e se ne va, verso una
casa vuota come un
mausoleo, a raccontarsi che l’Universo è una tomba e che non c’è
più niente da
aspettare.
No!, Heero
vorrebbe richiamarla; no!, vorrebbe risponderle, no
e che ha
torto marcio: che nulla al mondo è più vivo o più
indimenticabile di Duo; che
con lei da spartire ha avuto soltanto il bracciolo tra i posti C
e D della fila
undici, sul rapido ESA-268, da New Port City a L2-V08744, delquattordici
luglio centonovantasette, alle
diciannove e venticinque (tempo di percorrenza: trentasei ore);
che anche il
dolore – anche il sangue sparso, quello sotto le unghie, quello
che non si
secca e non si lava – deve avere un senso, o almeno un valore;
che non è venuto
qui a morire, né per scomparire, ma per azzardo, per quella
scommessa
spaventosa e sconsiderata, che ci spinge a puntare una libbra di
carne – sempre
la stessa, la libbra che si strugge a stare sola nel suo guscio
di costole e
polmoni –, sperando di scambiarla con un’altra, nel giro d’una
mano fortunata;
che, sotto le armi, Heero non s’è mai tirato indietro e, in
tempo di pace, non
ha alcuna intenzione d’iniziare. Gli mancano però la voce e le
parole.
Non
sarebbe mai dovuto partire: sarebbe dovuto restarsene a dormire,
perché dormire
concede il lusso di sognare; e se da un incubo ci si può
risvegliare (sovente
con un bagno di sudore e, alla bisogna, tre dita di liquore), un
sogno infranto
non concede scampo, ce lo si porta indosso, finché non ci si
scordi del
fantasma che c’infestava i giorni e rischiarava le notti, di
come si chiamasse,
e di che cosa sia desiderare.
Chi
l’ha detto, poi, che Relena ha sempre ragione? Da un paio
d’anni, quasi tutti i
giornali, i vecchi amici e i soliti nemici, i politicanti
reticenti, e quella
vocina che Heero sospetta sia la sua coscienza; lo diranno anche
i libri di
storia, in una manciata di decenni.
“Guardati,
Yuy: da terrorista a naufrago in porto… Sei solo un vigliacco”,
gli
mormora la vocina nella testa; nel tono, l’inflessione e la
cadenza, ha
qualcosa di Duo, o dei richiami che echeggiano dal molo – nelle
vocali ampie,
le i pungenti, in quelle o profonde. Forse sono
loro a farlo rinsavire.
Dalla
stiva rimbomba un cazzo, Peppi’, fotti a muovere il culo!,
in direzione
dello scaricatore che – all’ombra d’una pila di bagagli, tra due
carrelli e una
colonna portante – ha appena messo in bocca una mezza sigaretta
e già sta
inspirando sulla fiamma. Peppi’, dunque, risponde con un Porco
Dio, un Santa
Madonna ed un Cristo Signore!, costruiti assieme
in quella che Heero
non capisce se sia una devozione o una bestemmia – del resto,
non è affatto
convinto che qui faccia alcuna differenza: su L2 smadonnano
anche gli angeli ed
i santi, per non parlar dei preti; le imprecazioni sono litanie,
sacramenti; le
ingiurie, preghiere cantate come salmi, struggenti, trionfanti
come inni; e
forse, in fondo, son tutti chierichetti, diaconi, celebranti, i
facchini, i
piloti, i meccanici, i piccoli mercanti e le passeggiatrici, i
figli della
guerra, tutti gli altri infelici, che dicono una messa e un
vaffanculo al
Padreterno, per ciò che non ha fatto e non avrebbe scuse manco
se fosse morto.
Quassù,
il cattolicesimo è un dato di costume, di folclore; è uno
stendardo, un piatto
nazionale, coi Sauerkraut e colla pastasciutta, o
quella birra scura,
densa come crema (che sa di erbe amare e cioccolata), che nelle
sere livide,
senz’altro da fare se non aspettare ed ignorare il dolore, prima
di
ripartire,Duo si
coccolava tra le mani,
con tenerezza, con una devozione ch’è quasi fede e somiglia
all’amore, bevendo
lentamente per non lasciarla finire – porgendogli il bicchiere
per fargliela
assaggiare, sempre con un sorriso ed il sorso migliore.
Quassù,
finanche la miseria ha il proprio splendore, la propria dignità,
ed un
buonsenso che è pragmatismo commisto al disincanto: niente è per
niente; la
pace è una conquista; e la libertà è fragile ed è cara, non è un
regalo e neppure
un favore.La
felicità, quassù, è un
lusso che si ruba e che si spezza, un pane della messa, da
afferrare e spartire
quando nessun altro sta a guardare, contorno ai sacrifici ed
all’agnello
pasquale, ai debiti eagli
oltraggi che
non si potrà mai restituire.
