Inktober 2019 - Faerie

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1. Faun ***
Capitolo 3: *** 2. Lantern ***
Capitolo 4: *** 3. Unseelie King ***
Capitolo 5: *** 4. Goat ***
Capitolo 6: *** 5. Eyes ***
Capitolo 7: *** 6. Gnomes ***
Capitolo 8: *** 7. Robin Redcap ***
Capitolo 9: *** 8. Waterlilies ***
Capitolo 10: *** 9. Wind ***
Capitolo 11: *** 10. Earrings ***
Capitolo 12: *** 11. Crown ***
Capitolo 13: *** 12. Blind ***
Capitolo 14: *** 13. Raven ***
Capitolo 15: *** 14. Gold ***
Capitolo 16: *** 15. Bone ***
Capitolo 17: *** 16. Dark ***
Capitolo 18: *** 17. Mushroom ***
Capitolo 19: *** 18. Tree ***
Capitolo 20: *** 19. Changeling ***
Capitolo 21: *** 20. Tavern ***
Capitolo 22: *** 22. Doppelganger ***
Capitolo 23: *** 21. Weapon ***
Capitolo 24: *** 23. Black Blood ***
Capitolo 25: *** 24. Teeth ***
Capitolo 26: *** 25. Weak ***
Capitolo 27: *** 26. Each Uisge ***
Capitolo 28: *** 27. Folk Music ***
Capitolo 29: *** 28. Scars ***
Capitolo 30: *** 29. Invisible ***
Capitolo 31: *** 30. Cruel ***
Capitolo 32: *** 31. Yourself as Fae ***



Capitolo 1
*** 0. Prefazione ***


BENVENUTI!


State per addentrarvi in un sentiero di mistero e magia, avventure e sentimento,
in cui un'autrice che spera di saper scrivere
e una disegnatrice che crede di non saper disegnare
hanno cercato di mettere insieme la loro creatività per affrontare la sfida dell'Inktober.

Dopo aver scartato la lista ufficiale perché non era Fantasy abbastanza,
e aver messo da parte anche liste più friendly e da comfort zone,
abbiamo deciso di cimentarci con un tema affascinante e un po' oscuro: le fate.

Ci riusciremo?
Ai lettori l'ardua sentenza...

E per favore, dite alla mia amica Erika cosa ne pensate dei suoi disegni. Ogni commento costruttivo è il benvenuto.

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Indice dei capitoli:

1. Faun - fantasy comico, parodia
2. Lantern - dark fantasy
3. Unseelie King - dark fantasy
4. Goat - fantasy comico (seguito di Faun)
5. Eyes - dark fantasy
6. Gnomes - introspettivo (seguito di Senza motivo)
7. Robin Redcap - drammatico, floklore anglo-scozzese
8. Waterlilies - avventura, drammatico
9. Wind - avventura, lore, comico
10. Earrings - avventura, comico, femslash
11. Crown - fantasy generico, lore
12. Blind - angst (seguito di Eyes)
13. Raven - fantasy generico, lore
14. Gold - folklore irlandese
15. Bone - dark fantasy, drammatico
16. Dark - introspettivo (seguito di Waterlilies)
17. Mushroom - avventura, lore
18. Tree - romantico
19. Changeling - drammatico
20. Tavern - avventura, comico (seguito di Faun e Goat)
21. Weapon - azione
22. Doppelganger - fantasy generico
23. Black Blood - dark fantasy (seguito di Crown)
24. Teeth - urban fantasy, black humor
25. Weak - dark fantasy
26. Each Uisge - fairytale, drammatico, folklore scozzese
27. Folk music - fantasy generico, lore
28. Scars - drammatico, romantico
29. Invisible - dark fantasy (seguito di Eyes e Blind)
30. Cruel - avventura (seguito di Earrings)
31. Yourself as Fae - comico



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Capitolo 2
*** 1. Faun ***


1. Faun


Sotto-genere: comico
Ambientazione: fantasy generico / parodia


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Il villaggio, da lontano, sembrava un ragnetto caparbiamente aggrappato alla parete di roccia. Un sentiero costeggiava il burrone, ma era stretto e pericoloso già nelle migliori condizioni; adesso era anche scivoloso per colpa del ghiaccio.
Il piccolo accrocchio di case era l'ultimo baluardo di civiltà prima della grande scalata alla catena montuosa, ed era fiorito intorno al più antico edificio della regione: il monastero dell'Ultimo Giorno.
Sinyel non era felice di quella situazione. Era indispettita per aver dovuto interrompere il viaggio e soprattutto non era a suo agio in quel luogo. Il villaggio non aveva una locanda, per qualche strano motivo non era una meta molto frequentata. I viandanti venivano ospitati, con tutti i riguardi, nel monastero.
Un gesto gentile da parte dei monaci, se non fosse stato che… gli ospiti dovevano anche sottostare alle regole dell'Ordine. La mezzelfa cominciava ad averne abbastanza di levatacce prima dell'alba, pasti frugali e spifferi gelidi. L'unica cosa che incontrava il suo gusto era il benedetto silenzio.
Suo cugino Gylas non era dello stesso avviso. Lui era un cantore, non poteva fare a meno di esprimere il suo amore per la musica. Poter parlare solo a bassa voce, e solo all'alba e al tramonto, per lui era una vera tortura.
Ma adesso Gylas era sparito, da quasi sei ore, e non c'erano molti posti dove nascondersi nel monastero. Sinyel cominciava ad essere davvero preoccupata.
Stava esplorando, anche se non sarebbe stato consentito. Aveva sbirciato nel dormitorio maschile, nelle cucine (tristi come il cibo che facevano uscire), perfino nelle stanze private del Monaco Maestro. Niente. Suo cugino era sparito nell'aere.
Alla fine, scoraggiata e stanca, tornò al dormitorio femminile di cui attualmente era l'unica occupante. Era quasi il tramonto, fra poco avrebbe dovuto raggiungere i monaci nel cortile interno per il saluto di addio al sole.
Entrò nello stanzone vuoto, accarezzando per un attimo l'idea di buttarsi sulla branda e riposare qualche minuto. Ma no, non ne aveva il tempo…
Stava giusto per indossare gli abiti cerimoniali, quando un vecchio armadio di legno si spalancò dall'interno, e un giovane mezzelfo dall'aria sconvolta si sporse fuori guardandosi intorno.
"Gylas!" Esclamò la donna, con un misto di sorpresa, sollievo e indignazione. "Che diamine ci fai qui? Nel dormitorio femminile? In un armadio??"
Il ragazzotto sbatté le palpebre un paio di volte, confuso per quell'assalto.
"Uh… no, io non… insomma, sono venuto qui per cercare te, ma poi ho sentito dei rumori da dentro l'armadio…"
"Gylas, ma sei nudo?"
"Ehmmm…"
"No, aspetta, non voglio saperlo. Vestiti ed esci di lì!"
"Signorina, cos'è questo baccano?" Sussurrò una voce dalla porta. Sinyel si girò di scatto, sentendo un brivido lungo la schiena. Aveva riconosciuto quella voce roca e autoritaria.
Il Monaco Maestro si ergeva sulla soglia, eterno e inflessibile, pronto a giudicare quello scenario scabroso.
"Infrazione del silenzio rituale. Presenza di un uomo nel dormitorio femminile. Un uomo nudo, peraltro, nascosto nell'armadio…" sottolineò, aggiungendo il carico al suo già monumentale imbarazzo. "Ed è vostro cugino, se la memoria non mi inganna?"
Sinyel emise un verso strozzato, a metà fra un singhiozzo e uno squittio. In quel momento desiderò di aver proseguito il cammino sul sentiero ghiacciato. Una morte pulita in un burrone, quella sarebbe stata una fine memorabile per un'avventuriera. La morte non ti giudica.
"No, non è come pensate! Posso spiegare tutto!" Esclamò Gylas, uscendo dall'armadio mentre si riallacciava la cintura in fretta e furia. "Io sono gay."
La confessione fu accolta da un silenzio granitico. Sinyel si riprese per prima.
"Cosa? E da quando? Fammi capire, te ne esci nudo da un armadio solo per dirmi che sei gay?"
"Non… le due cose non sono correlate" Gylas arrossì leggermente. "A proposito, c'è un fauno in questo armadio."
"Un cosa?" Questa volta era il monaco ad essere impallidito. "Non è possibile. È solo una leggenda. Il Portale del Caos è chiuso da secoli…"
"Non so che dirvi, c'è un fauno e anche un sacco di altra roba figa, un'intera landa piena di gente magica e…"
"Agente del caos!" Sbottò l'anziano saggio, riuscendo in qualche modo a gridare sussurrando. "Fuori da questo tempio! La tua nefasta presenza…"
Gylas rimase a guardarlo con aria sperduta, come se non capisse il motivo di quelle ingiurie. Sinyel rivelò una maggiore presenza di spirito. Raccolse il suo zaino, si lanciò sul cugino, lo afferrò per un polso e lo trascinò dentro al famigerato armadio.
Alle loro spalle, le ante si richiusero con un colpo secco. I due giovani non potevano sentirlo, ma il monaco aveva già cominciato a sigillare per sempre l'armadio incidendo simboli scaramantici.
Sinyel cercò di spingere lo sguardo avanti, verso il fondo dell'armadio, che sembrava innaturalmente lontano. Aveva fatto bene a credere alla storia del bardo? O si erano solo cacciati in un guaio più grosso?
"Gylas Rege, farà bene ad esserci davvero un altro mondo qui dentro." Lo avvertí, quasi ringhiando.
"C'è, te lo giuro. Fidati e vieni con me." Prese la mano della cugina e si incamminò verso il buio.
"E c'è davvero anche un fauno?"
"Altro che!" Promise il giovanotto. "Come pensi che abbia capito di essere gay?"

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Capitolo 3
*** 2. Lantern ***


2. Lantern


Sotto-genere: dark fantasy
Ambientazione: fantasy generico


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Il ragazzino raggiunse il limitare del bosco, riuscendo finalmente a tirare un sospiro di sollievo. Il cielo ormai era scuro, ma pieno di stelle. Sotto gli alberi perfino quella fioca luce gli era negata, ma adesso che finalmente aveva raggiunto il prato aperto poteva spaziare con lo sguardo. Non era meno perso di quanto lo fosse prima, però almeno non avrebbe più girato in tondo.
Non sapeva come avesse fatto a perdere di vista la sua famiglia; la montagna sapeva essere crudele e non perdonava il minimo errore. Una svolta sbagliata, una scorciatoia che non portava dove aveva sperato, e si era irrimediabilmente perso. Quella che avrebbe dovuto essere una felice gita fuori porta stava diventando un incubo.
Non sapendo cosa fare, il ragazzo ipotizzò che camminare in discesa prima o poi l'avrebbe riportato a valle. La montagna non era molto alta e forse perfino una persona inesperta come lui avrebbe potuto cavarsela in qualche modo.
La via che aveva scelto lo portò sull'orlo di un precipizio, una gola molto profonda sul cui fondo scorreva un torrente. Un vicolo cieco, insomma, visto che scendere da quella parte era impossibile e la gola era troppo larga per poterla saltare. Se solo fosse riuscito a capire in quale direzione scorreva l'acqua! Avrebbe potuto intuire almeno a grandi linee dove fosse la valle. Il torrente però era troppo lontano, sfuggiva al suo sguardo, e il rumore dell'acqua corrente non suggeriva nulla.
Il panorama davanti a lui non era facile da leggere. Non vedeva da nessuna parte quelle luci artificiali (fiaccole, lanterne, perfino una candela dietro una finestra!) che gli avrebbero indicato l'ubicazione del suo villaggio. La grande valle era davanti a lui? Oppure quello spazio nero che vedeva era una valle interna e disabitata, sull'altro versante della montagna?
Poi, quando stava ormai disperando, vide una luce che si muoveva in lontananza. Forse era una fiaccola? Forse suo padre era tornato a cercarlo?
Il ragazzo s'incamminò in quella direzione, il battito del suo cuore gli rombava nelle orecchie come il fragore di una cascata, tanto che perfino suo padre a quella distanza doveva averlo sentito. Agitò le braccia, provò ad urlare. Nell'aria fredda e immobile, il suo grido dovevano averlo sentito fino a fondovalle.
La luce smise di avvicinarsi, e il piccolo sventurato si accorse che non tremolava come il fuoco di una fiaccola. Era una fiamma più fioca eppure più stabile: la luce di una lanterna.
"L'Eremita" sussurrò, con timore reverenziale.
Quella dell'Eremita era una leggenda tipica delle loro montagne. Una storia antica, di cui neppure gli anziani ricordavano l'origine. Si diceva che di notte vagasse una creatura terrificante, non umana, vestigia di un'epoca in cui le creature fatate vivevano insieme agli uomini. L'Eremita doveva essere l'ultimo sopravvissuto di quell'antica stirpe. Eppure, nonostante il suo volto nero e gli occhi rossi come braci, non aveva mai fatto del male a nessuno. Secondo la leggenda portava armi e armatura, ma non aveva mai sguainato la spada. Tutto ciò che reggeva in mano era una lanterna, ma la sua luce era visibile solo a chi si trovava vicino a lui… vicino all'altro mondo.
Il bambino continuò a camminare, avvicinandosi sempre di più a quella creatura. Adesso riusciva a quasi a vederne i dettagli: il mantello lacero, come se fosse stato trafitto da mille spade. Il suo fisico minuto e quasi scheletrico. Le dita delle mani, lunghe e affusolate, nere come la notte. Aveva davvero in mano una lanterna, splendida e dalla foggia aliena; all'interno però non c'era fuoco, solo quattro piccole sfere di luce magica. Un prodigio delle fate, di sicuro.
Nonostante fosse ormai arrivato molto vicino, il ragazzino non riusciva a distinguere bene i tratti del volto dell'Eremita. Era come se i suoi lineamenti fossero avvolti nella nebbia, sotto il cappuccio sbrindellato. In presenza di quella figura mitologica, il cucciolo d'uomo ammutolì, sentendosi piccolo e ignorante. Aveva sempre riso di quella sciocca credenza, e invece… L'Eremita era davanti a lui, con la sua magica lanterna che faceva da guida alle persone che si erano perse sui monti. Era incredibile. Soprannaturale. Era praticamente un dio, per le persone semplici della valle, e uno sciocco ragazzino come lui era stato ammesso alla sua presenza, aveva avuto occasione di vederlo per davvero in questa vita, di confermare la leggenda…
L'Eremita alzò la lanterna, illuminando meglio il suo volto, e i suoi occhi rossi come il sangue scrutarono il piccoletto dall'alto in basso, con espressione greve. Poi, la creatura di un altro tempo parlò.
"Oh que ti fosti smarrito, puero?"
Il bambino sbatté gli occhi in silenzio, un paio di volte.
"Eh?"
"Puote lo favellar mio parerti un poco arcaico? Molti eoni passarono dall'ultimo incontro mio con un figlio dell'uomo."
"Eh… sì" balbettò lui, incerto. "Come dite voi."
"Ebbene, vieni meco, puero. Menoti allo sentiero que conduce alla vallata. Vagolare pel bosco, fosti invero uno gran capo de mentula."
"Eh?" Ripeté il bambino, poi si accorse che L'Eremita si era mosso, anche se non stava esattamente camminando. Sembrava più che altro che scivolasse sul sentiero. Si affrettò a seguirlo, perché nonostante lo strano spirito si muovesse in modo apparentemente lento, il ragazzino si trovò presto a dover quasi correre per stargli dietro.
"Aspettatemi! Chi siete voi? Sono vere le storie sul vostro conto?"
"Nissun figlio d'uomo fecemi mai menzione d'historie."
"Alcuni dicono che siate una creatura fatata" raccontò, la voce rotta dal fiatone perché non era facile muoversi rapidamente in montagna. "Altri dicono che siate un fantasma. I vecchi ci litigano, su questa cosa..." dentro di sé, si figurava già come l'eroe che avrebbe risolto l'annosa diatriba. Anzi, sarebbe stato visto come un eroe anche solo per il fatto di avere avuto il coraggio di parlare con l'Eremita.
"Tonterie!" Sbottò la creatura. "Fregiomi d'esser ambo le cose."
Questa volta il ragazzino sperduto restò ammutolito per lo stupore, e per molto tempo proseguirono in silenzio. Rientrarono nel bosco e le fronde degli alberi si chiusero sopra di loro, tagliando fuori ogni luce tranne la lanterna magica. Tutta l'attenzione del giovane umano deviò verso la necessità di non inciampare nelle radici.
Alla fine, improvvisamente com'era iniziato, il territorio boschivo si aprì, e anche il sentiero si fece più largo.
"Laggiù. L'umana cittade." Indicò l'Eremita.
"Oh… Sono a casa!" Esclamò il piccolo, asciugandosi gli occhi improvvisamente colmi di lacrime. Non sapeva perché stesse piangendo, ma in qualche modo si accorse che fino a un attimo prima aveva paura. Pensava di fidarsi dell'Eremita, ma il terrore dell'ignoto era una cosa irrazionale. "Grazie… grazie, Buon Vicino! Come posso…?"
"Non puoti" tagliò corto lo spirito. "Quieta le lagne."
"Ma… posso chiedervi… dove eravamo prima?"
L'Eremita aveva già iniziato a risalire il sentiero, ma si fermò per guardare con curiosità il bambino.
"In sul monte, ciuco."
"Gli anziani dicono che soltanto le persone vicine al vostro regno possono vedere la luce della lanterna." Insistette lui. "Mi trovavo al confine del regno delle fate?"
L'Eremita aveva sempre uno sguardo severo ma in quel momento riuscì a farlo sembrare anche giudicante.
"No, capo de mentula. Fosti prossimo allo regno delli defunti. Men que all'alba saresti giunto." Il ragazzo restò di sasso e sentì un brivido gelido (e non era il primo quella notte!), ma non dubitò nemmeno per un istante che fosse vero. "Simili cose, sentole per istinto. L'esistenza mia nutresi della di voi vita."
"Della vita?" Un'altra doccia fredda. "Ma quindi… perché non mi avete ucciso?"
"Que?" Lo sguardo rosso fuoco brillò ancor più intensamente, in un moto d'indignazione. "Della vita, dicoti! Non della di voi morte, stolto."
Il fantasma girò le spalle e se ne andò, in un teatrale fluttuare del mantello sfilacciato. La luce della sua lanterna diventò presto fioca e debole, forse perché il ragazzo non ne aveva più bisogno. Prima che scomparisse del tutto, però, gli sembrò che adesso ci fossero cinque sfere di luce in quel magico artefatto, non più quattro.

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Capitolo 4
*** 3. Unseelie King ***


3. Unseelie King


Sotto-genere: dark fantasy
Ambientazione: Forgotten Realms


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1340 DR, Phlegethon, Profondità Ventose del Pandemonium

Lorne rimase in piedi a testa alta, onorando il silenzio tombale della grande sala fredda. Accanto a lui, il corpo quasi morto del suo ultimo rivale si stava ancora contraendo negli ultimi spasmi prima dell’oblio.
L’abile shadar-kai era stato il più pericoloso degli sfidanti, e infatti era stato l’ultimo a essere sconfitto. Aveva combattuto con… be’, non con onore, ma aveva fatto onore alla cupa nomea del suo popolo… però non era stato all’altezza di uno come Lorne.
Il malvagio gloura piegò le labbra in un sorrisetto affilato, ricordando come il folletto dell’ombra avesse schivato spasmodicamente i fendenti della sua spada, credendola avvelenata. Non immaginava che Lorne avesse sparso il veleno sulle borchie del piccolo scudo da braccio. Era bastato un energico pestone sulla faccia dello shadar-kai, un piccolo graffio causato dalle borchie e il veleno era entrato in circolo. La faccia del nemico morente era gonfia e tumefatta a causa del veleno, un’altra sottile soddisfazione per il vincitore.
All’inizio di quella competizione, nessuno avrebbe scommesso su Lorne. I gloura di solito hanno un animo pacifico, perfino buono. Gli individui malvagi erano considerati una rarità in quel popolo, quasi soffrissero di un difetto di nascita. Lorne odiava questa fastidiosa nomea, odiava il suo aspetto innocuo, i grandi occhi neri che ispiravano tenerezza, le ali da falena, l’incarnato argenteo e i suoi miseri cinque piedi d’altezza. Odiava tutto del suo aspetto fisico, anche se lo considerava funzionale ai suoi scopi: esteticamente era passabile, e questo era necessario per poter sperare di diventare il sovrano delle fate unseelie, consorte della favoleggiata regina Mab.
Ma se l’aspetto era un requisito necessario, ancor più lo era l’intelligenza, l’intraprendenza, la forza di imporsi sui rivali e trionfare. Una serie di sfide aspettavano i pochi coraggiosi che si candidavano per quel titolo, e Lorne le aveva superate tutte.
Adesso restava soltanto la Cerimonia del Dono, l’ultima formalità.
Prima di assumere ufficialmente un consorte, la regina Mab avrebbe richiesto al fortunato vincitore un ultimo sacrificio: donarle la cosa a cui teneva di più al mondo.
Molti sciocchi erano caduti a causa di quell’ultimo tranello: erano morti, oppure si erano tirati indietro a un passo dal traguardo. Lorne sapeva che a lui non sarebbe successo.

