Mary era di una sincerità spaventosa, ossessiva.
Il suo affetto era martellante, qualcosa che faceva paura.
Aveva un modo tutto suo di gridare, di sorridere, di stringerle la mano e sussurrarle “sono qui, con te, e non andrò mai via”
Mary amava alla follia. Mary viveva nel terrore dell’abbandono.

Rotolarsi nell’agonia come un bambino con le scarpe strette, e ridere sguaiatamente lacrime e bestemmie.
Questo dolore non ha senso, e non ne avrà mai.
Questa sorda sofferenza che nessun’altro può sentire, dall’altra parte di un muro che non si può vedere.

Su questa strada di sole, sentire il rumore eterno della risacca della pietra
E guardare le montagne celesti
Come le vene nei polsi
E le buste nell’acqua.

Tutto ciò che fuoco è destinato a consumarsi, a estinguersi.
Perchè noi non siamo fenici.
E tutti sanno che finché il fuoco brucia tutti possono ballare.

Corse per una strada che si arrotolava nel vuoto come un gatto che gioca con un filo, come una donna che tira il cavo del telefono mentre ascolta le cattive notizie che si dicono sottovoce.
Corse con le forbici in mano, per puntarsele agli occhi, così li avrebbe stretti meglio.

Quando riaprii gli occhi mi dissero che era tutto finito.
Non più, non più, non più, non più, non più.
È finito solo quel giorno, e il resto non finirà più.
Lo urlano le voci pazze nella testa. E questo dolore è vuoto, è brutto, e non si conosce, ed è blu.

“Che vuol dire morire?”
Auron rise, di un riso amaro, senz’allegria. “Lo chiedi alla persona sbagliata”
Non sai quanto.

Correre. Cadere. Perché in realtà non si vola. E se non si vola, non si va da nessuna parte.
Come un uccello in gabbia.
Queste sbarre pazze che ridono e ridono, e puoi solo sbatterci contro la testa.

[OFF]
Un calendario? Che inutile invenzione. Lo sanno tutti che oggi è sempre oggi. Lo sarà anche domani. E lo è stato ieri. Domani sarà di nuovo oggi. Ogni giorno è oggi.
Ogni giorno è lo stesso giorno.
Questo tempo non esiste, non lo vede nessuno.

Vash si stese nell’erba, chiudendo gli occhi. Un sole caldo, luminoso, illuminava la valle d’intorno, tutta adornata a primavera appena fiorita. Pensò che oltre quei confini la guerra infuriava, e lui l’avrebbe tenuta lontana.
Avrebbe combattuto fino all’ultimo, finché anche la guerra sarebbe stata portata via dal sol calante.
Ti abbasserai anche tu, al tuo calar, e avrai paura di pungerti sui fucili rivolti verso l’alto.

È perché i bambini vedono il cielo troppo, troppo vicino, e hanno paura di bruciare sotto i fuochi d’artificio.
E tu ormai non sei più bambina, e il cielo è volato via, poco più in alto del tuo naso, e quasi non si vede.
Perché prima o poi tutti i bambini imparano che legandosi al dito un palloncino non possono volare via.

“Simonetta, sei bella come le stelle”
Credettero che di notte le stelle si affacciassero dal cielo per guardarti cantare alla finestra, la tua ultima notte da figlia. Il giorno dopo eri già sposa, eri già donna.
Ohimè, si sbagliarono.
Dedicata a Simonetta Cattaneo Vespucci, la bella senza paragoni.

Sono venuta fin qui, trascinandomi sulle ginocchia come in penitenza.
Così arrivo a te, amico e maestro. Con la fronte china per portarti riverenza qui.
In quest’alta cappella, lontano dalla terra che ti mise al mondo e poi ti chiamò bastardo e sodomita.
Immaginario dialogo tra una delle persone più importanti della mia vita e Leonardo da Vinci.

Si disse che fosse stato solo un giorno.
Vanessa sospirò.
Forse fu per molto meno.

Avrebbe voluto inginocchiarsi e chiederle perdono per la sua falsità, per la sua ostinazione a mostrare un vago interessamento alla sua già cagionevole salute.
Avrebbe dovuto essere la sua famiglia. Invece era l’uomo nero che veniva a salutarla quando poteva, che le accarezzava i capelli quando ne aveva il tempo.
[Riario/Caterina Sforza]