Quassù,
si ricostruisce al risparmio, badando all’essenziale: gli astri
sono luci
fulminate, contro un firmamento di metallo, rattoppato alla
meglio coi resti
della guerra e dell’assedio mischiati a qualche altro rimasuglio
(il tutto è
quasi bello); ed i lampioni accesi per le strade vanno a
intermittenza,
funzionano abbastanza per lasciare vedere a sufficienza.
Heero,
dunque, s’incammina puntando in una sola direzione. Peppino lo
indirizza dopo
neanche una mezza domanda: c’è un chiostro di caffè all’angolo
del corso
principale ed è assolutamente da evitare; e un autobus che passa
sì e no ogni
altra ora, se la giornata è buona o se Marte e Plutone sono in
congiunzione (ma
uno dei due autisti stabilisce a caso il tragitto che gli pare);
si prende un taxi
nei porti di L2 soltanto per scoprire che, sorprendentemente, si
ha qualcosa da
perdere o da farsi rubare; a passo spedito, di qui a
quell’indirizzo sono
cinquanta minuti, contando pure il tempo per fumare.
Heero
non cammina: Heero marcia. E passa strade ampie che si fanno più
strette, tra
fila di edifici in pura architettura coloniale – spartana,
inelegante,
funzionale – rallegrati però da sprazzi di ferraglia e di
colore; e chiazze
sparse d’erba finta, scolorita, che nessuno s’è dato premura né
di rimuovere né
di rimpiazzare; poi, crocchi di marmocchi che si rincorrono e
giocano alla
buona, con quello che capita e il poco che si trova, regine,
gran dottori,
cavalieri, in calzoncini e gilet rattoppati ma puliti e stirati;
ed agli
incroci, cartelli bianchi e neri, che annunciavano un tempo nomialtisonanti (di
nobiluomini, politici,
personaggi importanti) adesso cancellati con un tratto di sbieco
a penna rossa,
corretti dunque in segni di speranza o ideologia (Via Gandhi,
Via
dell’Armistizio, Piazzale della Pace, Slargo Socialismo; Vicolo
Yuy; Viale
Libertà; Corso degli Innocenti…),a mano
libera e con pennarelli variopinti. Le turbine invecchiate
ronfano un
concertoin
sottofondo; e il rombo del
motore che fa girare questo piccolo mondo in senso inverso a
tutto l’universo,
riverbera nel ferro dalle profondità della colonia, fino a far
tremare il
pavimento, vibrarele
pareti, su fino ai
soffitti, per perdersi in un brivido lungo la curva del cielo;
gli fa compagnia
e gli scandisce il passo.
In
meno di mezz’ora è ad una porta chiusa; neanche una finestra è
illuminata. Per
trenta secondi, Heero è persuaso di essersi perso, d’essersi
sbagliato,
svoltando a destra invece che a sinistra tra Viale Speranza e
Corso dei Defunti
– o forse sarebbe dovuto andare fino in fondo. Ma il posto
giusto è senza
dubbio questo; Heero l’avrebbe saputo anche s’avesse ignorato
l’indirizzo: la
ferraglia, in pile, ammonticchiata intorno, è effimera ed è
vuota,
mostruosamente fragile e consunta; ma all’occhio esperto del
saldatore e
dell’ingegnere, al genio dell’artista, è un’intuizione ovvia il
come ripararla,
il puro potenziale di quello che potrebbe diventare.
Heero
è a sua volta un avanzo di gundanium, un’arma dismessa che
nessun altro
saprebbe convertire in qualcosa di più o meno nuovo e
funzionale, che possa
servire – un amico; un amante; un bambino vero, di anima e di
carne, in grado
un giorno d’essere felice, di diventare grande. Sarebbe, invero,
dunque qui il
suo posto: ad aspettare, cogli altri pezzi d’acciaio e di
titanio, tra i fili
di zinco aggrovigliati con quelli di rame, che Duo ritorni, tra
cinque minuti,
forse venti, oppure tra trent’anni.
Invece,
sfila dallo zaino il maglione ed il biglietto che gl’ha lasciato
Relena –
l’uno lo mette addosso, l’altro in tasca, accanto alla cartolina
–, e
s’incammina ad esplorare le viuzze anguste ma diritte del
quartiere, seguendo
le orme dei randagi che, tra tutte le colonie, soltanto su L2,
inquasi
duecent’anni, sono riusciti a proliferare.
Passeggia assieme a loro, pigramente; osserva l’ondeggiare delle
code dei gatti
sull’unico scalino di Santa Sofia, di fronte alla facciata
principale; e non
bada alla gente, finché non lo scorge, come un miraggio, od
un’epifania in una
luce al neon che non perdona: incorniciato dalla vetrina del
droghiere locale –
che, a detta dell’insegna, è anche l’osteria, il barbiere, e
l’ufficio postale
– chino sul bancone, parla con vecchio baffuto, animatamente,
sventolando un
boccale.
Il
nero, addosso a Duo, è il colore più allegro, più brillante – ma
mai splendente
quanto il suo sorriso un momento dopo, quando, voltatosi, anche
lui lo vede.