La regina lo guardò con un sorrisetto lieve, affilato, soddisfatto eppure malvagio, dall’alto del suo meraviglioso trono. Riconobbe la sua notevole vittoria solo con un leggero cenno del capo. Poi, con appena un gesto delle belle dita pallide, il gloura fu congedato. Lorne ingoiò l’orgoglio e chinò il busto: era l’ultimo giorno in cui avrebbe dovuto tollerare questo trattamento, da domani lui e la sua regina si sarebbero guardati negli occhi da pari a pari. Re del popolo unseelie, finalmente.

Lorne era sempre stato malvagio, da che ricordava. Non che all’inizio l’avesse fatto apposta; lui era quello che era, semplicemente, e sarebbe stato contento di vivere la sua vita a spese del prossimo, secondo la via di minor resistenza. Una vita facile, da parassita.
Ma i suoi simili, no. Loro dovevano coinvolgerlo a tutti i costi nella loro vita comunitaria, nelle danze, negli incontri diplomatici con altre razze, perfino nei rituali di guarigione.
Che schifo. Era tutto così innaturale per Lorne, così spossante.
Ogni parola gentile era come uno spillone conficcato nei suoi nervi. Ogni volta che uno dei suoi fratelli pretendeva che lui si comportasse da persona buona, era una piccola spinta verso un baratro di rabbia e di desiderio di distruzione.
Lorne da giovane voleva solo essere lasciato in pace, ma così non era stato, e ora la pace sarebbe stata solo un ricordo per il suo popolo.
I gloura erano fate del sottosuolo, sia nel mondo degli umanoidi che nel mondo dei folletti. In entrambe le dimensioni esisteva una vasta rete di cunicoli sotterranei, e in entrambe le dimensioni era abitata dai gloura. Nessuno sapeva come mai una razza sotterranea fosse basilarmente buona. Era un controsenso, una cosa assurda. L’oscurità dei luoghi richiama l’oscurità nei cuori, era sempre stato così, era naturale.
Le leggende dicevano che i gloura avessero dei lontani legami con la corte unseelie, la fazione malvagia del regno delle fate. Lorne si era chiesto spesso se quelle leggende fossero vere, e se questo non significasse che era lui il gloura normale, dopotutto, non gli altri. Erano loro i deviati, corrotti da pensieri di pace, rammolliti. Lui era uno dei pochissimi fortunati a essere immune al lavaggio del cervello.
“Ma tutto questo finirà domani” mormorò fra sé, sorridendo come un folle. “Con i miei studi sulla magia della musica e sull’utilizzo della voce, e con il potere della regina a sostenermi, riuscirò a riconvertire il mio intero popolo alla sua natura originaria. Questo sarà il mio dono di nozze: migliaia di nuovi seguaci per la mia sposa, che metteranno al nostro servizio la più potente magia bardica!” Le sue dita si agitavano di loro iniziativa, il gloura non riusciva a contenere l’emozione.
Raggiunse la sua stanza nel grande palazzo della sua ospite, sgusciò oltre la porta che sembrava fatta di oscurità cristallizzata, e finalmente si sentì al riparo da sguardi indiscreti.

Mezz’ora più tardi, incapace di rilassarsi anche se era stanco e dolorante per il combattimento, Lorne camminava avanti e indietro misurando a grandi passi la sua stanza.
Nella sua mente ripassava ancora e ancora tutti i preparativi e tutte le precauzioni che aveva preso finora.
Non sapeva quale dono la potente regina avrebbe preteso da lui.
Il suo libro di incantesimi e ricerche arcane? Era una cosa che aveva previsto, e aveva creato tante copie parziali, in modo che nessun altro grimorio, preso singolarmente, avesse altrettanto valore dell’originale. Le copie però gli avrebbero permesso di conservare il suo lavoro.
La sua vita? L’astuto folletto aveva già pronto un clone, un corpo vuoto che sarebbe stato un ricettacolo per la sua anima nel momento in cui il suo vero corpo fosse stato ucciso.
La sua anima? In quel caso non c’era nulla che potesse fare, ma era improbabile che la richiesta fosse così scontata.
Più ci pensava, più si convinceva di aver messo una toppa a tutte le possibili falle.
Qualche ora più tardi finalmente riuscì a calmarsi e a meditare un po’. L’indomani avrebbe dovuto essere in forma smagliante.

La mattina seguente, quando il gloura fece il suo ingresso fiero e impettito nella sala del trono, l’intera corte unseelie sembrava essersi riunita lì per assistere alla cerimonia. Lorne si aspettava… se non devozione, almeno un po’ di rispetto. Gli sarebbe andato bene anche un terrorizzato silenzio, dopotutto lui aveva vinto la competizione, sbarazzandosi di una dozzina di contendenti. Invece la gente intorno a lui lo guardava di sottecchi, con strafottenza, qualcuno ridacchiava perfino.
“La Cerimonia del Dono” sussurrò fra sé e sé, per farsi coraggio. “Non sarò il loro re finché non avrò superato l’ultima prova.”
La Regina dell’Aria e dell’Oscurità, la possente Mab, restò comodamente seduta sul suo impressionante trono nero, scolpito a foggia di drago. Si favoleggiava che il trono fosse magico, anzi tutti lo davano per certo, anche se i suoi veri poteri erano noti solo alla Regina.
Quel che era sicuro, era che nessun maschio poteva sedere su quel trono. Il Rituale di Passaggio, l’atto con cui un erede saliva al trono alla morte (di solito violenta) di una Regina, finora aveva sempre accettato solo eredi femmine, riconfermando la monarchia matriarcale. Il Re Unseelie poteva avere solo un ruolo da consorte.
La Signora non aveva mai preso marito finora, e a sottolineare ciò, non esisteva un trono per un re consorte. Lorne aveva già pensato a come farsene costruire uno. Non sarebbe stato più grande di quello della regina, questo era proibito, ma sarebbe stato altrettanto impressionante.
Sostenuto da quei pensieri allettanti e dal suo smisurato orgoglio, il malvagio gloura avanzò a testa alta lungo il salone. Quando arrivò ai piedi dei gradini che portavano al trono, si inginocchiò in segno di deferenza.
La regina si alzò, silenziosa come la brezza invernale. Il suo sorriso si fece più luminoso, ma in un modo famelico.
“Ah, il mio campione. Puoi alzarti. Non è degno di un re inginocchiarsi, nemmeno davanti alla regina. E tu sarai re… non appena avrai confermato il tuo impegno.”
“Sì, mia signora” Lorne si alzò, rigidamente, badando bene a tenere chiuse quelle ali che tanto disprezzava. Se riusciva a evitare movimenti involontari, potevano quasi passare per un mantello. “Chiedete e vi sarà dato.”
La regina scese con calma i pochi gradini che li separavano. Era un messaggio anche quello: non intendeva farlo salire sulla pedana del trono finché non si fosse dimostrato degno.
“Dovrai darmi la cosa a cui tieni di più” gli ricordò lei, con voce maligna. Ecco, dunque. Il momento della verità. Lorne pregò di aver fatto abbastanza per stornare il pericolo di un disastro.
“Dovrai darmi la tua voce.”

Lorne batté le palpebre un paio di volte, sconcertato.
“Ma… mia signora, la mia magia si basa interamente sulla mia voce. Tutte le mie ricerche sul potere della voce dei gloura…”
“Questo è esattamente il punto, non ti pare?” L’infida sovrana sorrise come un gatto davanti al topo.
Lorne cadde in ginocchio, in un estremo tentativo di dichiarare la sua fedeltà. “Mia amata regina, era mia intenzione mettere al vostro servizio la mia magia e quella del mio popolo. Sono infinite le cose che potrei fare per voi, se solo me ne deste occasione…”
“Commovente” scandì lentamente la fata, per nulla impressionata. “La tua lealtà è così grande che hai bisogno di farti re per degnarti di essere mio servo?”
In quel momento Lorne realizzò con chiarezza il suo madornale errore.
Non ci sarebbe mai stato un re. Ogni sette anni la regina dava la possibilità, a chiunque volesse candidarsi, di concorrere per il titolo. Ma nessuno mai avrebbe vinto. Era un modo per liberarsi dei maschi con eccessiva ambizione.

“Vi domando perdono per aver sprecato il vostro tempo. Avete ragione, io vi devo servire perché sono un vostro suddito, non per avere una ricompensa. Permettetemi di continuare le mie ricerche, da mago e cantore quale sono, perché non sono degno di essere re.”

La regina lo guardò andare via, in silenzio, dall’alto del suo trono. La sua posa era più casuale adesso, con un gomito sul bracciolo, il viso sostenuto da una mano. Il suo sorrisetto era malizioso, ma non più crudele. Lo aveva lasciato vivere, dopotutto.
Gli altri cortigiani non avevano la sua classe, e non risparmiarono le risatine mentre il gloura umiliato lasciava la stanza.

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Capitolo 5
*** 4. Goat ***


4. Goat


Sotto-genere: comico
Ambientazione: fantasy generico / parodia
Nota: questa storia è il sequel di 1. Faun


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“Sei proprio sicuro di questa cosa, Gylas? Conoscere sua madre? Insomma, vi frequentate da quanto… due settimane?”
“Sinyel, stai dimenticando una cosa: qui il tempo passa in modo diverso.”
La mezzelfa rimase spiazzata per un momento.
“Ma… due settimane qui sono pur sempre due settimane, non importa quanto tempo passa nel nostro mondo! Mi stai prendendo per i fondelli?”
Il bardo sorrise e si strinse nelle spalle in un gesto di scuse. “Va bene, mi hai beccato. Ma vuole farmi conoscere sua madre, che posso dire?”
“La madre di un satiro” la donna vagò con il pensiero, cercando di ricordare quello che sapeva sulle creature fatate. “Dovrebbe essere una ninfa? O forse… un’umana? Se un satiro si accoppia con un’umana, viene fuori un altro satiro?”
“Non lo so, ma non ci sono molti umani qui” Gylas si guardò intorno, indicandole il panorama con un ampio gesto del braccio. “Sembra che in questo luogo vivano solo esseri fatati e buffi animali parlanti.”
“In questo momento vorrei aver prestato più attenzione alle leggende” Sinyel si sedette a terra, guardando il panorama come se le avesse fatto un torto personale. “Comunque sappi che non mi piace questo posto, non ho niente da fare e mi annoio.”
“Ma che dici? Pensa a quante avventure potremmo vivere in questo mondo fatato!”
“No” lo fermò la cugina. “Esplorazioni, non avventure. Se non affronti mai un nemico non è una vera avventura. La mia spada arrugginirà nel suo fodero!”
Gylas si sedette accanto a lei e si mise a pizzicare le corde del suo liuto. Sperava di risollevarle il morale con la sua musica bardica, ma Sinyel gli lanciò un’occhiataccia che era tutta una promessa di liuti spaccati su teste mezzelfiche.
“Qui non ho un lavoro, non ho una casa e non ho prospettive. Voglio tornare nel nostro mondo, cugino! Voglio sentirmi utile!” Sottolineò, in tono minaccioso.
“Ma l’armadio è stato sigillato dal vecchio monaco, e in ogni caso non sarei in grado di ritrovarlo…”

Per fortuna in quel momento vennero interrotti dall’arrivo del loro amico satiro, in compagnia di… una capra.
La capra aveva anche una campanella al collo.
Il fauno si avvicinò con la sua andatura saltellante, tutto orgoglioso.
“Gylas, amico mio, ti presento mia madre.” Si inchinò in modo teatrale, indicando la capra.
“Be-eeeh” belò quella.
I due mezzelfi rimasero di sasso, senza sapere cosa dire. Loro venivano da un mondo più o meno normale, in cui le capre erano capre e venivano considerate beni di proprietà dei pastori.
“Ehm… piacere, signora” tentò Gylas, con un sorriso incerto, sentendosi ridicolo.
“Lo decido io se è un piace-eeeh-re” rispose la capra, in tono molto altezzoso. “Cosa mi rapprese-eeeh-nti, strano satiro glabro?”
Gylas boccheggiò. La sorpresa del momento gli aveva fatto dimenticare che in quel mondo gli animali erano senzienti e parlavano.
“Io… eh?”
Gylas cercò lo sguardo di Sinyel, ma dalla sua espressione era chiaro che nemmeno lei aveva risposte.
“Quali sono le tue intenzioni verso mio figlio?” Insistette la capra.
“...”
La capra continuò a guardarlo male, con le sue pupille rettangolari, inquietanti.
“Perché avete un campanello al collo?” Domandò Sinyel, per spezzare la tensione.
La capra le gettò appena un’occhiata. “Be-eeeh, sono sce-eeeh-lte.”
“Ma chi produce le campanelle in questo mondo?” Sussurrò Sinyel, realizzando in quel momento l’assurdità della cosa. “Gli animali non hanno le mani.”
“Ebbe-eeeh-ne, giovanotto?” Incalzò la capra, all’indirizzo di Gylas.
“Io… non sono glabro” protestò lui, alla fine, accarezzandosi i capelli corti. “E le mie intenzioni sono… uh…”
“Si conoscono da due settimane! Dategli tempo, sorella capra!” Intervenne la guerriera.
“Perché le cose si fanno be-eeeh-ne” protestò la capra. “Allora, sei se-eeeh-rio con mio figlio?”
Gylas guardò in silenzio la capra, spiazzato, poi guardò il suo amante.
“Ovvio che no, ci conosciamo appena!”
La capra scalpitò sugli zoccoli e prima che Gylas si rendesse conto del pericolo, aveva già caricato per dargli una testata. Le corna erano piccole e girate all’indietro, come in tutte le capre femmine, quindi la testata non fu molto dolorosa.
“Allora aria, be-eeeh-llo!” Sputò il quadrupede, saltellando sulle zampe.
Il mezzelfo spostò lo sguardo sul fauno, che si strinse nelle spalle con espressione del tutto innocente.
“Ah.” Commentò il giovanotto. “Capisco. Non c’è problema, mia cugina voleva andarsene in ogni caso.”
“Già che ci siamo” suddetta cugina prese la palla al balzo. “Questo mondo è fatto tutto così, calmo e pacifico? Non c’è qualche altro regno dove la vita sia un po’ più movimentata?”

Il satiro e la capra rimasero a guardare i due mezzelfi che si allontanavano verso sud, verso regioni inesplorate.
“Grazie, Genevieve” borbottò il fauno. “Si stava appiccicando un po’ troppo.”
“Mi de-eeeh-vi un favore” belò l’amica.
Quando gli avventurieri di un altro mondo furono finalmente fuori portata d’udito, il satiro e la capra scoppiarono a ridere.
“Cre-eeeh-dere che fossi tua madre!” Genevieve si rotolò a terra dalle risate.
“Non so se è più ignoranza o più malizia” l’uomo-capra scosse la testa con un sorriso, facendo oscillare la lunga barba. “Ma è sempre divertente.”

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Capitolo 6
*** 5. Eyes ***


5. Eyes


Sotto-genere: dark fantasy
Ambientazione: Forgotten Realms


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1314 DR

Lauden Crowe di Neverwinter e Yulis Angelsin della Confraternita Arcana di Luskan avevano sempre collaborato controvoglia, tanto più in quel frangente: i due maghi si erano sempre considerati rivali ma dovevano necessariamente lavorare insieme, per portare a termine un esperimento che ciascuno dei due voleva tenere per sé. Purtroppo quando Yulis, divinatore di grande capacità, aveva cominciato a mettere in piedi quel progetto, si era reso subito conto che avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di un valido necromante.
Era una ricerca mirata a potenziare immensamente le sue capacità divinatorie, ma per svolgere tutti i passaggi serviva qualcuno che padroneggiasse la delicata arte della vita e della morte, e tutte le sfumature intermedie.
Yulis aveva già lavorato con Lauden in passato, e fino a quel momento erano riusciti a non uccidersi a vicenda. Lauden era un libero professionista ma era pericoloso e ambizioso tanto quanto i necromanti della Confraternita; Yulis l'aveva scelto solo perché era un fuoricasta, e non doveva la sua lealtà a nessuno, anche se il suo segreto desiderio era essere ammesso in quella prestigiosa cerchia di maghi. Yulis aveva sempre pensato che fosse meglio fare accordi con un singolo mago, piuttosto che con qualcuno che era solo l’ingranaggio di una branca rivale, e che aveva le spalle coperte dal potere di un arcimago. Inoltre Lauden avrebbe lavorato sodo in cambio dell'impegno formale di Yulis a perorare la causa della sua inclusione nella Confraternita.

Peraltro, nonostante lo scopo ultimo fosse promettente, non molti maghi si sarebbero buttati in quell’impresa ricca di ostacoli e disagi. Strisciare nei luoghi più remoti e isolati di Faerûn per trovare delle Pozze Elementali, senza nemmeno la certezza di essere sulla strada giusta, era un valido deterrente per la maggior parte dei maghi della Confraternita Arcana. Anzi, per la maggior parte dei maghi in generale.
Yulis e Lauden lavoravano al progetto da un paio d'anni, senza contare la fase preliminare di ricerca sui libri svolta dal divinatore.
I primi mesi di ricerche sul campo li avevano portati a trovare la pozza elementale di un Fato del Fuoco, un cunicolo sul lato di un vulcano che si apriva in una specie di conca piena di fiamme e lava ribollente. Era stato il loro primo incontro con un Fato Elementale, e quel giorno avevano trovato conferma delle molte tremende difese di cui quelle creature potevano disporre. Al Fato non era piaciuto il loro atteggiamento irrispettoso. La splendida creatura elementale dalle fattezze femminili aveva crepitato una maledizione con la sua voce simile allo scoppiettio di una fiamma, e aveva cominciato a evocare altri elementali che li avevano attaccati. A quel punto i maghi avevano provato a difendersi evocando elementali d’acqua, ma il Fato aveva subito preso il controllo anche di quelli.
Con estrema fatica i due maghi avevano sopraffatto tutti quei nemici, giusto in tempo per vedere il Fato fare ciao ciao con la mano e tuffarsi nella sua pozza di fuoco, sparendo in un Portale che si trovava sul fondo.
I due rapitori mancati erano rimasti con un pugno di mosche in mano, sfiniti, feriti, ma soprattutto incavolati neri. Lauden aveva cominciato ad insultare Yulis in tutte le lingue che conosceva, perché era stato il divinatore a fare ricerche sui Fati Elementali e non sapeva nulla sulle loro difese o su quel metodo di fuga.
A quel punto i due maghi si erano rimessi in cerca di un’altra preda; una volta individuata una nuova pozza elementale, non avevano commesso lo stesso errore di prima, non erano corsi sul posto per dare battaglia. Questa volta si erano presi il loro tempo per organizzare tutto per bene. Tanto, i Fati Elementali non possono spostare le loro pozze, e non possono allontanarsi da esse se non per fuggire sul loro Piano di nascita.
Senza indugio avevano preso contatto con un professionista che proveniva dal Limbo, un githzerai solitario che si era specializzato nell’arte di sabotare Portali. Avevano dovuto pagarlo profumatamente, e Lauden aveva insistito che Yulis sborsasse la maggior parte della quota, ma alla fine erano riusciti a mettere in atto il loro piano crudele.
Si erano avvicinati alla pozza elementale della terra, un vortice di fango e sassi che si trovava sul fondo di una caverna poco accessibile. Era un luogo protetto già solo dall’ambiente in cui si trovava, ma oltre a questo, il Fato Elementale che presiedeva quel luogo sembrava pronto ad accoglierli, come se avesse previsto il loro arrivo.
Il githzerai riuscì a portare a termine il suo compito: con i suoi poteri straordinari, rese l’intera area impenetrabile a qualsiasi incantesimo di evocazione o di trasporto magico. Ora non era più possibile evocare elementali, o usare Portali per fuggire…
Ma il Fato della terra aveva previsto anche questo.
Aveva evocato i suoi elementali con largo anticipo, sapendo che le capacità del githzerai potevano impedire il viaggio planare, ma non potevano bandire creature che erano arrivate in precedenza.
La battaglia che ne seguì fu davvero cruenta; i tre invasori riuscirono a scappare appena in tempo. Azazirg, il mercenario githzerai, per poco non ci rimise un braccio, e pretese un pagamento extra per il rischio che aveva corso.

Tutta la geniale pianificazione dei due maghi era stata vana, perché avevano dimenticato la cosa più importante: tutti i Fati Elementali sono eccellenti divinatori, ma i Fati della terra sono specializzati esattamente nel prevedere disastri e cataclismi. Era inevitabile che un Fato della terra riuscisse a vedere in anticipo l’arrivo di maghi che volevano ucciderlo. Yulis un po’ se lo aspettava… ma non immaginava che un Fato potesse conoscere anche i dettagli della strategia che avrebbero usato. I poteri di quelle creature raggiungevano un livello di precisione incredibile, che gli scatenò piacevoli brividi di aspettativa.
Non aveva dubbio sul fatto che un giorno sarebbe riuscito a rubare i poteri di quattro Fati Elementali, diventando praticamente onnisciente. Era solo questione di tempo, e la difficoltà del catturare quelle prede era commisurata al loro valore.

Alla fine, dopo due anni e mezzo dall’inizio della loro avventura, dopo aver percorso centinaia di miglia a piedi o con la magia e sborsato migliaia di monete in informatori e incantesimi, finalmente i due maghi ce l’avevano fatta. Avevano strappato gli occhi a quattro Fati Elementali.
Con le capacità di Azazirg avevano bloccato molte delle possibili mosse dei Fati (lasciando per ultimo il terribile Fato della terra), Yulis si era specializzato sul deviare e distorcere le loro divinazioni, e Lauden aveva messo in campo le sue conoscenze necromantiche per smembrare i Fati senza che i loro poteri andassero perduti.
Adesso, finalmente, avevano terminato il lavoro… o quasi. Avevano tutti gli ingredienti, mancava solo di metterli insieme senza che l’instabilità dei quattro elementi facesse esplodere tutto il composto.
“Ho studiato molto bene la questione” annunciò Yulis, in privato, al suo collega di studi. “Gli occhi dei Fati Elementali hanno mantenuto i loro poteri di divinazione solo perché tu hai fatto in modo che fossero il ricettacolo dei loro spiriti.”
“Me lo ricordo bene” replicò il necromante, con fastidio. “Te l’ho spiegato io.”
“Ma questo significa che per ottenere lo spirito della divinazione più perfetta, non si può semplicemente mettere insieme questi quattro… estratti. Il risultato sarebbe instabile, pericoloso. I quattro elementi devono essere ancorati a qualcosa che possa supportarli tutti. Una base neutra, diciamo.”
“Una base neutra”, ragionò Lauden. “E dal momento che ne stai parlando con me, intuisco che tu non intenda una base neutra come la gomma di acacia o il legno di calan, che sono sostanze magicamente poco energetiche. Tu intendi qualcosa di più… consistente.”
“Una creatura che abbia in sé tutti e quattro gli elementi” chiarì Yulis, anche se non ce n’era bisogno. “Come un essere umano.”
“Non ti permetterò di provare questa cosa su te stesso!” Sibilò Lauden. “Non ti prenderai i frutti del nostro duro lavoro senza condividerli con me!”
Yulis restò sorpreso a questo sfogo, perché non aveva la minima intenzione di esporre se stesso al rischio di un esperimento che nessuno aveva mai tentato prima. L’accusa del necromante era assurda, a meno che… a meno che il suo stimato collega non stesse cercando di spingerlo a fare quell’esperimento, sapendo che avrebbe potuto tradursi in un disastro. Forse non si fidava delle sue promesse e pensava che la sua morte avrebbe liberato un posto vacante nella Confraternita.
“Mi deludi, mio caro amico” il divinatore agitò un dito ammonitore. “Mi credi capace di una simile nefandezza? No, quello che ci serve è un ospite… umano o umanoide. Qualcuno che non sia abituato a gestire energie magiche, in modo che non possa prendere il controllo di questi poteri e ribellarsi a noi, ma allo stesso tempo qualcuno che abbia una mente temprata e non rischi di impazzire.”
Yulis si esibì in un ghigno affilato, malvagio, e Lauden ci arrivò un momento dopo. Azazirg, il mercenario. Era ancora con loro, in attesa dell’ultima parte del suo pagamento.
I due maghi sorrisero scambiandosi un’occhiata d’intesa, per la prima volta nella loro vita.
Avevano trovato il ricettacolo perfetto, e avrebbero anche risparmiato i soldi del suo ingaggio.

...

Azazirg si risvegliò a notte fonda, ma il confuso githzerai non poteva saperlo. In quella stanza (in quella prigione?) non c'erano finestre.
Quando uno dei due maghi gli aveva offerto un bicchiere di vino per celebrare la fine della missione, Azazirg non aveva percepito nulla di sospetto. Avevano bevuto il vino della stessa caraffa, e lui stesso aveva scelto il bicchiere, quindi non potevano averlo drogato in quel modo. Che cosa era successo?
L'intenzione criminale dei due maghi era palese, visto che lo avevano incatenato a una specie di altare.
Azazirg cercò di mantenere la calma e la concentrazione, perché cedere al panico non sarebbe servito a nulla. Saggiò le catene che gli chiudevano i polsi: impossibili da spezzare, troppo strette per poter sfilare le mani.
Dovevano per forza averlo drogato, perché l'emicrania non voleva saperne di passare. Il githzerai amava credere di essere bravo a mantenere il controllo sul suo corpo e sulla sua mente, eppure eccolo lì, impotente e indifeso come un pivello.

In realtà il fatto che i due maghi fossero i responsabili della sua condizione era ancora solo un sospetto: era passato molto tempo da quando si era svegliato, almeno mezz'ora, e non aveva visto anima viva. Se ne stava lì a fissare il soffitto buio, aspettando che il mal di testa gli lasciasse spazio per pensare, e cercava di tenere a bada i pensieri più spaventosi.
Teletrasportarsi, era possibile? Ricordava vagamente di avere qualche trucco su per la manica, per così dire. Non un vero teletrasporto, ma almeno un piccolo salto dimensionale che lo facesse scomparire e riapparire qualche passo più in là, libero dalle catene.
Ci provò. Sì concentrò con tutte le sue forze, perché la sua sopravvivenza dipendeva da quell'idea.
Nulla.
Il disperato prigioniero non sapeva se fosse la droga a limitare le sue capacità mentali, o se fosse stato lanciato un qualche incantesimo per frustrare i suoi tentativi di fuga.
Forse… forse quando i suoi carcerieri fossero tornati, sarebbe riuscito a convincerli a lasciarlo andare. Forse avrebbe potuto cavarsela con promesse, lusinghe, menzogne…
Purtroppo non riusciva a mantenere a lungo un corso di pensieri. La sua mente veniva continuamente deviata da idee laterali e ricordi del tutto senza controllo.
Ad esempio, non erano adorabili quelle piccole luci che cominciava a vedere nel buio?
Ma erano…?
Piccole luci. Piccole luci?
Che cos'erano?
Fuochi fatui?
No, troppo piccole. I fuochi fatui non erano fatti in quel modo.
Due piccole sfere di luce rossa, due di luce bianca, due di un azzurro profondo e le ultime due di un caldo ocra dorato. Le luci dello stesso colore non si allontanavano mai troppo l'una dall'altra. Cominciarono una sorta di balletto in cui si avvicinavano, coppia a coppia, come per studiarsi, poi si allontanavano.
Azazirg riusciva a vederle sempre meglio, all'inizio pensava solo che fossero un'illusione dei suoi occhi stanchi invece adesso era sicuro che ci fossero davvero.
In realtà le vedeva sempre meglio perché si stavano avvicinando, fluttuavano sopra di lui ma si stavano abbassando verso il suo corpo incatenato. Verso il suo volto.
Le luci bianche scesero nei suoi occhi, penetrando nei bulbi oculari come se fossero prive di materia. Non fu doloroso.
Quello che avvenne dopo però sì.
Azazirg gridò, il suo fisico sonnolento improvvisamente fu di nuovo sveglio e scattante. Tirò con forza i legami che lo ancoravano alla pietra, ma non c'era verso di liberarsi.
Non era davvero dolore; era tutto nella sua mente, ma non per questo era meno reale.
La sensazione era che qualcosa avesse afferrato la sua mente e l'avesse aperta a forza, esponendola all'aria e alla luce.
Luce. Non vera luce, ma una sorta di illuminazione.
All'improvviso Azazirg sapeva.
Non tutto, non ancora, ma sapeva dove si trovava e come ci era arrivato, attraverso i vialetti acciottolati del minuscolo villaggio di Zelbross. Si trovava in un'antica cisterna per l'acqua, abbandonata, così antica che gli umani della regione non ne ricordavano l'ubicazione; si credeva fosse stata scavata dai nani che un tempo abitavano quella regione.
Azazirg non capì come quelle informazioni gli fossero arrivate nella mente tutto a un tratto, ma non ebbe il tempo di chiederselo.
Le lucine ocra si stavano avvicinando al suo viso. Gridò e si dimenò, ma non ci fu niente da fare. Le luci rimasero sospese davanti ai suoi occhi per un momento, e Azazirg comprese che cosa stava vedendo: due bulbi oculari, intangibili, spirituali. Poi le due piccole sfere penetrarono nei suoi occhi e il githzerai assunse la conoscenza del suo futuro infausto: se gli occhi dei Fati Elementali lo avevano scelto come nuova dimora, per lui era la fine. Non avrebbe potuto contenere il potere di quattro creature leggendarie. Nessuno era destinato a conoscere tutto del futuro e del presente, era abbastanza per far impazzire anche una mente disciplinata come la sua.
Seppe anche che se i Fati non l'avessero posseduto, sarebbero morti. I loro spiriti non potevano esistere in assenza di un recipiente, e non avevano alcuna intenzione di morire.

Quando le sfere blu entrarono nei suoi occhi, sentì che la sua testa stava per esplodere. Con la preveggenza del Fato dell'Acqua però arrivò anche la conoscenza di tutto ciò che riguardava la guarigione, e quindi scoprì quale fosse la sua unica blanda possibilità.
Gli occhi del Fato del Fuoco. Il fuoco, l'elemento dello spirito, indica la via per la speranza anche nelle situazioni più disperate. Se c'era qualcuno che poteva salvarli tutti era il Fato del Fuoco.

I due maghi uscirono dall'ombra nel momento in cui anche le luci rosse entrarono nella testa dei githzerai. Il ricettacolo era sofferente, ma ancora vivo, e questo lasciava ben sperare per l'esperimento.
Quando Azazirg avesse smesso di gridare come un pazzo, avrebbero potuto verificare l'esito di quel primo tentativo.
...ma Azazirg non accennava a smettere.

"Lauden, fai qualcosa!" Lo esortò il divinatore, che aveva paura di perdere tutto il suo lavoro. "Stabilizzalo!"
"Posso stabilizzare il suo corpo, non la sua mente!" Protestò il mago oscuro, frustrato per la propria impotenza.
Intanto gli occhi di Azazirg avevano iniziato a emettere strani bagliori multicolore, come se al loro interno gli spiriti dei Fati si stessero fondendo controvoglia.
Il githzerai cominciò a tossire acqua dalla bocca.
"No. No!" Gridò Yulis, gettandosi sul prigioniero e afferrandolo per le spalle. "Gli elementi lottano all'interno del suo corpo. Di questo passo lo uccideranno!"
"Ah…" gorgogliò Azazirg, con voce flebile. "Aria, mostrami la via. Ac… acqua, dammi la vittoria." Le sue parole erano solo un sussurro, Yulis si chinò su di lui per sentire meglio. "Fiamma… portami alla pace…"
Il corpo di Azazirg prese fuoco.
Yulis fece un salto indietro, ma ormai era tardi, le sue lunghe vesti da mago stavano già bruciando.
I maghi non sono famosi per la loro prestanza fisica o per la prontezza di riflessi, e Yulis non faceva eccezione. Prima di riuscire a sfilarsi il mantello e la veste si era già trasformato in una torcia.
Avrebbe potuto cercare di lanciare un incantesimo per spegnere il fuoco ma purtroppo il dolore impedisce alla mente umana di concentrarsi.
"AAAAAALAUDEEEEN!" Fu il suo ultimo grido, prima di crollare a terra svenuto per il dolore, moribondo.
Lauden contemplò i due cadaveri in fiamme, sollevando un sopracciglio.
L'esperimento era fallito. Aveva sprecato tutto quel tempo per niente.
Be'... Non proprio per niente. La morte di Yulis era stata uno spasso. Peccato non avere delle toffolette da arrostire.

Nel frattempo, invisibile agli occhi del mago, l'anima di Azazirg si stava staccando dal suo corpo. Non era più veramente l'anima di Azazirg, in realtà: era l'unione della sua anima, davvero energeticamente neutra, e dei quattro elementi volatili che riuscivano a continuare ad esistere solo rimanendo mescolati alla sua essenza.
Noi ora siamo uno, pensò la cosa. Lo pensò il Fato Elementale dell'Acqua, a beneficio di se stessa, per mettere la situazione in chiaro a quelle parti di lei che non l'avevano ancora capito. È l'unico modo in cui possiamo esistere.
L'anima confusa e sbilanciata si contrasse in se stessa, come se stesse affrontando una lotta interiore.
Ma nemmeno l'anima di un morto può restare in questo mondo a lungo. Moriremo. Non possiamo tornare nei nostri regni elementali, il mago nero ci ha resi solo l'ombra di ciò che eravamo. Protestò quella parte di lei che un tempo era il Fato della Terra, capace di prevedere la morte e le disgrazie.
Troveremo qualcuno che ci ospiti, intervenne il Fato dell'Aria. Acqua, dicci cosa ci serve. Io troverò la strada.
Di nuovo l'anima si contrasse e si distese, mentre le varie parti al suo interno si adattavano a fare sentire la propria voce pur nel mergersi delle loro coscienze.
Dobbiamo ripartire da capo. Per poter vivere insieme dobbiamo svilupparci come un'anima nuova. Dobbiamo trovare una femmina umanoide che sta per concepire, ed entrare nel bambino nel momento in cui inizia a formarsi, prima che possa creare una sua anima od ospitarne un'altra. Dev'essere una creatura umanoide… non qualcuno come un genasi o una fata, perché una creatura legata a un elemento specifico ci porterebbe disequilibrio. Però è meglio qualcuno dalla vita lunga e dai ritmi lenti. Un elfo, magari.
Un elfo
, convenne il Fato del Fuoco. Vedo speranza in questo.
Ma dobbiamo fare in fretta!
Pretese il Fato della Terra. Perché è vero che più il tempo passa e meglio siamo mescolati, ma siamo anche sempre più vicini alla morte eterna. E gli elfi non sono così fertili!
Io troverò la via
, ribadì il Fato dell'Aria. Io la trovo sempre. Anzi, l'ho trovata.



**********
Nota: i Fati Elementali sono davvero "mostri" di D&D, almeno per la terza edizione, e si trovano nel Manuale dei Mostri II.

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Capitolo 7
*** 6. Gnomes ***


6. Gnomes


Sotto-genere: introspettivo
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: sequel di Senza motivo


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1375 DR, Grande Foresta

Gimli spalancò gli occhi di colpo e si sollevò seduto, respirando a pieni polmoni. La morsa della paura gli stringeva ancora la gola, un velo di sudore gli bagnava la fronte.
L’aria profumava di terra umida, di foglie cadute e di quella frescura tipica dei luoghi che non vengono mai del tutto inondati dal sole. Questo fu sufficiente a ricordargli che si trovava in un bosco, non sottoterra.
Un altro incubo, pensò lo gnomo, passandosi il dorso di una mano sulla fronte. Non è successo niente. Non a me, comunque.

Gli incubi avevano sempre fatto parte della sua vita, da quando era piccolissimo. Non sempre erano così brutti. A volte erano solo vaghi sogni di luoghi lontani, persone che credeva di conoscere e invece no, segreti sussurrati in lingue che capiva in sogno ma non avrebbe saputo parlare da sveglio. Anche i sogni però erano inquietanti, a causa di quella loro fuggevolezza. Lo gnomo del sussurro si sentiva come se una grandissima parte della sua vita fosse appena oltre la portata della sua memoria.

Gimli non era sempre stato uno gnomo. Fino a pochi mesi prima, in effetti, era uno gnoll. Era nato gnoll, nella foresta Wealdath. La sua vita si prospettava semplice: avrebbe dovuto crescere nel suo branco, imparare a cacciare e a uccidere. Sarebbe stato un normalissimo gnoll, un uomo-iena, una creatura né umana né bestia. Sarebbe diventato un sanguinario assassino con il cervello di un’arachide, come tutti quelli della sua specie.
Poi il suo branco era stato ucciso, e un piccolo gruppo di avventurieri l’aveva trovato abbandonato nella sua tana. Anziché ucciderlo, l’avevano preso con loro nella speranza di poterlo crescere con principi più sani.
All’inizio il cucciolo di gnoll non aveva per niente collaborato. Mordeva la mano che lo nutriva, segnava i loro zaini con la sua urina, cercava di scappare a ogni occasione. Poi, mentre quegli avventurieri erano in visita in un luogo benedetto, Gimli era riuscito a mangiare una ghianda di un albero molto particolare, una quercia-anima. La quercia era la tomba di un eroe amico degli elfi, e una pallida impronta della sua anima risiedeva ancora nell’albero. Mangiando la ghianda, la mente animalesca di Gimli era stata investita da una marea di ricordi di una vita non sua. Quasi duecento anni di ricordi, nella mente di una creaturina che aveva poche settimane di vita.
Gimli si era trovato dal nulla a parlare (male) una decina di lingue, conoscere le basi del combattimento con la spada (pur senza essere in grado di tenere in mano una spada), e ricordare i volti di persone che non aveva e non avrebbe mai conosciuto. Ma soprattutto, la sua mente si era espansa contemplando nuovi concetti, nuovi pensieri, valori e ideali.
La sua natura di gnoll e la sua mente civilizzata erano state forzate a convivere in uno spazio tremendamente ristretto.
Per fortuna i cuccioli hanno una capacità di adattamento che agli adulti manca. Gimli era lentamente riuscito a venirne a capo. Aveva faticato molto per bilanciare i suoi pensieri, i pensieri che non erano suoi, e i suoi istinti animali. In qualche modo era riuscito a prendere tutte le parti di cui era composto e unirle insieme in qualcosa di più o meno armonico.
I suoi amici erano stati d’aiuto. Gli avventurieri che l’avevano raccolto non potevano tenerlo per sempre, ma avevano trovato qualcuno a cui affidarlo, e dopo un paio di passaggi di mano Gimli aveva finalmente trovato un branco degno di questo nome.
Era andato a vivere nella Grande Foresta, adottato da una driade e dal suo amante, un elfo druido che si fingeva un ranger. O meglio, Gimli aveva accettato per fede il fatto che fosse un elfo, perché ormai la sua anatomia non era più distinguibile come un tempo: settant’anni prima si era sottoposto a un rituale che lo aveva trasformato in una creatura boschiva, praticamente una pianta la cui forma ricordava abbastanza quella originale.
Era senza dubbio uno stranissimo branco per uno gnoll, ma anche lui era uno stranissimo gnoll.