L’anniversario arriva alla Vigilia; il giorno della festa se lo porta via, tra le strenne e le luci, colla forsennata fretta che hanno tutti di non pensarci, di dimenticare.
Per loro – i reduci di guerra, i veterani, le vittime e i carnefici – invece è una messa solenne, un pretesto buono per parlare, concedersi un po’ di nostalgia; per celebrare ancora il proprio funerale, scartando la malinconia e i ricordi, le vecchie ferite, come regali, il mattino di Natale.
I camerati di sempre ed i nemici d’un tempo, spesso, s’incontrano da Quatre, in quella sua residenza sulla Terra, che, per qualcuno, fu allora un rifugio, un ospedale da campo, un porto sicuro in cui prendere licenza – o prendersi in parola, farsi una promessa, suonando assieme ancora per mezz’ora prima di salutarsi, pronti a bruciare l’universo intero, pur di rivedersi –; per altri fu una base nemica, di cui s’ignora anche l’esistenza.
Ciascuno, tra una birra, uno champagne, e qualche sorso di coraggio più forte, mette qualcosa in tavola: un asso nella manica o una carta coperta, frammenti di memoria condivisa nascosti in una lettera rubata, una fotografia privata; penitenze in saldo di cui nessuno ormai ha più bisogno. È un’autopsia dei sogni e del futuro; nessuno perde tempo a farne un’eulogia.
È forse a loro – ai sogni già sognati, già finiti; a quei futuri che sarebbero stati soltanto al tempo degli orologi rotti – che Noin sorride, spiandoli tra il liquido e il cristallo, nelle bollicine che annegano sul fondo della coppa e in quelle condannate a evaporare. Non è nemmeno colpa di Milliardo, che la amerebbe, se ne fosse in grado, ma è ancora perso a cercar sé stesso o chissà cosa non abbia seppellito, tra i fumi d’un incendio domato da decenni – che importa se sia a Sanq o sul Pianeta Rosso? – ; ed è troppo impegnato ad ignorare quel canto di sirena che non si può tacere, quello che gli intimava d’appiccare il fuoco pure al resto del mondo. Nessuno, come Quatre, lo capisce; nessuno, come Quatre, non lo può perdonare: dell’arroganza folle d’averci provato; col senno di poi, ancora di più d’aver fallito.
Così, di anno in anno, è Quatre che lo accoglie sulla porta, con un doppio rum come memento (quello più ardente, con una dolcezza, in retrogusto, che sa di veleno), per porgergli la simpatia spietata di chi c’è passato; qualcuno è pure convinto che sia sopravvissuto. Poi, da ospite impeccabile, da uomo di valore, si ritira a compiere il proprio dovere, contando uno ad uno i rimorsi e i rimpianti – bucoliche rovine, bellissimi fantasmi, di quella vita che, seppur potendo, non ha voluto avere.
Dorothy l’asseconda, come già assecondò la Guerra, la Storia, e quasi nessun altro; forse, non s’oppose nemmeno al disappunto e alla delusione, quando venne il momento, con un’ironia che non serba rancore ma rimane crudele. Trowa, dal canto suo, non si scompone, perché non l’ha mai fatto; ma forse è lui chi, più di chiunque altro, rimpiange il senso che aveva, allora, il sacrificio, il terrore.
Discosto, contro al muro, vicino a una finestra, Wufei osserva tutto, componendo versi come si fa l’amore o si porta un lutto – per necessità, con disperazione. A Lady Une, che rese vedova senza lasciarle il tempo di diventare sposa, riserva puntualmente lo sguardo più sincero, lo sguardo più lungo, ch’è quasi di desiderio, quasi di pentimento; più tardi, nelle ore più tristi, a lustri alterni, si terranno un poco compagnia – entrambi un altro nome invocato sulle labbra, impresso nei pensieri – fino a tirar mattina. Né Une né Wufei hanno mai creduto al sotterfugio o alla diplomazia.
Relena, che invece ci ha creduto troppo, sorseggia kir royale (non ricorda più che era uno scherzo) e, quando riconosce quell’amaro in bocca, incolpa la crème de cassis; in un altro flûte, annega ogni dubbio. Recita la parte – tutta belle speranze, mezze posizioni, frasi fatte – che ha sempre detestato e ha dovuto vestire, ma non sa come smettere. Poi, al terzo, al quarto, talvolta al tredicesimo bicchiere – appena arrivi il bisogno di chiedersi scusa, di non dimenticare chi un tempo sia stata, chi sarebbe dovuta rimanere –, se ne versa un ultimo a mo’ di libagione, con la mano tremante ed un sorriso sprezzante.
Heero, nonostante tutto, la accompagna, non la può abbandonare; siede sempre in silenzio, con un boccale pieno di perdita, stracolmo di mancanza, che gli ricorda il vuoto tra le stelle e lo consola, come l’ennesimo campo di battaglia – che, poi, è quasi un vecchio amico, un abbraccio familiare.
E Duo, che non è mai sceso a compromessi – né col potere, né colla coscienza –; Duo, come Platone, è sempre assente.