Poi era stato ucciso. Qualche mese prima, un guerriero elfo di passaggio aveva deciso che gli gnoll non meritano fiducia, e l’aveva aperto in due con il suo spadone.
Una fine ingloriosa per qualcuno che, ogni tanto, aveva ancora incubi su ondate di orchi e goblin che lo assalivano e lo uccidevano mentre difendeva una foresta di elfi.
Non erano ricordi suoi, erano ricordi della quercia, ma comunque gli incubi se li beccava lui.
Era difficile non prenderla sul personale.

Per fortuna l’amico druido si trovava nei paraggi, e l’aveva immediatamente riportato in vita… ma con un incantesimo da druido, Reincarnazione, che l’aveva fatto tornare ma con il corpo di una creatura diversa.
Uno gnomo del sussurro.

Dopo aver passato tre anni a cercare di far convivere la sua doppia natura, Gimli di colpo aveva perso tutti i suoi istinti gnoll, la sua natura impaziente e aggressiva, il suo prodigioso fiuto, la sua stazza imponente… ancora una volta era diventato un’altra persona, né più né meno.
Come se non bastasse, i ricordi della quercia stavano diventando sempre più ovattati e confusi. Il suo amico druido, Duvainion, aveva ipotizzato spiegazioni da druido come “tutto ciò che è parte di te un po’ alla volta fluisce e torna a fare parte del mondo”, che secondo Gimli era l’equivalente aulico di “te la stai cacando fuori”.
Secondo Adòla, che aveva un animo poetico come la maggior parte delle driadi, Gimli aveva ricevuto il messaggio della quercia quando gli serviva e ora non ne aveva più bisogno.

Di che cosa avesse bisogno adesso, invece, non era molto chiaro.
Gimli si ributtò a terra, sdraiandosi sul suo giaciglio. Quando era uno gnoll, anche con i ricordi confusi, la vita era più semplice. Era strano essere uno gnomo.
Tutti dicevano sempre che gli gnomi erano gioviali e spensierati, anche se molto intelligenti. Gimli non sentiva alcuna spinta alla frivolezza. Non era gioviale. Non era festaiolo, né gli veniva mai voglia di fare scherzi.
In realtà stava sviluppando una personalità abbastanza cupa. Non cupa quanto lo era stato il tizio che era morto ed era stato sepolto sotto la quercia, no, quel livello di cupezza poteva raggiungerlo solo qualcuno che fosse cresciuto senza vedere la luce del sole. Piuttosto, Gimli era portato a pensieri malinconici, pessimisti. Il suo corpo in un certo senso sembrava adattarsi bene a quello stato d’animo: la sua pelle grigiastra gli dava un’aria malsana, la sua struttura fisica era sottile e segaligna, i suoi occhi avevano assunto uno slavato colore ceruleo.
Era così tanto meglio essere uno gnoll.

Però, questo era innegabile, essere uno gnomo aveva dei vantaggi dal punto di vista sociale. Nessun elfo l’aveva più attaccato a prima vista. Era una considerazione triste, ma Gimli sapeva essere concreto.
Poi ormai si stava abituando a quel nuovo corpo. Aveva perso la forza della sua corporatura massiccia, ma aveva guadagnato un’agilità che prima di allora poteva solo sognare.
Gimli rimase a lungo a fissare le stelle, in quel brandello di cielo che si vedeva oltre le cime degli alberi. Proprio ora che aveva un corpo che gli avrebbe permesso di replicare lo stile di combattimento dell’anima nella quercia, stava cominciando a dimenticare i suoi ricordi.
Si alzò, afferrò le sue spade corte e si mise a fare un po’ di esercizio, per scaldarsi nell’aria fredda della notte. Non era in grado nemmeno di stimare quanto fosse competente come guerriero. Allenarsi il più possibile sarebbe stato cautelativo.
Soprattutto ora che non sapeva proprio cosa aspettarsi dal futuro.
Duvainion l’aveva convinto a tentare un approccio verso altri gnomi, per capire se magari potesse trovarsi più a suo agio in loro compagnia.
La città di Silverymoon distava pochi giorni di cammino dal bordo settentrionale della Grande Foresta, ed era una città multietnica, con una piccola comunità di gnomi.
Duv, Adòla e Gimli vivevano a molte miglia di distanza, nella zona meridionale del bosco; ci sarebbero volute settimane di cammino per arrivare al confine con le Lande d’Argento, specialmente alla lentezza cui si muovevano, ma forse ne sarebbe valsa la pena.

Il mattino arrivò, lo gnomo se ne accorse perché il cielo si stava schiarendo lentamente. Quando Duv emerse dal suo riposo notturno (essere una pianta aveva un po’ cambiato i suoi ritmi vitali), vide che l’amico era già vestito, armato e pronto a partire.
“Ansioso di incontrare altri gnomi?” Lo punzecchiò, con un sorriso che si intuiva più dalla voce che dai lineamenti.
“Ansioso di dimostrarti che sei una testa di legno, non si va d’accordo solo sulla base della razza!” Gimli aveva sempre la risposta pronta, e la sua lingua sapeva essere affilata, ma in quel periodo si stava dando un contegno perché capiva che i suoi amici volevano solo il suo bene.
“Io invece vorrei dimostrarti che puoi vivere in mezzo alla civiltà, e che puoi avere più di due amici” ribatté il druido, stiracchiandosi e tendendo le braccia verso il cielo. Era ora di colazione anche per lui, e poteva trarre una piccola parte del suo sostentamento dalla luce solare.
“Ma va’, figuriamoci. Non sono come gli altri gnomi. Diranno che sono un musone asociale e antipatico.”
“Non puoi saperlo in anticipo. Dai a te stesso almeno una possibilità.”
Gimli si strinse nelle spalle, perché non aveva senso discutere ancora sulla questione. Si erano già messi in viaggio. Non aveva il cuore di dire a Duv che per lui fra gnomi, elfi, umani, nani, non faceva nessuna differenza. Si sentiva un alieno rispetto al mondo, e forse sarebbe stato sempre così.

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Capitolo 8
*** 7. Robin Redcap ***


7. Robin Redcap


Sotto-genere: drammatico
Ambientazione: Scozia, XIX secolo


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“Le fate non esistono, Robin” borbottò il ragazzino, mimando il tono del suo insegnante con una smorfia e una voce gracchiante. “Resta con i piedi per terra, Robin. Bah! Maledetto prete!”
Robin diede un calcio a un sasso, mandandolo a cadere in un fosso. Stava procrastinando il più possibile il momento di tornare a casa, barcollando lentamente nella luce del tramonto. Si portava sulle spalle i libri di scuola tenuti insieme da una cinghia. Se fosse stata primavera, avrebbe dovuto correre nei campi ad aiutare suo padre, ma era inverno e non c’era molto da fare in campagna. Il sole calava molto presto, d’inverno, e quindi appena uscito dalla scuola parrocchiale Robin doveva tornarsene a casa, prima che facesse buio.
Un gatto gli tagliò la strada. Robin, tutto ingrugnito, calciò un altro sasso in direzione dell’animale. Il gatto schivò il colpo con un balzo, soffiò e scattò via, ma Robin trasse un po’ di soddisfazione dal fatto di aver condiviso il suo malumore con qualcuno.
Nella sua mente immaginò di poter tirare un sasso anche al suo maestro. Era un pensiero piacevole, quasi esaltante. Robin non si considerava un ribelle, ma aveva sempre avuto una vena di sadismo e di violenza. Era sempre stato così fin da quando aveva memoria, gli piaceva sistemare il veleno per topi e gli piaceva sezionare piccoli animali a scuola.
Però non odiava gli animali, dopotutto. Odiava di più i suoi compagni di classe, e perfino i suoi fratelli più grandi, che si credevano tanto più in gamba di lui. Avevano riso tutti, quel pomeriggio, mentre il maestro lo umiliava ripetendo che non esistono le fate. Robin però ci credeva. Tutte le storie che gli aveva raccontato suo nonno non potevano essere menzogne, il vecchio era l'unica persona che gli avesse voluto bene, quindi non poteva avergli raccontato fesserie.
"Le fate esistono eccome, e anche i folletti, gnomi, i coboldi e tutti gli altri Buoni Vicini" borbottò, lasciando sobbollire la sua rabbia. "Un giorno ve lo farò vedere!"
Le risate dei suoi compagni di classe continuavano a infestare i suoi ricordi, gli sembrava quasi di sentirle ancora come se quegli odiosi pidocchi fossero lì. Poi si accorse che non si stava ingannando, c'era davvero qualcuno che rideva. Una strana voce acuta, come se qualcuno lo stesse prendendo in giro.
Rosso di rabbia, il bambino si guardò intorno, cercando il buontempone per prenderlo a pugni. Non c'era nessuno.
"Quaggiù!" Lo chiamò una vocetta, quando ormai si era quasi convinto di avere avuto un'allucinazione. "Guarda bene nel fosso!"
Robin si avvicinò al fosso che costeggiava il bordo strada, e vide con sua enorme sorpresa che c'era un ometto accucciato laggiù sul fondo, dove la luce del sole non riusciva a sciogliere la brina. Era un piccoletto con abiti fuori moda e un berretto rosso; era difficile capire le sue vere dimensioni visto che se ne stava accucciato, ma sembrava tozzo e squadrato. Era anziano, con una lunga barba bianca, le dita quasi scheletriche, come quelle di certi vecchi che non mangiano più molto a causa della mancanza di denti. Lui invece i denti ce li aveva, eccome. Moltissimi denti, affilati come rasoi. Quando sorrise a Robin, il suo ghigno sembrava più pensato per minacciare che per mostrare amicizia.
“Caro ragazzo…”
Robin sentì un brivido lungo la schiena. Gli occhi malevoli iniettati di sangue, i denti aguzzi, il cappello vermiglio… aveva sentito abbastanza storie da riconoscere un Redcap al primo sguardo.
Sapeva che avrebbe dovuto scappare, ma vedere un vero goblin in carne e ossa era troppo… semplicemente troppo per poter voltare le spalle e fuggire verso la banalità della sua casa.
“Non aver paura, fanciullo” disse quella creatura tutta denti, cercando di suonare rassicurante. “Così pochi umani credono ancora in noi! Tu sei prezioso per noi Buoni Vicini, non sei una mia preda. Anzi, sono qui per ricompensarti per la tua lealtà. Sono qui per farti un dono.”
Alla mente di Robin si affacciò un ricordo lontano: suo nonno, che gli raccomandava di non accettare doni dalle fate. Ma era consentito accettare dei premi, c’erano molte storie di fate travestite da povere anziane, che ricompensavano gli umani che le trattavano con gentilezza. Ora il Redcap aveva detto di volergli dare qualcosa come premio per la sua lealtà, quindi non era esattamente un dono.
“Di che cosa si tratta?” Domandò Robin, un po’ dubbioso ma anche emozionato.
“Vedo che non hai un cappello, e sta venendo l’inverno” notò il Redcap.
“Non è che non ce l’ho, me l’hanno tolto per darlo a mio fratello piccolo. Mia madre me ne sta cercando un altro” raccontò, un po’ inviperito. La sua vita era sempre stata così: indossare abiti di seconda mano, e poi doverli passare a suo fratello minore.
“Mi piacerebbe darti il mio cappello. Non sarà nuovo di pacca e nemmeno tanto bello, ehi, ma è magico!” il goblin ghignò in un modo molto poco rassicurante.
Robin per qualche ragione non ebbe paura di quel ghigno, anzi, cominciò a percepire che forse lui e quella creatura erano simili.
“Poteri magici? Non so, mi sembra troppo, dov’è la fregatura?” Robin poteva vederlo come un suo simile, ma questo voleva dire che, anche se gli faceva simpatia, non poteva fidarsi. Non si sarebbe mai fidato di se stesso.
“Nessuna fregatura! Amico mio, noi siamo rimasti in pochi. Ecco cosa farà questo bel berretto rosso: quando morirai… fra molti anni, quando sarà il tuo momento… non morirai davvero, ma ti trasformerai in uno di noi. Apparterrai al popolo dei folletti. L’idea ti garba?” Lo tentò, con un sorriso a centoquaranta denti.
“Se mi garba? Perbacco, sì!” Esclamò il ragazzetto, facendo quasi un salto.
Il piccolo goblin si alzò in piedi (era davvero basso, come un bambino che non va ancora a scuola), si tolse il cappello e lo lanciò fuori dal fosso. Robin lo acchiappò al volo. Era di stoffa pesante, e il rosso era in realtà un color mattone. Ricordò la leggenda secondo cui il cappello dei Redcap era rosso perché lo immergevano nel sangue delle loro vittime, e rabbrividì. La stoffa però non sembrava impregnata di sangue, forse quella parte della leggenda era falsa.
“Grazie, oh, grazie infinite, signor…” abbassò lo sguardo per cercare il goblin, ma la creatura leggendaria era scomparsa nel nulla.
Questo non lo scoraggiò, anzi, aggiunse solo altra magia a quell’incontro. Aveva parlato con un vero folletto, e il cappello ne era la prova. Non se ne sarebbe separato mai.


Tredici anni dopo

Le assi scricchiolavano sotto il suo peso, eppure Robin non era un uomo grasso. Era sempre stato smilzo, atletico ma asciutto, come se non riuscisse a mettere su peso. Negli ultimi dieci giorni, il cibo della prigione non aveva fatto molto per saziarlo. Ma che importanza poteva avere? Era solo un morto che camminava.
Qualcuno gli sistemò il cappio intorno al collo, dando uno strattone al nodo per accertarsi che la testa non si sfilasse nella caduta.
“Nell’anno del Signore milleottocentosessantuno” cominciò il banditore, catturando l’attenzione della gente in piazza, “il pluriomicida Robin MacFinley, noto come Robin Redcap, è stato…” un boato corale dalla folla lo costrinse a fermarsi un momento. Qualcuno lanciò uova marce addosso a Robin, ma lui non se ne curò più di tanto. Si annotò bene quei volti, piuttosto. Per dopo.
“Robin MacFinley è stato giudicato colpevole di brigantaggio, furto, assassinio di almeno undici persone, e per i suoi crimini è stato condannato a pendere dalla forca fino a che morte non sopraggiunga. Verrà ora eseguito l’ultimo desiderio del condannato.” Il banditore fece un cenno al boia, che mise una mano nella tasca di Robin e ne tirò fuori un berretto di stoffa rossa, stropicciato.
La gente ricominciò a rumoreggiare. Il famigerato Robin Redcap era stato il terrore del paesino di Drochaid Èireann in un primo momento, e poi dei villaggi nei dintorni, fino a destare la preoccupazione della città di Perth. Il suo cappello rosso era diventato il simbolo della sua depravazione, e quando il boia glielo mise sulla testa, la folla esplose e ricominciò a lanciare uova.
Per fortuna quella vista disturbante durò solo un attimo, poi sul volto del condannato fu calato un cappuccio nero. Pochi si accorsero che quel cappuccio stava coprendo un ghigno soddisfatto, non una smorfia di paura.

Se Robin MacFinley sia davvero diventato una creatura fatata dopo la morte, questo non si sa. Di certo era stato violento quanto un vero Redcap quando era in vita.
Ad ogni modo, nella sua nuova esistenza, Robin non avrebbe ricordato nulla di quando era umano.
Le promesse dei Buoni Vicini sono sempre un po’ nebulose.



**********
Nota: ho dovuto fare un po’ di ricerche per scrivere questa storia e ci tengo a condividerle:
- I dintorni di Perth sono effettivamente una zona agricola, nell’odierna contea del Perthshire, nelle Highlands. Il villaggio di Drochaid Èireann esiste davvero, ma in inglese si chiama Bridge of Earn. I cognomi (patronimici) che iniziano con Mac- sono tipici delle Highlands, mentre nelle Lowlands si usa il suffisso -son.
- Le scuole parrocchiali sono state promosse in Scozia, anche nei distretti rurali, grazie a una riforma del 1834, pochi anni prima dell’inizio di questa storia. Le esecuzioni pubbliche in Gran Bretagna sono state comuni fino al 1868, poi abolite in favore di esecuzioni chiuse al pubblico, mentre la pena di morte per omicidio è stata abolita solo nel 1999.
- Il Redcap è davvero una figura folkloristica scozzese, ma a onor del vero appartiene più alla zona di confine fra Scozia e Inghilterra.

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Capitolo 9
*** 8. Waterlilies ***


8. Waterlilies


Sotto-genere: avventura, drammatico
Ambientazione: Forgotten Realms


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1277 DR, da qualche parte nella giungla del Chult

Gobeith non aveva mai affrontato un avversario tanto coriaceo. La paladina manovrava la lunga spada reggendola con entrambe le mani, perché la fatica ormai esigeva il suo prezzo, ma l'arma continuava a muoversi con la grazia di una biscia d’acqua. La lama dai riflessi azzurri saettò e colpì l’uomo-serpente, aprendogli un taglio su una spalla. Gobeith aveva mirato al collo, ma lo yuan-ti era sfuggente e veloce, anche più di lei.
Nonostante tutto, era cautamente ottimista. Avrebbe potuto vincere.

La gente la chiamava Portatrice di Pace, per il suo importante lavoro diplomatico nel Mare di Meth, ma ogni tanto la pace poteva giungere solo attraverso l’uso delle armi.
Era giunta fin quasi all’altro capo del Faerûn pur di smantellare il traffico di schiavi che affliggeva la sua gente. Una compagnia di yuan-ti, guidata dal malvagio Zsumoahis Toltsallu, aveva stabilito un quartier generale nell’Unther e da lì aveva iniziato a rapire umani e spiritidi dei fiumi, mentre il governo corrotto guardava dall’altra parte. D’altronde, a chi importava di quei semplici pescatori? E gli spiritidi, non del tutto umani, non erano forse una presenza sgradita nel Mare di Meth? Tolti loro, le città di Shussel e Messemprar avrebbero avuto il controllo totale del lago, con tutti i vantaggi economici che ne conseguivano.
Nessuno voleva aiutare quella regione periferica, Gobeith e la sua gente avevano dovuto cavarsela da soli.
Alla fine di un quinquennio di guerriglia, indagini e inseguimenti, aveva finalmente messo all’angolo il braccio destro di Toltsallu, uno yuan-ti mezzosangue che appariva come un umano mingherlino, ad eccezione della coda da serpente che partiva dal coccige e arrivava quasi a terra. Avrebbe potuto passare per un umano se non fosse stato per la coda e per quegli occhi da rettile, inquietanti e crudeli.
Gobeith sapeva che Zsumoahis Toltsallu, che si faceva chiamare con l’altisonante titolo di Dente di Sseth, non avrebbe saputo mantenere la presa sul potere senza il costante supporto del suo luogotenente.
Sszarek Ivanissu era una persona leale, nonostante la sua malvagità. Non aveva mai cercato di fare le scarpe al suo superiore, anche se un abominio ofidiomorfe come Toltsallu di sicuro non portava scarpe. La sua lealtà però lo rendeva ancora più pericoloso. Non c’erano crepe né punti deboli nell’organizzazione della cellula yuan-ti, e questo significava che i loro elementi di spicco dovevano essere semplicemente distrutti.
Sszarek era l’ultimo. Il clan Ivanissu, i maggiori sostenitori di Dente di Sseth, erano stati trovati e uccisi uno alla volta. Alcuni di loro erano studiosi, maghi, cacciatori di umanoidi. Sszarek era un combattente, e anche molto esperto.
Gobeith parò tre colpi in rapida successione, e poi un’ondata di energia mentale riuscì quasi a farle perdere la concentrazione e l’equilibrio. Si rimise in posizione di difesa, ma faceva sempre più fatica.
Devo farcela. Devo sopravvivere.
Gobeith non era sempre stata una paladina. Un tempo era una donna normale, che si curava della sua famiglia e del suo villaggio subacqueo; il massimo della responsabilità che poteva assumersi era guidare gli incontri diplomatici con gli umani della regione… insomma era una persona pacifica.
Non era nella natura degli spiritidi, essere così seri e grevi. Quasi tutti loro avevano ereditato la leggerezza dei loro antenati fatati, che fossero nixie, ninfe dei fiumi, o altre creature acquatiche. Gobeith non faceva eccezione; erano state le razzie yuan-ti a spingerla a prendere sul serio la vita e imbracciare le armi.
Devo sopravvivere. La mia gente sarà libera dalla paura. Tornerò al mio villaggio, a curare le ninfee d’acqua che crescono vicino alle rive. Sarà tutto come prima.
Un altro assalto mentale, ma Gobeith scosse la testa e si liberò di quel peso prima che facesse presa su di lei. Modificò la presa sull'impugnatura della spada e si lanciò contro il nemico.
Sszarek non si aspettava che la fragile guerriera riuscisse a resistere al suo ultimo attacco, avrebbe dovuto schiacciarle il cervello come una frittella. Aveva pianificato di prendere tempo con quell’assalto, in modo da potersi concentrare per evocare altri poteri… ma la donna non gliene diede il tempo.
Prima che l’uomo-serpente potesse alzare la spada per parare, l’affilata lama sacra della sua avversaria gli era già penetrata nel petto fino all’elsa.

Sszarek spalancò le palpebre, sia quelle umane sia quelle da serpente, e sgranò gli occhi per la sorpresa. Non doveva andare così! Il suo elmo gli garantiva un effetto costante di Leggere Pensieri, un potere psionico che permetteva di captare i pensieri superficiali delle altre persone. Doveva servirgli a prevedere le mosse dell’umana, ma il suo stile di combattimento era molto meno ragionato di quello a cui lo yuan-ti era abituato. Tutto quello che aveva visto erano sciocchi ricordi di fiori che crescevano sull’acqua e persone che sorridevano, e poi quella spada gli aveva trapassato il torace.
Morire in questo modo… era ridicolo. Dopo tutto quello che aveva fatto. La scalata al potere, tradire e pugnalare alle spalle membri della sua stessa famiglia mentre insieme lavoravano per scalzare altri clan dalla gerarchia, ottenere il favore di quell’idiota borioso e violento di Zsumoahis Toltsallu… per poi morire in un lontano avamposto, per mano di una stupida invasata che pensava solo al suo piccolo inutile villaggio e a stupidi fiori d’acqua.
Non c’era un senso, non c’era uno scopo.
No, Sszarek non poteva accettarlo. L’umana stava per estrarre la spada, ma con le sue ultime forze lo yuan-ti la afferrò per il collo, arpionandola con una mano. C’era una protezione di cuoio ma lui cominciò comunque a stringere. Il suo intento non era soffocarla; come tutti gli individui della sua razza, aveva il potere di secernere acido dalla pelle.

Quando Gobeith si sentì afferrare la gola, il suo primo istinto fu cercare di divincolarsi, ma il nemico non voleva lasciarla andare. La paladina rigirò la spada nel petto dello yuan-ti, ottenendo un soddisfacente scricchiolio. Non voleva essere crudele, ma dargli una morte veloce era il modo migliore per fargli mollare la presa.
Poi la pelle del collo cominciò a bruciare, laddove la mano dello yuan-ti la stava toccando, e si rese conto che la protezione di cuoio era svanita, come se fosse stata corrosa.
“No!” Gridò, un urlo strozzato, disperato. Stava cominciando a capire.
Cercò di divincolarsi, ma la presa dello yuan-ti non accennava a rilassarsi, anche se lui era ormai ferito a morte.
“Affonderai con me, cagna” biascicò lui, sputando un grumo di sangue.
La scelta di parole fece tornare in mente a Gobeith il suo villaggio subacqueo, la sua gente che viveva in pace. Non avrebbe mai più rivisto suo figlio, né la sua nipotina. Non avrebbe più curato le ninfee, non avrebbe più giocato fra i loro alti steli, spensierata come gli altri spiritidi dei fiumi. Sarebbe morta lì, a centinaia di miglia da casa, e la realizzazione di quella terribile perdita la colpì con più violenza della paura della morte. No, non aveva paura della morte, non davvero, perché aveva portato a termine il suo compito. Ma non poter tornare alla sua vita… era così triste.
Triste come doveva esserlo quel patetico individuo, quel meschino insetto che, piuttosto che niente, doveva proprio trascinarla nella tomba. Quel gesto non l’avrebbe salvato. Era solo per pura cattiveria.
Stava per perdere tutto a causa di un nemico che non era nemmeno in grado di capire quello che le stava togliendo.
Avrebbe dovuto essere arrabbiata, ma la tristezza riempiva tutto il suo animo e non c’era posto per altri sentimenti. Era così soffocante che si ritrovò a provare pena anche per lo yuan-ti, per la sua vita vuota e senza amore, per quel rancore che era l’unico sentimento che sapeva provare.
Quando l’acido bucò la pelle - e fu questione di un attimo - Gobeith morì, con quell’orribile espressione di pena negli occhi.

Sszarek stava morendo, ma il suo elmo magico gli lasciò sbirciare gli ultimi pensieri della nemica, anzi, glieli sbatté in faccia. Di nuovo quel maledetto lago, poi immagini della paladina che indicava i fiori a una mocciosetta bionda. Erano visioni prive di senso per uno come Sszarek, ma mentre moriva riuscì a intuire quanto dovessero essere importanti per la sua vittima. Si capiva dalla sua tristezza. Ma chi mai poteva essere triste per quelle cose prive di valore? Solo una povera stupida.
Sarebbe morto per mano di una povera stupida. Si sarebbe anche arrabbiato, se ne avesse avuto la forza, ma il suo mondo si stava oscurando. L’ultimo pensiero che riuscì a captare fu una criptica frase, anzi meno di una frase, più una sensazione: “Quanta pena provo per me, che perdo tutto. Quanta pena provo per te, che non hai nulla da perdere.”
E nonostante il fatto di essere riuscito a uccidere la sua avversaria, Sszarek non trasse alcun conforto da quella vittoria. Lei se n’era andata senza odiarlo.

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Capitolo 10
*** 9. Wind ***


9. Wind


Sotto-genere: avventura, lore, comico
Ambientazione: Tribyd, mondo di Wrych (mia ambientazione)


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Il suo popolo lo chiamava Mrrush, che nella loro lingua significa Vento.
Lo chiamavano così perché sapeva passare senza tracce, riusciva ad infilarsi dappertutto e niente sembrava in grado di fermarlo.
Era un onore avere un nome così lusinghiero, soprattutto perché stava durando tantissimo tempo. Almeno cinque anni.
Per i kittenfolk, che continuavano a cambiare nomi e soprannomi ogni pié sospinto, era strano che un nome resistesse un intero lustro. Va tenuto presente che la loro aspettativa di vita non arriva a venticinque anni... in condizioni ottimali. Nel crudele e selvaggio mondo di Wrych, la vita media di un kittenfolk si attestava intorno ai sette, otto anni.
Con il loro piccolo corpo tozzo e cicciottello, quei gattini umanoidi erano prede perfette per le arpie, i draghi fumarandi, o i crudeli peryton che calavano dal cielo con i loro artigli da aquila e le corna da cervo. Per non parlare delle creature di terra che davano la caccia un po’ a tutto, come le belve distorcenti o le chimere, o i rari ma temutissimi basilischi (i kittenfolk sapevano che un basilisco non va mai guardato negli occhi, ma si sa, la curiosità uccide il gatto).
Da quando Mrrush aveva preso il comando della colonia, la vita media si era allungata di quasi due anni, e i kittenfolk l’avrebbero scoperto se solo qualcuno di loro fosse stato esperto di statistica o demografia. Naturalmente nessuno lo era, in quella società tribale e sciamanica, ma la sensazione generale era che Mrrush fosse un buon capo.
Era furbo, e questo agli altri piaceva molto. Se necessario sapeva essere aggressivo e rimettere al loro posto altri kittenfolk che miravano a ricoprire suo ruolo, ma in linea generale quel gattino rosso come il sole al tramonto aveva il supporto di quasi tutta la colonia.
Adesso però il suo popolo era in pericolo, e Mrrush avrebbe dovuto superare sé stesso.

“Vento, la lunga notte sta calando” miagolò il suo migliore amico, un kittenfolk bianco e tigrato che tutti chiamavano Tozzo.
Tozzo non aveva alcuna utilità al mondo, se non affermare l’ovvio, ma Vento gli era troppo affezionato per dargli la zampata in testa che si sarebbe meritato. Era come un figlio per lui.
“Ma va?” Miagolò con sarcasmo, sostenendo lo sguardo preoccupato dell’altro gattino. Tozzo aveva occhi enormi, e quando era spaventato diventavano ancora più enormi. “Non c’è tornare indietro, lo sappiamo tutti. C’è solo andare avanti.”
“Dietro di noi c’è la notte e tutti i suoi pericoli, primi fra tutti i malvagi folletti della Corte Unseelie” intervenne Ombra, la kittenfolk nera. “Davanti a noi c’è il maledetto deserto di fuoco, e non c’è tempo di aggirarlo.”
“Non possiamo aggirarlo, stupida serpe” le rispose Vento, con cattiveria. Quei due si erano sempre odiati, e lei non faceva altro che pianificare tradimenti contro di lui, ma senza successo. Il capo-colonia la lasciava vivere solo perché era una delle poche femmine. “Verso-la-foresta il territorio è stato preso dai centauri e hanno cacciato ogni altra forma di vita intelligente. Certo, a te magari ti vogliono. E verso-le-montagne è pieno di viverne. Per continuare a fuggire dalla lunga notte, potevamo venire solo qui!”
“E morire nel fuoco, grande genio” ritorse lei, che aveva il dente avvelenato. E la coda spelacchiata, e un orecchio tagliato, e un sacco di cicatrici, tutto per colpa di Mrrush e delle loro lotte.
“Non sono stupido, Ombra. Arriviamo ai confini del deserto e aspettiamo le piogge del tramonto.”
A questo annucio, tutti i kittenfolk della colonia cominciarono a far vibrare i baffi, agitatissimi.
“Le pioggie!”
“Oh, no! Acqua che cade dal cielo!”
“Dobbiamo trovare riparo!”
“SILENZIO!” Impose Vento, gonfiando il pelo e la coda per sembrare più grosso.
Una trentina di gattini si zittirono all’istante, abbassando le orecchie all’indietro e spalancando gli occhi per la paura.
“Ascoltate il mio piano! L’acqua che cade dal cielo non piace neanche a me! Ma spegnerà il fuoco del deserto, finché dura. Useremo le piogge per spingerci verso dove c’è ancora il giorno, continuando a sfuggire alla notte.”
I kittenfolk si guardarono l’un l’altro, ma poi fu Tozzo a prendere il coraggio di obiettare: “Ma… la notte corre più veloce di noi. Corre più veloce di tutti, tranne che dei mostri-con-le-ali. Nemmeno tu, che sei Vento, puoi correre più veloce della notte. Da quando iniziano le pioggie, abbiamo solo… solo… due cicli della luna bianca prima che il tramonto finisca.”
“Se corriamo nel tramonto, avremo almeno due cicli e mezzo” lo corresse Vento. “Ho fatto i miei calcoli.”
Il concetto di fare i calcoli era alieno ai kittenfolk, ma Mrrush era diverso. Era qualcosa, era più intelligente.
“Ci vogliono almeno quattro cicli per attraversare il deserto di fuoco” obiettò Lanoso, il loro anziano sciamano.
A differenza di tutti gli altri kittenfolk, Vento non aveva nessun rispetto per Lanoso. Era convinto che abusasse della sua posizione venerabile per tenere i kittenfolk ancorati a vecchie tradizioni e vecchi modi di vivere, limitati e insensati. Il vecchio gattone faceva parte della colonia da quando essa era composta per la maggior parte dai suoi dodici fratelli, ma ora le cose erano cambiate. Ormai di quell’epoca restavano solo lui e Mannara, la sua sorella più grossa e aggressiva. Avevano dieci anni ciascuno, ma erano ancora combattivi e prepotenti.
“La colonia ha scelto me per guidarla, Lanoso” rispose con coraggio il gattino rosso. “Io dico che due lune e mezza sono abbastanza per arrivare all’oasi dei giganti della terra.”
Un altro silenzio sbalordito accolse questa decisione.
“Ma i giganti della terra non ammettono stranieri nelle loro città” protestò Ombra, storcendo il nasino nero.
“I giganti della terra sono enormi, se siamo furbi non si accorgeranno nemmeno che siamo lì.” Obiettò Vento. “Basterà stare ben nascosti e rubare cibo solo quando saremo certi di non essere visti. E poi, potete restare qui e morire, o andare verso la foresta e morire, oppure ehi, potete andare verso le montagne, e indovinate un po’? Morire. Oppure potete venire con me, e sperare che le vostre sette vite siano sufficienti a farvi arrivare dall’altra parte.” Saltò su un sasso, per farsi vedere mentre tentava quel discorso d’intimidaz… incoraggiamento. “Sverneremo lì, e con le piogge dell’alba continueremo nella stessa direzione, arrivando dall’altra parte del deserto di fuoco.”
I gattini si guardarono l’un l’altro. Scegliere dove svernare non era uno scherzo a Wrych, un mondo in cui il giorno durava tutta l’estate e la notte durava tutto l’inverno. Significava passare tre, quattro mesi nello stesso luogo. Se fossero arrivati all’oasi, avrebbero trascorso l’inverno nascosti, vivendo gomito a gomito con un popolo che non li voleva lì. Un popolo di giganti.
Avrebbero rischiato la vita ogni giorno finché non fossero tornate le piogge dell'alba, cioè la primavera.
D’altra parte, ormai non avevano scelta.

Rimasero accampati al limitare del deserto per il tempo di quattro pisolini, abbastanza lontani da non soffrire per il caldo eccessivo ma abbastanza vicini per riuscire a vedere le rocce del deserto che apparivano tremolanti e sfocate a causa del calore che faceva vibrare l'aria.
Era uno spettacolo che tendeva a mandarli in botta, a volte passavano ore seduti a guardare in direzione del deserto con le pupille dilatate.
Alla fine, nella luce rossa del tramonto, grosse nuvole cominciarono ad ammassarsi sopra le loro teste.
I kittenfolk avevano il pelo sollevato per la tensione, i musetti puntati verso il cielo, mentre ogni loro istinto gli gridava di correre a cercare riparo. Rimanere volontariamente sotto la pioggia non era una cosa naturale per loro.
Quando l'acqua cominciò a cadere, non era come se l'aspettavano. Era leggera, sottile. Di solito in autunno grossi temporali spazzavano la terra, anzi è più corretto dire che si trattava di un infinito temporale che andava avanti da innumerevoli secoli senza interrompersi mai.
Man mano che l'autunno si muoveva facendo il giro del mondo, portava con sé un cambio di temperatura e di pressione che raccoglieva l'umidità dall'aria e la condensava in nubi cariche di particelle di ghiaccio. E poi naturalmente le fate della pioggia vivevano in quei nuvoloni, insieme ai draghi della tempesta, e le fate della Corte d'Autunno danzavano sul terreno butterato dai monsoni muovendosi a velocità impossibile. La loro magia aiutava a fare in modo che il temporale non si interrompesse.

La pioggia leggera volò su quella pianura di sassi incandescenti, dando vita a un grandioso spettacolo della Natura: l'acqua evaporava molto prima di toccare il suolo, generando nuvole di vapore caldo a mezz'aria.
I kittenfolk si lasciarono andare a un coro di miagolii simili al pianto, ma che esprimevano solo grande curiosità e stupore. Poche creature mortali avevano mai visto un simile fenomeno.
Mrrush, più pragmatico, gonfiò coda e buttò le orecchie indietro, tanto indietro che praticamente si avvolsero intorno alla sua testa come una cuffietta. Era preoccupato di aver fatto un madornale errore di calcolo. Forse il deserto di fuoco era troppo caldo per essere raffreddato dalla pioggia?
Per fortuna, dopo un po' si accorse che il livello del vapore stava iniziando a scendere lentamente. La pioggia si intensificó, le gocce si fecero più pesanti e cattive, inzuppando i gattini che adesso miagolavano per il disagio e non più per la meraviglia. Però, allo stesso tempo, quella pioggia aggressiva riuscì a far calare la temperatura; dopo diverse ore dall'inizio del temporale, finalmente l'acqua toccò il suolo del deserto di fuoco.
Per un po' di tempo, il deserto oppose una fiera resistenza; i sassi si bagnavano e tornavano asciutti con tanta velocità da sembrare un'illusione ottica. Poi, dopo almeno un'altra ora, la temperatura cominciò a calare sensibilmente anche a livello del terreno.
"Adesso!" Li spronò Vento. "Non c'è un istante da perdere! L'autunno si muove più veloce di noi!"
La colonia reagì con prontezza di spirito; avevano passato le ultime ore a prepararsi a quel momento.
I kittenfolk sono ottimi scattisti, ma se ce n'è bisogno sanno anche conservare le forze per correre una lunga distanza. Tutti sapevano che avrebbero avuto bisogno di mantenere la concentrazione per mesi, e possibilmente anche la velocità.

Corsero e corsero, e corsero ancora, sempre verso la luce del giorno che ogni momento si faceva più lontana. La pioggia torrenziale non aiutava ad orientarsi, e cinque kittenfolk si davano il cambio ogni qualche ora per disporsi ai bordi della colonia in fuga, lanciando continuamente richiami vocali per dare dei riferimenti al gruppo.
In certi momenti la parete d'acqua verticale era talmente fitta che i gattini non si vedevano fra loro, e strane ombre si muovevano in quella pioggia. Alcune figure avevano una forma umanoide. Tutti sapevano che le fate della Corte d'Autunno erano in mezzo a loro, correvano e danzavano e talvolta cacciavano.
Mrrush aveva capito da tempo che non tutta la colonia ce l'avrebbe fatta. Ma con un po' di fortuna, la maggior parte di loro sarebbe sopravvissuta.
Le soste dovevano essere poche e brevi, un'altra cosa molto innaturale per la loro razza che avrebbe volentieri dormito molte ore consecutive. Con il freddo gli veniva spontaneo appallottolarsi e scivolare nel sonno, ma farlo sarebbe stato letale.
Quel viaggio sembrava davvero infinito. Dopo moltissimo tempo che correvano in quella vastità da incubo fatta solo di sassi e pioggia, senza niente da mangiare se non le razioni di cibo che avevano accumulato, perfino i più accorati sostenitori di Vento cominciavano a pensare che tutta questa idea fosse stata una gigantesca pazzia.
Qualcuno cominciò a scoraggiarsi, ma nel momento più buio, le parole di incoraggiamento arrivarono dai gatti più insospettabili: Lanoso, lo sciamano, e la piccola Ombra.
"Se ci fermiamo adesso siamo sicuramente morti" gridò la gattina nera, miagolando quelle parole quasi senza prendere fiato. "Anche se siamo stanchi dobbiamo continuare!"
"Vento ha scelto una strada pericolosa e coraggiosa" rincarò Lanoso, "ma ha avuto ragione sulle piogge. Ci permettono di camminare sulla terra infuocata! Questo è un miracolo e nessuno l'aveva previsto, ma lui sì perché il Vento arriva dappertutto. Dobbiamo fidarci di lui. Siamo arrivati qui, arriviamo anche un po' più in là!"
"Al lardo!" Gridò Tozzo, saltellando in avanti con il suo ottimismo duro a morire. Era una frase di incoraggiamento che per i kittenfolk significava più o meno "Sempre avanti! Qualcosa di meglio ci attende!"
"Al lardo!" Fecero eco gli altri gattini, in coro.
"Al lardo! Al lardo!" Si gridarono a vicenda, per farsi forza.
Poi, proprio mentre Tozzo stava per miagolare di nuovo qualche incoraggiamento stupido, andò a sbattere con il muso contro una parete.

Mrrush ci arrivò un istante dopo di lui, ma i suoi riflessi erano abbastanza buoni da permettergli di saltare e atterrare contro il muro con le zampe, fare una capriola indietro e toccare terra con eleganza.
Gli altri kittenfolk furono attorno a loro in un momento, e tutti si trovarono la strada sbarrata da quella strana parete liscia e dura come la roccia.
Provarono ad aggirare l'ostacolo, ma si estendeva all'infinito alla loro destra e alla loro sinistra.
I gattini impazzirono. Settimane e settimane a correre nel deserto, con la continua paura di essere braccati dalle fate, zuppi di pioggia, infreddoliti, malati, stanchi, terrorizzati… e ora erano condannati ad aspettare il terribile inverno, le fate della Corte Unseelie, i serpenti del ghiaccio e tutti gli altri orrori che giungevano con la notte. E se qualcuno di loro per miracolo fosse sopravvissuto, con il ritorno dell'estate sarebbe bruciato in quel deserto maledetto.
Disperati, sconvolti, sentendosi in un vicolo cieco, i kittenfolk fecero quello che qualunque membro della loro razza avrebbe fatto: iniziarono a grattare con le zampette conto la parete, miagolando a squarciagola.

Pochi minuti dopo, una testa mastodontica fece capolino da sopra il muro. "Ho! En onos itavirra irtla!" Gridò, parole che per i piccoli erano incomprensibili.
Vento rizzò il pelo: un gigante? Un gigante! Quindi erano arrivati all'oasi, alla fine! Ma il loro bel piano di non farsi scoprire dai coinquilini era già andato a farsi benedire.
Richiamata dalle parole del gigante, una splendida fata comparve da dietro il muro e si sedette sul bordo, lasciando penzolare le belle gambe. Non si vedeva molto nella pioggia ma il gigante e la fata erano piuttosto simili, entrambi avevano un muso senza peli che non assomigliava affatto al muso di un gatto. In realtà la loro somiglianza terminava lì ma per i kittenfolk avrebbero potuto essere parenti.
La fata guardò il gigante con complicità e quello annuì in segno di accettazione. Bastò un gesto della creatura magica, e i gattini si sentirono sollevare in aria come se fossero stati raccolti da mani invisibili.
Vedendo la scena da un altro punto di vista quei piccoli esploratori si resero conto che il muro non era affatto un muro: era un'enorme piattaforma di pietra. Sopra quella piattaforma c'era una città, o quello che immaginarono fosse una città. Gli edifici erano cilindrici e tutti costruiti in pietra. Le case avevano delle porte e delle finestre, ma soltanto ai piani inferiori. Soprattutto, cosa interessante, le case sembravano troppo piccole per poter contenere creature grandi quanto il gigante che li stava guardando.
L'enorme umanoide si sforzò di parlare in silvano, la lingua dei fatati che era anche la lingua comune nel mondo di Wrych. Quasi tutti i kittenfolk erano in grado di parlare il silvano, anche se in modo strascicato perché le loro voci erano più abituate a produrre miagolii.
"È stato deciso che potete restare" annuncio Il gigante, in tono solenne. "La regina Ylaria ci ha promesso buoni commerci se vi diamo riparo per l'inverno."
I gattini rimasero in silenzio, senza sapere cosa dire. Non sapevano chi fosse questa Ylaria, qualcuno pensò che fosse la regina dei giganti, ma Vento era abbastanza sveglio per capire che se la sovrana aveva proposto degli scambi commerciali ai giganti allora non poteva essere una di loro.
Lanoso ci arrivò per primo, perché era uno sciamano e aveva studiato un po'.
"La Signora della Corte d'Autunno?" Miagolò, la sua voce roca ridotta a un sussurro.
La bella fata gli fece una riverenza.
"I miei folletti hanno preso quelli di voi che erano più deboli e lenti, e li hanno portati qui. I vostri vecchietti, i vostri cuccioli e quella trottolina cicciottella tutta bianca. È un piacere potervi aiutare."
Lanoso, Vento e Ombra la guardarono senza tradire alcuna espressione, chiedendosi come mai stesse parlando loro come se fossero dei cuccioli un po' stupidi. La regina aveva una vocetta sottile, come quella di una bimba.
Vento ci arrivò per primo.
"Ah. Perché noi siamo tanto carini, giusto?"
"Così carini!" Confermò la fata, andando in sollucchero.
Lanoso e Ombra ci passarono sopra con grazia, ma Vento se ne risentì un po'; aveva smosso mari e monti per portare alla salvezza la sua colonia, sempre in lotta, sempre in fuga, sempre partendo dal presupposto che tutti gli altri popoli fossero predatori. Non riusciva a credere che adesso avrebbero avuto un favore gratis solo per il fatto di essere carini. La cosa andava a loro vantaggio eppure riusciva a dargli fastidio. Aveva paura che la sua fama ne sarebbe stata compromessa. Gli altri due probabilmente ne sarebbero stati felici, non aspettavano altro che un'occasione per rubargli il metaforico topolino dalle zampe.
Nel frattempo i kittenfolk si erano ammucchiati ai piedi del gigante, che con la sua stazza li riparava un po' della pioggia.
"Voi andate nelle case, piccole palle di pelo" li invitò lui, facendo loro strada verso il più vicino edificio.

In quel giorno remoto, in cui per la prima volta i giganti della terra e i kittenfolk stabilirono un contatto pacifico, Lookian dell'Oasi di Pietra commise un errore di calcolo chiamandoli "piccole palle di pelo".
Avrebbe avuto tutto l'inverno per scoprire che cos'è davvero una palla di pelo.

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Capitolo 11
*** 10. Earrings ***


10. Earrings


Sotto-genere: avventura, comico, femslash
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: spin-off di Nemici molto singolari


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1320 DR, regione del Lago dei Vapori

Beith aveva una vera passione per i gioielli.
Come quasi tutte le creature fatate, era un’esteta e un’edonista. Amava le cose belle semplicemente perché erano belle.
Non era solo questo, però. La sua passione per i metalli preziosi, le gemme multicolori e i ninnoli più delicati andava oltre la normale vanità; la jaebrin era stata per millenni prigioniera in una perla magica, e prima di allora era stata schiava di un padrone crudele. Quando infine era stata liberata, il suo nuovo padrone aveva scelto di impiegarla come commessa in un negozio di gioielli semi-preziosi di cui era indirettamente proprietario. Era stato il primo lavoro in cui Beith si fosse sentita davvero valorizzata, e la sua sorvegliante, la signora Marian, l’aveva sempre trattata con gentilezza. Beith era tornata lentamente alla vita, a sentirsi una persona, grazie a quel lavoro e all’autostima che aveva ritrovato.
Era brava nel ruolo di commessa. Aveva occhio per la vera bellezza e sapeva guidare anche le sue clienti verso quel nobile obiettivo. Marian le aveva fatto i complimenti molte volte, e così ad un certo punto Beith aveva cominciato a pensare che forse si meritava di più. Di più che essere una schiava, anche se i suoi padroni erano buoni e gentili.
Beith credeva di meritarsi una vita libera, con tante cose belle.
Per questo un giorno aveva aspettato che Marian uscisse dalla bottega per una commissione, poi aveva svaligiato il posto con solerzia ed era fuggita via mare.
Non era stato difficile: ogni giorno nuovi mercantili facevano scalo a Derlusk, la città in cui si trovava all’epoca.

La sua via non l'aveva portata poi molto lontano: solo al di là del Mare dei Vapori, nella città portuale di Ankhapur. Era come se, nonostante la libertà, avesse paura a prendere completamente il volo per esplorare il mondo; all'inizio si era fermata in quella città perché era affascinata dalle sue popolose colonie di gatti alati, ma poi era rimasta semplicemente perché si era creata una routine.
Nonostante il suo aspetto esotico che ricordava quello di un’elfa dei boschi, era riuscita a trovare lavoro. Un vecchietto di buon cuore l’aveva assunta presso la sua piccola agenzia di cartografi. Era una professione originale, ma non unica nella regione; assoldavano gruppetti di avventurieri per mandarli ad esplorare regioni di confine, città straniere e dungeon, e uno dei cartografi della compagnia li accompagnava per prendere appunti e preparare bozzetti di mappe. Nel frattempo i cartografi amanuensi, meno abili nel lavoro sul campo, restavano in città e completavano le cartine con delicati e precisi disegni, o facevano copie dei documenti che avevano in archivio.
In tutto questo, Beith andava a comprare le focaccine dolci e il tè per gli amanuensi.
Avrebbe voluto diventare anche lei una cartografa, per andare all'avventura insieme a un gruppo di eccentrici mercenari che avevano visto il mondo. Però prima avrebbe dovuto imparare a disegnare mappe, e dopo qualche tentativo aveva capito che rispettare limiti e proporzioni non era cosa per lei.
Per il momento era rimasta in città, a comprare focaccine dolci, accarezzare gatti e sognare un futuro che non osava affrontare.

Ora, è molto importante ricordarlo, Beith aveva una vera passione per i gioielli. Più ancora che per i gatti alati e per i sogni di avventure.
La città esportava perle, ma lei non considerava le perle come vere pietre preziose, erano comuni come il pane (in certe zone della città erano usate come moneta) e poi aveva una particolare antipatia per quegli oggetti, essendo stata per millenni intrappolata in una perla.
Quando però la figlia del re della città si presentò al popolo per il suo discorso di compleanno, Beith la vide pavoneggiarsi addobbata di gioielli veri, e i suoi occhi fatati cominciarono a brillare di cupidigia.
La principessa di per sé era graziosa ma insignificante. Secondo la jaebrin erano proprio sprecati, su di lei, il collier di topazi blu e zaffiri, i bracciali d'argento lavorati ad intreccio, e soprattutto gli orecchini di diamanti blu e bianchi. Quegli orecchini, anche a venti passi di distanza, catturarono il suo cuore al primo sguardo. Erano i gioielli più eleganti che avesse mai visto, delicati eppure magnifici, dal valore di un piccolo palazzo. Il metallo stesso di cui erano fatti sembrava risplendere di riflessi azzurrognoli.

Beith decise che doveva averli.
Fu una decisione istintiva, come spesso accade alla gente del suo popolo.
Purtroppo, quando la notte dopo si introdusse nel palazzo reale, si rese conto di essersi mossa in modo troppo ingenuo e senza fare le dovute ricerche prima.
Cercò di intrufolarsi nella stanza della principessa, senza sapere che quegli orecchini facevano parte del tesoro ufficiale della Corona e che quindi non erano di proprietà della ragazza, ma venivano conservati in una speciale cassaforte insieme ai gioielli e alle corone del re e della regina.
Quindi dopo ore di appostamenti furtivi e acrobazie per evitare le guardie, riuscì ad introdursi nella stanza sbagliata, e a quel punto ormai era quasi mattina. Si mise a cercare i famigerati gioielli, ma nonostante la principessa avesse molti splendidi oggetti nella sua stanza da letto, i sontuosi orecchini non erano fra quelli.
Beith sapeva che c'erano punti della stanza che non avrebbe facilmente raggiunto senza fare rumore e svegliare la fanciulla. Sapeva anche che se qualche guardia l'avesse sorpresa nella stanza della principessa, non l'avrebbe trattata come una ladra, perché in quella città vigeva la regola della presunzione di colpevolezza per il crimine peggiore sospettabile: sarebbe stata accusata di tentato assassinio. Una faccenda tremendamente seria quando era coinvolto un membro della famiglia reale.

A complicare le cose, proprio in quel momento la principessa cominciò muoversi nel sonno, lasciando intendere che presto si sarebbe svegliata.
Non era ancora l'alba e Beith non pensava che un'aristocratica, di regola, si degnasse di aprire gli occhi prima di metà mattina. Quello che non sapeva era che la principessa aveva sempre avuto problemi di insonnia. Specialmente nell'ultimo periodo in cui stava accumulando sempre più stress e preoccupazioni.
La giovane figlia del re mugugnò qualcosa e prese un lungo respiro, poi aprì gli occhi.
Per un momento le sembrò di scorgere come una sagoma umana nella penombra. Prima che avesse il tempo di realizzare che c’era un intruso nella sua stanza, quella persona si chinò su di lei e le chiuse la bocca con un bacio.

Beith venne spinta indietro con forza, ma se lo aspettava. Un bacio a sorpresa non è una cosa molto corretta, praticamente è una molestia, ma lei preferiva passare per una ammiratrice inopportuna piuttosto che per una ladra o un’assassina. La pena il tentato omicidio era l’impiccagione, mentre per il furto andava dal taglio della mano alla schiavitù.
Baciare una principessa nel sonno, al massimo, era lesa maestà. Qualche giorno alla gogna.

Lady Lurene, principessa adolescente di Ankhapur, non si era mai considerata propriamente bella. Sapeva di essere graziosa, aveva affinato le sue maniere fino a raggiungere la perfezione dell’eleganza, ma non era una bellezza folgorante. Tantomeno la mattina, appena sveglia.
L’elfa che si era infiltrata nella sua stanza invece era davvero splendida. Lurene non aveva mai visto un elfo dal vivo, aveva solo sentito parlare del loro aspetto esotico, ma non sapeva nulla sulla loro cultura. Non credeva che nella sua città vivessero degli elfi, o che potessero essere interessati agli umani. O agli individui dello stesso sesso, per dirla tutta.
Quando la leggiadra creatura cominciò a declamare i suoi sentimenti, Lurene arrossì furiosamente.
“Ma io sto per sposarmi” pigolò, interrompendo il monologo dell’elfa. “La vostra presenza nella mia stanza è alquanto irregolare.”

Beith si esibì nella sua migliore smorfia desolata. Le riusciva facile; con i suoi occhi azzurri luminosi e la sua piccola bocca a cuore, aveva un volto molto espressivo. Negli ultimi mesi si era esercitata a mostrare esattamente le emozioni che voleva.
“Siete sprecata, in un matrimonio combinato” la fata scosse la testa, e in parte lo pensava davvero. Non le importava dell’umana, ma non le piaceva vedere una donna venduta ad uno sposo contro la sua volontà. “Se le mie attenzioni non sono gradite vi lascerò stare. Ma vi prego, non fatemi arrestare. Non punitemi per avervi voluta vedere.”
Lurene si passò una mano fra i lunghi capelli corvini, scompigliati dal sonno.
“Andate via prima che le guardie vi vedano” borbottò, in tono di rimprovero.
Beith capì di averla scampata.
Rivolgendo un ultimo sorriso malinconico alla fanciulla, si allontanò dal suo letto e camminò in punta di piedi verso la porta.
La principessa la guardò uscire, senza sapere cosa pensare. Mentre l’elfa si allontanava (non le aveva nemmeno chiesto il nome!), Lurene rimase affascinata dalle sue movenze furtive e aggraziate. Gli elfi erano davvero leggiadri come dicevano le leggende.
Sospirò, lasciandosi ricadere sui cuscini. Quanto le sarebbe piaciuto essere fuggevole come un’elfa, e potersene andare libera, passando sotto il naso delle guardie. Avrebbe voluto avere la stessa indole ribelle. Perché dopotutto la sua ammiratrice non aveva tutti i torti, e in fondo al cuore lei lo sapeva.

Quella notte Beith non aveva trovato gli orecchini, e fu solo grazie alla fortuna se riuscì almeno a scappare non vista fuori dal palazzo.
Non aveva idea che, grazie al suo piano improvvisato, il seme del dubbio stesse germogliando nella mente obbediente di una ragazza aristocratica. Se l’avesse saputo ne sarebbe stata contenta. Odiava ogni forma di schiavitù, anche quella mentale, che gli umani chiamavano dovere e responsabilità.

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Capitolo 12
*** 11. Crown ***


11. Crown


Sotto-genere: lore
Ambientazione: Forgotten Realms


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Da qualche parte, una ridicola tribù di umani aveva inventato il concetto di vizio.
Era di per sé un’idea poco divertente, e allo stesso tempo molto divertente, perché gli umani condannavano certi comportamenti ma poi non potevano fare a meno di metterli in atto.
Tutto questo era estremamente spassoso, per uno come Boklop. Amava gli ossimori e i paradossi, solleticavano la sua mente da ingannatore.
Boklop era un Arcifey, un nobile del regno delle fate. A differenza di molti altri, non amava passare il tempo gironzolando intorno alla Corte Seelie o alla Corte Unseelie, perché certi giochi di potere lo annoiavano a morte.
Trovava spassosissimi i mortali, invece. Come gli umani, che stavano iniziando a sviluppare una coscienza sociale, accompagnata da ridicole regole morali. I vizi. Nessuno sapeva con esattezza quanti fossero, perché ogni filosofo o sacerdote diceva la sua. Non erano nemmeno d’accordo su quale fosse il più grave.
Boklop si divertiva a collezionare brandelli di informazioni, saltellando da una regione all’altra, ammantato della sua magia che lo faceva assomigliare a un umano.
Qualcuno diceva che il vizio peggiore fosse la lussuria. Altri, la superbia. Qualcun altro ancora obiettava che fosse la pigrizia, perché dove la mente resta in ozio c’è terreno fertile per lo svilupparsi di tutti gli altri vizi.
Il grosso folletto si divertiva immensamente ad ascoltare quelle congetture, perché lui era colpevole di cedere a quasi tutti quegli impulsi. Ma era anche abbastanza normale, per un individuo del popolo fatato.

A dire il vero, l’unico vizio che un po’ gli mancava era proprio la lussuria. Bisogna dire a sua discolpa che Boklop non aveva mai avuto molte occasioni di peccare, visto che il suo vero aspetto sarebbe stato considerato ributtante da quasi tutte le fanciulle del mondo e anche del reame fatato: alto quando un uomo ma largo almeno il doppio, la parte superiore del corpo era quella di un umanoide obeso, pallido, quasi verdastro, con una pancia prominente, il naso largo e orecchie minuscole. Al posto delle gambe però aveva delle zampe da rana, e tutto il suo corpo era completamente glabro. Non un bel vedere.
Da parte sua, Boklop non avrebbe saputo che farsene di una femmina, a meno che non fosse saltata fuori un’altra fata della sua specie… ma dubitava che ne esistessero. Non sapeva da chi era nato e perché, ma era abbastanza convinto di essere l’unico folletto-rana esistente.
Come se la sua esistenza non fosse stata già così uno scherzo della natura, Boklop era anche praticamente invulnerabile. Sembrava che la magia scivolasse come acqua sulla sua pelle viscida, la sua natura fatata gli permetteva di guarire quasi subito dalle ferite, e per di più era dotato di grande forza, agilità e intelligenza.
L’intelligenza era senza dubbio il suo maggiore pregio, o almeno così credeva lui. Forse, il suo maggior difetto era la superbia.

Per molti decenni, Boklop si accontentò di gozzovigliare fra il reame fatato e il mondo dei mortali, senza una preoccupazione al mondo. Era un Arcifey, ma non era ambizioso. La sua acuta intelligenza era temperata dal carattere giocoso e, in definitiva, molto pigro.
Ad un certo punto scoprì una regione, nel mondo dei mortali, che aveva il clima perfetto e offriva la giusta quantità di svago: una giungla tropicale ricca di insetti da divorare, fango fresco in cui rotolarsi, e simpatici uomini-serpente a cui giocare brutti scherzi.
Boklop l’Antico rimase tranquillamente a trastullarsi nel suo giardino verde, mentre intorno a lui il mondo progrediva, i millenni si fagocitavano gli uni con gli altri, nuovi popoli sorgevano e antichi popoli si facevano la guerra.
Poi gli umani arrivarono anche in quella terra sperduta.

Boklop aveva un debole per gli umani. Con quelle loro vite brevi e fameliche, erano divertenti. Ad esempio, non riusciva a capire perché avessero voluto colonizzare anche un luogo così selvaggio e pericoloso come quella giungla, facendosi strada a colpi di machete di ossidiana fra dinosauri, insetti, piante assassine e nuove razze di uomini-serpente sempre più subdoli.
Decise che li avrebbe aiutati. Gli avrebbe insegnato a sviluppare la furbizia, l’inganno e il pensiero tattico. Gli avrebbe mostrato come sopravvivere anche se erano così fragili.

Quando si mostrò a loro, divenne subito chiaro che quella popolazione primitiva aveva poca familiarità con la magia. Il solo fatto che Boklop sapesse cambiare forma colpì profondamente la fantasia di quegli uomini e di quelle donne.
A modo loro erano quasi teneri. L’Arcifey rimase accanto a loro per decenni, e i decenni divennero secoli. Gli umani, nella regione che in seguito venne chiamata Chult, non avevano vita facile; finivano sempre per diventare preda di qualcosa. Eppure gli sforzi di Boklop non furono vani, perché nel corso del tempo quella gente cominciò davvero ad affinare le proprie tecniche.
Man mano che diventavano indipendenti, il folletto si fece vedere sempre meno. Non gli piaceva molto interagire con la gente, preferiva un ruolo da osservatore. Non c’era divertimento a guardare gli umani cavarsela da soli, se poi lui truccava il gioco aiutandoli…
Gli umani, da parte loro, cominciarono a considerarlo una figura leggendaria. La lontananza fa questo effetto, alle creature dalla memoria corta.
Boklop lentamente smise di essere una figura storica, un antico maestro, e divenne un mito. Per quella popolazione umana scarna e frammentata, divenne un dio. Cominciarono a riverirlo come divinità dell’inganno, della magia e dell’abbondanza (forse a causa delle sue forme generose, forse perché gli aveva insegnato come ottimizzare le risorse di cibo).
Questa era una cosa inusuale, associare l’inganno all’abbondanza. Nessun altro dio aveva entrambe le sfere di influenza, una solitamente associata a divinità infide e maligne, l’altra a divinità bonarie e generose.
Boklop, che era un folletto, davvero non capiva perché non si potesse essere entrambe le cose.
Non gli importava di essere un dio, e non credeva di esserlo. Era una corona che non aveva mai voluto. Anzi, non aveva mai voluto nessuna corona. Era superbo, vanaglorioso, ma non avido di potere; non lo era mai stato.
Eppure, un giorno, si accorse che i suoi poteri magici stavano crescendo. Che lui stesso, in qualche modo, era cambiato. Poteva sentirlo nel suo animo: qualcuno, forse il famigerato signore degli dèi, aveva deciso che le preghiere del suo popolo meritavano ascolto. Aveva deciso che Boklop, dopotutto, aveva le qualifiche per essere un buon dio.
L’uomo-rana alzò lo sguardo al cielo terso, che si intravedeva fra le cime delle palme.
C’era davvero un dio superiore agli altri, che aveva deciso di concedergli quei poteri? Oppure erano solo leggende, ed era stata la forza delle fede degli umani a trasformarlo?
Per un momento si perse in quei pensieri filosofici.
Poi decise che non importava. Aveva una metaforica corona, anche se non l’aveva chiesta, e ora gli toccava tenersela. Con un po’ di fortuna, gli altri dèi avrebbero ignorato il piccolo idolo insignificante di una popolazione dispersa nella giungla.
L’ultima cosa che voleva era entrare in contrasto con qualche divinità più potente di lui.

Il suo stomaco brontolò debolmente, e Boklop allontanò quei pensieri cupi con una scrollata di spalle. Era il momento di cercarsi qualche insetto gigante da mangiare.

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Capitolo 13
*** 12. Blind ***


12. Blind


Sotto-genere: angst
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: sequel del capitolo 5. Eyes


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1324 DR, città sotterranea di Eryndlyn

“Non abusare dei tuoi poteri, Tek’ryn, o potresti perdere la vista.”
Questo era un consiglio, o magari una minaccia, che il drow aveva dovuto ascoltare per tutta l’infanzia come un eco infinito nelle gallerie.
Non aveva mai capito se sua madre volesse avvertirlo, per fare in modo che il suo potere non andasse sprecato e lui non diventasse un peso per la Casata, oppure se avesse paura della vera portata del suo potere.
È vero che la Vista non è di per sé una dote minacciosa… insomma, che paura, un tizio ha il potere di guardarti... ma nella società degli elfi scuri c’erano misteri che erano riservati solo alle sacerdotesse, e se Tek’ryn avesse cercato di spiare le pratiche proibite di sicuro avrebbe fatto adirare la loro dea, la Regina Ragno, attirando il disastro su se stesso e sulla sua Casa.
Per contro, finché conservava quella dote e l’allenava nei limiti del ragionevole, sua madre l'avrebbe considerato utile e quindi lui si sarebbe garantito la sopravvivenza. Più o meno. Se non avesse commesso errori nel frattempo.

Era una consapevolezza dolorosa per un bambino, ma Tek’ryn aveva sempre saputo che c’era qualcosa di sbagliato nella sua famiglia. Fin da quando era piccolissimo vedeva delle cose. Intorno ai suoi famigliari, o perfino dentro di loro, c’erano delle auree nere, di un nero più scuro e intenso della loro stessa pelle, c’erano bubboni invisibili alla vista normale, catene strette intorno alle loro caviglie o ai loro polsi... il marito di sua madre aveva un cappio di corda che gli pendeva dal collo, addirittura; le sue sorelle si lasciavano dietro una scia di disgustoso icore ovunque camminassero, e alcuni suoi parenti avevano il volto deturpato come in una maschera grottesca. Sua madre però era quella che gli faceva più paura di tutti. I suoi occhi erano completamente neri, e ogni volta che apriva bocca Tek’ryn poteva vedere che all’interno della drow c’era la stessa oscurità vuota che aveva nelle cavità oculari. Era come un nulla che fagocitava tutto, che esigeva in sacrificio qualsiasi sprazzo di luce.
Tutto questo, Tek’ryn lo vedeva solo con la sua vista magica. Guardandoli con occhi normali, i suoi parenti erano elfi scuri senza difetti. Tek'ryn era convinto che loro non conoscessero il loro vero aspetto; si comportavano come se andasse tutto bene, come se fossero del tutto inconsapevoli di quell’incubo in cui camminavano quotidianamente. Ma era davvero il loro vero aspetto, oppure erano solo illusioni dovute a una forma di pazzia?
Anche il ragazzino avrebbe tanto voluto non vedere. Peccato che per anni non fosse stato capace di ignorare quelle visioni, di spegnere quel potere divinatorio.

All’inizio era convinto che sua madre e le sue sorelle, e anche gli altri in misura minore, fossero malati. Era un pensiero terribile, perché se fossero morti lui sarebbe rimasto solo. Chi avrebbe difeso una Casata i cui nobili si erano estinti? Cosa ne sarebbe stato di lui, se un’altra famiglia avesse pensato di attaccarli? Sua madre era sempre stata chiarissima con lui, fin da quando era diventato abbastanza grande da intendere la lingua parlata: nella società drow non c’era posto per la pietà.
Tek’ryn aveva accettato quella lezione così come accettava tutto: la paura che la sua Casa venisse distrutta era solo l’ennesimo aspetto di un incubo quotidiano.
Quella era la sua vita, e non si faceva domande. Era l’unica vita che conosceva.
Poi un giorno aveva avuto una sorta di premonizione, ed era la prima volta in cui i suoi occhi gli mostravano il futuro, anziché un diverso aspetto invisibile del presente. Aveva visto una banda di esperti assassini penetrare oltre le difese della magione mascherati da comuni soldati, ed era corso a dirlo alla sua sorella più giovane che era incaricata della sua educazione. Lei all’inizio non gli aveva creduto e l’aveva punito, ma lui aveva insistito così tanto, e con tanta convinzione, che alla fine la sacerdotessa si era lasciata convincere e ne aveva parlato con la Matrona.
Due giorni dopo fu sventato un attentato proprio grazie alla premonizione di Tek’ryn, e divenne chiaro a tutti che il ragazzo non era soltanto uno spreco di spazio.
Da allora era cominciata l’infinita manfrina: “Non abusare dei tuoi poteri, Tek’ryn, o potresti perdere la vista.”

Tek’ryn aveva otto anni quando cominciò a sognare qualcosa che non fossero incubi.
Stava imparando a fare la reverie, anziché cadere nel sonno come le razze inferiori. La reverie portò con sé una maggiore capacità controllo sulla sua mente, essendo una forma di meditazione rilassante, e portò anche delle visioni molto strane.
La prima volta vide il fuoco. Una grande pozza di fiamme e lava, sul fianco di un vulcano. E lui ci stava dentro, ma il calore non lo bruciava. Il fondo della pozza era fatto di magma, però era morbido e tiepido sotto i suoi piedi. Nemmeno la luce gli dava fastidio, e in condizioni normali avrebbe dovuto accecarlo. Quella pozza era così calda da essere di un colore giallo brillante, quasi bianco, ma era casa.
Gli piaceva moltissimo, quel fuoco, non aveva paura. Per la prima volta in vita sua non aveva paura. Percepiva delle presenze intorno a sé, elementali del fuoco che però non volevano ucciderlo. In qualche modo, capì che erano suoi amici.
Quando si risvegliò dalla reverie rimase intontito per mezza giornata, subendo anche le percosse di sua sorella per la sua goffaggine e distrazione. Era vero, la sua mente era altrove. Stava contemplando una possibilità inesplorata, folle anche solo a pensarci: che potesse esistere un diverso stile di vita.
Non vedeva l’ora che fosse di nuovo l’ora di riposare, perché voleva sognare di nuovo quel fuoco.

La visione non tornò più, ma gli capitò di vedere altre cose: una caverna sotterranea, abitata da elementali della terra; una pozza d’acqua nelle profondità di un lago, dove la luce della Superficie arrivava a stento. Per ultimo, un geyser di aria calda in una terra fredda, una sorta di pozza in cui i vapori fluttuavano pigramente per la differenza di calore; ogni tanto un getto d’aria più forte esplodeva verso il cielo, con grande divertimento degli elementali dell’aria che vivevano lì dentro.
Ogni volta che aveva una di queste visioni elementali, lui sapeva di essere il signore di quei luoghi, e che le altre creature della natura obbedivano a lui. Era una sensazione nuova e strana, assaporare un tipo di potere che non prevedesse di schiacciare e terrorizzare gli altri. In quelle visioni i suoi compagni lo amavano, anche se gli erano inferiori.

Tek'ryn non aveva alcuna conoscenza dei misteri arcani. Quel tipo di educazione non veniva elargita a tutti, anzi nella società di Eryndlyn lo studio della magia era una questione delicata. La città era divisa in tre piattaforme di pietra separate da corsi d’acqua, con un lago in centro. Con il tempo le tre fedi principali della città avevano conquistato quei piccoli altipiani come se la separazione geografica fosse la naturale conseguenza della separazione ideologica. La piattaforma a ovest, la più grande, era occupata dalle Casate che seguivano il culto della Regina Ragno, ed era lì che Tek’ryn viveva. I vhaerauniti avevano colonizzato la parte nordorientale della città, e l’angolo sudorientale era dimora dei seguaci di Ghaunadaur.
Nel contesto di una città che non era monopolizzata dal culto di Lolth, nella piattaforma occidentale era pericoloso dare troppo potere ai maschi, perché avrebbero potuto sviluppare ambizioni eccessive e unirsi ai traditori che seguivano falsi dèi come Vhaeraun e Ghaunadaur. Naturalmente non erano davvero falsi dèi, ma lo erano agli occhi delle sacerdotesse di Lolth.
Allo stesso tempo, era anche pericoloso non concedere ai maschi un po’ di potere, o avrebbero potuto ribellarsi e unirsi a una delle fazioni nemiche. Tutto doveva rispettare un particolare e delicato equilibrio. Solo i maschi drow più degni di fiducia potevano essere iniziati alle arti arcane.
Negli altri due quartieri questo problema non esisteva, ognuno aveva la sua piccola scuola di magia, ciascuna gelosa dei propri segreti. Le divisioni e le guerre interne fra le tre piattaforme rendevano Eryndlyn quasi tre città diverse. Il fatto che le fedi di Vhaeraun e Ghaunadaur fossero aperte al sacerdozio sia maschile che femminile faceva in modo che tutti i drow fossero molto coinvolti nella lotta religiosa, e questo impediva il crearsi di una fazione super-partes di maghi che potessero stringere alleanze per prendere il controllo della città, come accadeva invece nelle roccaforti matriarcali di Lolth.
Almeno, in teoria. Ma questa è una faccenda di cui molti erano all’oscuro, fra cui Tek’ryn, che era solo un bambino e l’unica cosa che sapeva per certo era che non avrebbe mai potuto studiare la magia. Era consentito a pochissimi maschi, scelti con cura, di comprovata lealtà. Non tutte le Casate avevano un proprio mago, e chi non l’aveva finiva per assumere un mago mercenario a tempo indeterminato, oppure un mago di un’altra città veniva adottato in una Casata o preso come marito da una Matrona. Ogni tanto qualche incantatore rinnegato arrivava a Eryndlyn da Ched Nasad o da Menzoberranzan, perché era risaputo che se avevi fatto arrabbiare la tua Matrona o il tuo Maestro in modo irrimediabile, a Eryndlyn potevi costruirti una nuova vita.

Avere un proprio mago, un nobile nato all’interno della Casata, era comunque un motivo di grande vanto nella zona occidentale della città. Significava avere potere, e la devozione di un maschio potente che era anche abbastanza saggio da anteporre il volere di Lolth al proprio ego.
Matrona Mayquarra Daevossz, la madre di Tek’ryn, aveva già dei progetti. All’insaputa del suo figliolo, che non osava neanche sperare un simile destino, si era fatta l’idea che Tek’ryn fosse dotato per le arti arcane. I suoi poteri di divinazione dovevano pur voler dire qualcosa, un ragazzino così speciale era sicuramente un dono di Lolth per premiare la sua fedeltà.
Se fosse stato una femmina, in teoria, sarebbe stato ancora meglio… ma all’atto pratico una futura sacerdotessa con simili poteri avrebbe rappresentato una minaccia per Mayquarra e per le sue figlie maggiori, mentre un maschio avrebbe portato prestigio a Casa Daevossz, diventando uno dei rari incantatori della cittadella di Lolth, senza mettere in pericolo la posizione delle sacerdotesse della Casata.
Sì, era certamente per il meglio. Il suo figlio primogenito non avrebbe dovuto preoccuparsi per la sua posizione di Maestro d’armi, e le sue quattro figlie avrebbero potuto continuare la loro lotta intestina per il potere senza tener conto dell’ultimo virgulto della famiglia.
Diversificare per massimizzare.
Matrona Daevossz si sentiva davvero astuta nel cullare questi pensieri. Era il momento di spingere l’educazione di Tek’ryn verso nuove vette di indottrinamento, perché solo un vero fanatico di Lolth poteva studiare la magia senza farsi venire in mente strane idee di indipendenza. Fin’ora aveva affidato il piccolo alle cure di Xusyne, la sua quarta figlia, ma la ragazza era invidiosa e poco lungimirante e poteva andare bene per un compito di scarsa importanza, non per una delicata e ossessiva opera di persuasione.
Avrebbe potuto affidare quella responsabilità a Ghiya, la secondogenita. Era devota anima e corpo a Lolth, sarebbe stata un buon esempio per il fratellino. Oppure alla terzogenita, Elerra. Avrebbe rallentato il ritmo dei suoi studi all’Accademia, ma non era un male; Elerra era troppo dotata e ambiziosa per il suo stesso bene, e per niente rispettosa della famiglia e del ruolo della Matrona. Si sarebbe fatta ammazzare se non si fosse mossa con più cautela.
Ma alla fine Mayquarra Daevossz decise di prendere la faccenda direttamente nelle proprie mani. Sapeva che i bambini dell’età di suo figlio avevano una mente elastica e plasmabile, ed erano ancora capaci di sviluppare fedeltà verso qualcun altro; lei voleva che la fedeltà di Tek’ryn fosse solo per la sua Matrona Madre, non per una delle sorelle. Non poteva mettere quell’arma in mano alle sue figlie, nemmeno a quelle di cui si fidava.

Pochi giorno dopo, Tek’ryn stava pregando davanti alla statua di una grossa femmina di ragno dopo averla lucidata per bene. Non conosceva il vero significato della preghiera, ma erano parole che Xusyne gli aveva insegnato, e quando riusciva a ripeterle nell’ordine corretto sua sorella si mostrava soddisfatta e diventava meno velenosa. In caso contrario, di solito lo puniva in modi fantasiosi a seconda della gravità dei suoi errori. Di solito era solo qualche schiaffo o qualche forma di umiliazione, ma una volta era arrivata a prendergli la testa e sbatterla contro il basamento della statua. Tek’ryn era svenuto, Xusyne si era spaventata a morte e non l’aveva fatto mai più. La loro madre aveva proibito le punizioni troppo severe, come le frustate o le menomazioni permanenti. Se Tek’ryn fosse diventato stupido o pazzo a causa di un colpo alla testa, Xusyne avrebbe subito le peggiori ire della Matrona.
Tek’ryn sapeva che sua sorella lo detestava dal profondo del cuore. Era palese se la osservava con la sua seconda vista. Quando la femmina lo guardava, i suoi occhi bruciavano di odio e di desideri assassini, il suo volto si deformava, i denti diventavano enormi e appuntiti come quelli di un mastino ombra (la loro madre ne aveva uno ed era terrificante quasi quanto lei). Tek’ryn non capiva il motivo di tanto odio, perché nessuno gli aveva spiegato che in quanto maschio non avrebbe avuto diritto a tutti quei riguardi. Si rendeva conto, però, che da quando sua madre sapeva della sua seconda vista il suo tenore di vita era migliorato parecchio.
Quei pensieri strani lo stavano distraendo dalla preghiera, e per poco non sbagliò l’ordine delle parole. Si riprese in tempo, guadagnandosi solo un’occhiataccia da Xusyne. Pochi minuti dopo, un’altra fonte di distrazione spalancò la porta della cappella di famiglia. Era Ahlysaaria, la sua sorella più anziana. La giovane drow si profuse subito in una riverenza, perché la sorella aveva quasi due secoli più di lei ed era già una Somma Sacerdotessa, mentre Xusyne non aveva ancora iniziato a frequentare l’Accademia.
“La Matrona mi ha chiesto di prelevare il piccolo” spiegò, dando l’idea di non essersi neanche disturbata a imparare il nome di Tek’ryn. Ahlysaaria era estremamente snob con chi le era inferiore, ma molto cauta con chi le era superiore. “E sarai lieta di sapere che da oggi sei dispensata da questo dovere, giovane sorella.” Probabilmente non aveva mai memorizzato nemmeno il nome di Xusyne.

Tek’ryn venne portato davanti a sua madre, e per una volta fu lieto di dover tenere gli occhi sul pavimento in segno di sottomissione. La Matrona era sempre uno spettacolo rivoltante e spaventoso.
Il discorso che aveva da fargli non era meno orribile.
Di primo acchito l’idea di poter diventare un mago non gli dispiaceva, perché avrebbe potuto fare ricerche sui suoi strani sogni sugli elementali… ma anche se il piccolo drow non aveva i mezzi per capire le implicazioni del diventare un mago consacrato a Lolth, le parole di sua madre innescarono una visione angosciosa e indipendente dalla sua volontà.

Vide se stesso sdraiato su un altare di pietra nera, mentre sua madre preparava un pigmento bianco latteo con polvere di diamanti e di perle e altre sostanze oleose, e poi recuperava un grosso spillone d’argento. Nella visione aveva paura, ma non del dolore o della morte. Aveva paura perché stare su un altare era qualcosa che gli innescava un terrore viscerale, innato, come se gli fosse già successo in passato e fosse stato traumatico, ma in realtà non gli era mai successo. Il panico gli annebbiava la mente, impedendogli di capire cosa stesse per accadere. Poi sua madre tornava di nuovo nel suo campo visivo, con l’ago e il pigmento, e cominciava a lavorare sul suo smilzo torace nudo. Tek’ryn era immobilizzato, non legato ma proprio bloccato con un incantesimo, non gli era permesso nemmeno il minimo movimento per non rovinare il lavoro della Matrona… un tatuaggio.
Gli stava tatuando un grosso ragno bianco, proprio sul cuore. Sembrava un ragno fantasma, stilizzato; emergevano solo i contorni e qualche dettaglio interno, come se fosse trasparente.
Matrona Mayquarra terminò la sua opera senza mai smettere di cantilenare sottovoce, poi pulì lo spillo con un panno di seta e lo ripose con cura in uno scrigno.
Tornò accanto al figlio che avrebbe voluto urlare, piangere, per il dolore e per la paura, e lei sicuramente lo sapeva. Sorrise come se fosse molto fiera di lui, ma era solo orgogliosa della sua arte. L’assenza delle sue figlie suggeriva che quel rituale dovesse essere segreto, uno dei Misteri rivelati solo alle Matrone Madri di Eryndlyn, o addirittura solo a quelle di Casa Daevossz.
La Somma Sacerdotessa ricominciò a pregare, spinse la voce verso nuovi acuti innalzando il suo canto quasi in un grido, che riverberò nella cupola a base ottagonale creando strati di echi sempre più stranianti e caotici.
Il ragno tatuato cominciò a muoversi, tirando la sua pelle a cui era ancora ancorato. Poi Tek’ryn avvertì come uno strappo e il ragno affondò dentro il suo corpo, lasciando sul suo torace solo una vaga ombra del disegno, come una cicatrice.
Solo allora capì che quell’ospite a malapena tangibile nel suo corpo era l’assicurazione di sua madre per accertarsi che restasse sempre fedele.

Tek’ryn tornò al presente e sussultò nell’accorgersi che sua madre si era avvicinata e si era chinata su di lui.
“I tuoi occhi avevano assunto un colore… fra il marrone e l’ocra” considerò lei, guardandolo con sospetto. “Che cosa stavi vedendo?”
Lui si trovò a pochi pollici dagli occhi della Matrona che gli apparivano come buchi neri, e per poco non svenne dalla paura. Lei era sospettosa. Non poteva permettersi di andare nel panico, doveva risponderle qualcosa.
Come prima mossa, abbassò di nuovo lo sguardo a terra, da bravo bambino ubbidiente.
“Non… non lo so” mormorò lui. “Io non capisco sempre quello che vedo. Vedere le cose non basta, se non so cosa vogliono dire, e…”
“Ed è proprio per questo che voglio che diventi un mago” sua madre gli sorrise, una smorfia dolce e velenosa. “Mio caro bambino. Tu sarai molto utile alla nostra causa.”
Tek’ryn rabbrividì, rendendosi conto che la Matrona l’avrebbe usato come uno strumento e che lui avrebbe passato la vita a doversi dimostrare affidabile per non essere sacrificato a Lolth.

Forse avrebbe fatto meglio a non seguire l’avvertimento costante di sua madre; forse abusare del suo potere e diventare cieco sarebbe stato il male minore.
O forse no, perché a quel punto l’avrebbero ucciso. Nessuna Casa aveva spazio per i figli inutili.

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Capitolo 14
*** 13. Raven ***


13. Raven


Sotto-genere: lore
Ambientazione: Tribyd, mondo di Doningothr (mia ambientazione)


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Sir Leo Blakward era un giovane cavaliere spavaldo e non aveva paura del bosco dei corvi. Da quando aveva reclamato il castello del Picco Minore con il consenso del Re, si era impegnato a proteggere i confini del regno dagli eserciti delle regioni confinanti e dai mostri. Non era sua intenzione fallire, e soprattutto non intendeva lasciarsi sopraffare da sciocche superstizioni popolari.
Il bosco dei corvi è maledetto, dicevano i contadini e i minatori. Nessuno di quegli ignoranti paesani metteva mai piede nel bosco, solo i soldati avevano abbastanza coraggio da tagliare gli alberi più giovani che tentavano di colonizzare le campagne del feudo, ma nemmeno loro osavano spingersi all’interno della foresta.
Sir Leo non aveva intenzione di ordinarglielo. Non poteva cominciare il suo dominio inimicandosi la gente del posto, doveva mostrare loro almeno un po’ di rispetto, loro appartenevano a quella terra più di lui.
Ad ogni modo era tradizione che la prima notte di luna piena dopo aver preso possesso del feudo, il nuovo signore si incamminasse nel bosco e andasse a incidere il suo nome sull’albero-pilastro, un altissimo frassino che si diceva crescesse al centro della foresta.
Leo non era certo che il frassino esistesse davvero, forse era solo una leggenda. E poi, dov’era mai il centro di quell’immensa foresta? Ad ogni modo, la missione era considerata superata se il signore del feudo riusciva a restare nel bosco almeno per tutta la notte e a tornare vivo l’indomani mattina, o anche qualche giorno dopo. Se passava un intero mese, il lord era dato per morto.
Sir Leo non pianificava di morire così giovane, anzi, avrebbe superato la prova e allora sarebbe diventato lord Blakward; anzi, come si usava in quel regno, lord Freymont, prendendo il nome dal feudo. Era una cosa che avrebbe dovuto tenere a mente, se voleva diventare un grande signore doveva imparare l’etichetta.

Non era chiaro come mai quell’immensa distesa di alberi si chiamasse bosco dei corvi, non c’erano più uccelli che in qualsiasi altro bosco. Non sul limitare della foresta, almeno, perché Leo non ne aveva ancora visitato l’interno.
Non sapeva bene cosa aspettarsi da quell’oscuro reame boschivo. Le leggende dicevano che la luce del sole illuminasse a malapena la terra umida sotto agli alberi, che per la maggior parte non era mai stata calpestata da piede umano. Pochissimi vecchi lord erano sopravvissuti a quell’ardua prova, e non avevano passato il loro titolo ai figli perché il feudo di Freymont non veniva trasmesso per via ereditaria; era più simile a un governatorato, il nuovo marchese poteva essere solo nominato dal re.
Era forse l’unico feudo del regno di Wildelyn che funzionasse in quel modo, o almeno, per quanto ne sapeva Leo. Non è che fosse un grande esperto di storia o di politica.
Avrebbe potuto farsi furbo, e cercare di capire se qualcuno dei vecchi lord avesse lasciato delle memorie, dei diari o dei racconti sulla natura del bosco dei corvi, ma Leo era sempre stato più coraggioso che intelligente.

Nelle profondità del bosco, la regina dei tengu, gli uomini-corvo, attendeva con pazienza il suo nuovo sposo.
Quella era la tradizione, quello era l’accordo con il re umano del regno confinante: ogni trent’anni doveva mandare un giovane uomo in salute per la regina dei tengu, perché solo così lei poteva riprodursi e dare vita ad altri tengu di aspetto umanoide. Non poteva certo accoppiarsi con i tengu con la testa da uccello, erano creature troppo piccole e stupide, buone solo per fare i soldati e i servitori. Serviva un umano per dare vita a una nuova generazione di guerrieri di elite, maghi e sacerdoti, e naturalmente a una nuova principessa. In cambio, il bosco dei corvi avrebbe protetto il piccolo regno di Wildelyn dalle invasioni e dalle razzie dei suoi molesti vicini.
La regina Waru distese le ali e volò fino alla cima degli alberi, dove si sedette comodamente su un tronco alto per osservare il cielo notturno. La luna era quasi piena e lei si sentiva romantica. Il suo sposo sarebbe arrivato presto; se non questo mese, allora il prossimo. Il re manteneva sempre la sua parola, aveva troppo da perdere a non farlo.


**********
Nota:
per questa ambientazione ho ripreso i tengu di AD&D di “Monstrous Compendium: Kara-Tur Appendix”. La specie dei tengu è divisa in due razze: i tengu con la testa di corvo, che assomigliano a corvi umanoidi di taglia Piccola, e i tengu con testa umana, che sono descritti come umani con il naso lungo e la pelle blu o rossa. In A&D erano piuttosto bassi ma in questa ambientazione sono di taglia Media, di stazza umana, solo un po’ più bassi e minuti. Entrambe le razze di tengu hanno sia le braccia che le ali e possono volare. I tengu con la testa umana sono più intelligenti e capaci di usare la magia, gli altri no.

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Capitolo 15
*** 14. Gold ***


14. Gold


Sotto-genere: nessuno
Ambientazione: Irlanda, XVII secolo


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E con questo sono a posto per tutta la vita!
Crónán era molto soddisfatto di se stesso, quella sera. Non è cosa da tutti i giorni, potersi vantare di aver derubato il Piccolo Popolo.

Il giovanotto amava considerarsi scaltro come una faina, il miglior ladro di Buttevant. La cittadina commerciale naturalmente pullulava di ladri, o aspiranti tali, ma era un mestiere pericoloso. I mercanti con qualcosa da proteggere tendevano ad essere, appunto, ben protetti. E poi non era mai bello rubare all’ombra di una chiesa, era qualcosa che metteva Crónán sottilmente a disagio.

Buttevant, pensò Crónán sentendosi molto intelligente, va bene giusto se vuoi rubare uova o un po’ di lana nei giorni di fiera... e sotto sotto lui lo sapeva, che spesso il gioco non valeva la candela. Per questo era immensamente soddisfatto del suo ultimo colpo.
C’era un vecchietto all’ultima fiera, un nonnino così anziano da essersi rimpicciolito sotto il peso degli anni. Aveva comprato una mucca pagandola in oro. Crónán aveva una specie di fiuto per il prezioso metallo, e aveva subito notato la transazione.
Il ragazzone aveva l’occhio fino, e un certo strano dettaglio aveva catturato la sua attenzione: il vecchietto portava con sé un borsello piuttosto piccolo, e ne tirava fuori una sola moneta alla volta.
Che la sua fosse paranoia per non rischiare di far cadere monete, rovesciandole sulla mano? Oppure non voleva far vedere quante ne avesse?
E quel borsello non era in generale un po’ troppo piccolo per contenere più di una o due monete?
A Crónán, la faccenda appariva sospetta. Quindi avea seguito di nascosto il vecchietto fino al confine del paese, e poi l’aveva seguito ancora quando si era avviato lungo le strade di campagna con la sua mucca al seguito.
L’uomo più giovane aveva allungato il passo e aveva affiancato il nonnino, l’aveva salutato con un cenno del capo ed era andato oltre. Non voleva dargli l’impressione di pedinarlo.
Poi però l’aveva aspettato in un punto in cui la strada passava affianco a un masso, nascondendosi in modo da non essere visibile dalla strada.
Quando l’anziano gli era passato accanto, Crónán gli era saltato addosso mulinando un ramo secco a mo’ di bastone. Aveva colpito l'uomo sulla testa, mandandolo lungo disteso per terra, e gli aveva rubato il borsellino e pure la mucca.
Il vecchietto si era ripreso quasi subito (incredibile, per un uomo della sua età!), e quando si era rialzato non era più un anziano essere umano: si era trasformato in un ometto basso come un nano, vestito di rosso, con una barba rigogliosa e un paio di occhiali sul suo naso a punta.
Crónán capì all’istante di trovarsi davanti a un membro del Piccolo Popolo e si fece il segno della croce, poi se la diede a gambe lasciandosi dietro la mucca. Le grida del leprecauno lo accompagnarono per un tratto, parole aspre in una lingua antica; il giovanotto si tappò le orecchie mentre correva, per non sentire. Sicuramente se avesse capito anche solo una parola, la maledizione avrebbe avuto effetto.

Dopo un’ora buona, con il pericolo alle spalle, Crónán cominciò a rivalutare la cosa sotto una diversa luce. Aveva derubato un elfo, chi mai ci era riuscito prima di lui?
Questo lo rendeva sicuramente il miglior ladro di Buttevant. Anzi, forse il miglior ladro d’Irlanda.
Rallentò il passo, mentre inconsciamente si dirigeva di nuovo verso casa. Il sole era ancora alto, c’era tempo prima del tramonto, avrebbe potuto fare un giro in fiera. Comprarsi qualcosa di bello, per una volta.
Lo sciocco non sapeva che un leprecauno non va mai a fare spese due volte nella stessa città, per un motivo molto semplice: il suo oro è solo un’intricata illusione, e dopo qualche ora scompare. Nessuno con un minimo di saggezza resterebbe nei paraggi dopo aver speso oro bugiardo. Crónán stava per scoprirlo a sue spese.


*****************
Nota:
il paesino di Buttevant esiste davvero, e dal medioevo ospita fiere e mercati. All’inizio probabilmente non si chiamava così. Il nome Buttevant è attestato dal 1686, e questa storia si svolge più o meno alla fine di quel secolo.
Altra nota: I leprecauni, prima del ventesimo secolo, erano descritti indossare abiti rossi e non verdi.

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Capitolo 16
*** 15. Bone ***


15. Bone


Sotto-genere: dark fantasy, drammatico
Ambientazione: Francia, maggio 1643


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La battaglia aveva infuriato per tutto il pomeriggio, sotto una pioggia leggera che rendeva tutto viscido e fangoso.
Il sangue si mescolava alla terra e alla sporcizia, impregnando le vesti dei cadaveri che ormai non ci avrebbero più fatto caso.
Le grida dei moribondi lentamente andarono a spegnersi, mentre i corvi già scendevano dal cielo per banchettare.
Anche altre creature stavano scendendo dal cielo, una volta che il trambusto del combattimento si era calmato. Barbagianni dal ventre bianco come la neve infestavano il cielo, a stormi, catturando i colori del tramonto con le loro piume candide.
I barbagianni di norma non mangiano cadaveri umani, ma i folletti che erano aggrappati alle loro schiene sì. Piccoli ometti deformi, neri come il carbone, gobbi o con il volto sfigurato… non ce n’erano due uguali, ma non ce n’era uno che non fosse ributtante.

I crocchiaossa fanno parte del Piccolo Popolo, ma sono creature di cui nessuno ama parlare, nemmeno i loro cugini meno oscuri. Il crocchiaossa medio è grande quanto uno gnomo, ma completamente nero per mimetizzarsi bene nella notte.
Prediligono cibarsi dopo il crepuscolo, ma non sono cacciatori: sono spazzini. Li si trova nei cimiteri, o nei quartieri malfamati dove gli assassini scaricano i cadaveri delle loro vittime. Inconsapevolmente (perché non sono malvagi) i crocchiaossa sono ottimi complici per chi vuole far sparire la prova del suo misfatto… ma è anche vero che sarebbe impossibile spiegare a un crocchiaossa il concetto di reato e di sacralità della vita.
Mangiano cadaveri, ma non è certo se siano consapevoli di che cos’è un cadavere. Forse non sono nemmeno abbastanza intelligenti da capire cosa sia la vita… forse sono poco più che animali.
Di certo, una battaglia costituisce sempre una tentazione incredibile per quelle piccole creature avide e golose.

Dopo uno scontro come quello, che aveva lasciato a terra centinaia di corpi esanimi, i crocchiaossa calarono a decine come avvoltoi. Mentre i corvi e altri animali spazzini preferivano beccare gli occhi o mangiare la carne, gli oscuri folletti amavano rosicchiare le ossa e succhiare il midollo, e non avevano schifo nemmeno della putrefazione.

Gli esseri umani avevano paura a camminare nei campi di battaglia di notte. Strani scricchiolii nel buio lasciavano immaginare le creature più mostruose. I crocchiaossa non erano nemmeno le creature peggiori che si potessero incontrare in mezzo ai morti.
Anche Hubert aveva paura, ma il dolore era più forte dell’apprensione. Era un soldato, aveva affrontato le spade e i moschetti dei nemici, quindi cercava di farsi coraggio dicendosi che niente potesse essere peggiore di quello.
Aveva perso di vista suo fratello Guillaume nella confusione della mischia, ma al momento non poteva pensarci, era troppo impegnato a sopravvivere; più tardi si era reso conto che non aveva più visto Guillaume fra le truppe dei sopravvissuti, e non era nemmeno fra i feriti.

Quella guerra gli era sembrata così giusta, all’inizio. Era partito per obbligo ma con entusiasmo, aveva marciato per miglia senza lamentarsi, ed era stato così orgoglioso quando l’esercito nemico aveva battuto in ritirata… ma a che serviva tutto questo, se Guillaume era morto? Che valore aveva una vittoria davanti alla perdita dei propri cari?
La luna crescente era appena uno spicchio, ma il giovane aveva con sé una torcia che illuminava abbastanza il terreno da permettergli di distinguere le uniformi dei suoi compagni da quelle dei nemici. Oltre il cerchio di luce era praticamente cieco, quindi sobbalzava al minimo rumore.
Vagò per quasi un’ora in quella landa scura che andava coprendosi di brina, esaminando ogni cadavere con l’uniforme giusta. Alcuni erano amici, commilitoni che conosceva bene, altri erano sconosciuti… qualcuno era irriconoscibile. In questi casi, Hubert controllava per scrupolo la mano destra del cadavere: Guillaume aveva una cicatrice sul dorso, una ferita recente non ancora guarita del tutto.
Alla fine lo trovò.
Per fortuna aveva quel graffio sulla mano, perché la testa era stata staccata.
Hubert crollò in ginocchio a terra, passandosi una mano sul viso. Lo temeva, si era preparato all’idea, ma vederlo era comunque uno choc.
Il vilipendio del corpo di suo fratello lo disturbava quasi più che la sua morte… non potevano ucciderlo con un affondo netto o con uno sparo? Dovevano proprio decapitarlo, privandolo della sua umanità, della sua identità? E lasciarlo lì incompleto come un pupazzo rotto, come se non fosse mai stato umano?

Guillaume non era stato decapitato, ma Hubert non era un grande esperto di anatomia e non l’aveva capito. La sua testa era stata strappata a mani nude, da una creaturina grande come uno gnomo ma più forte di un soldato.

Un crocchiaossa osservava in silenzio il comportamento di quello strano cibo che si muoveva. Il cibo di solito non si muoveva, al massimo faceva qualche gorgoglio.
Il nero folletto non aveva mai capito molto bene quella faccenda: c’erano queste grosse creature che si muovevano, e non erano cibo, ma poi lo diventavano quando smettevano di muoversi. Di solito smettevano di muoversi perché si colpivano a vicenda. Questo però non aveva nessuno da colpire, tutti gli altri erano già cibo.
Forse era triste per questo. Non aveva nessuno da colpire. O forse voleva mangiare la testa di quel cadavere... ma col cavolo che il crocchiaossa gliel’avrebbe ceduta, la testa era la sua parte preferita. Le orecchie in particolare, morbide fuori e croccanti dentro.
Tuttavia era la prima volta che stava considerando un futuro-cibo come un essere dotato di volontà. Non immaginava che l’avessero… ma non aveva mai rivolto molti pensieri a cosa facessero quelle creature.
Poi il futuro-cibo fece una cosa ancora più strana. Sollevò il cadavere per le spalle, lo strinse al petto e scoppiò a piangere.
Il crocchiaossa rimase a bocca aperta e fece perfino cadere l’orecchio che stava sbocconcellando. Che cos’era quel suono? Un suo conoscente, che viveva sotto a un camposanto, gli aveva raccontato che a volte quegli esseri alti si recavano alle tombe e facevano quel suono. Era una cosa stupida, prima mettevano il cibo sottoterra e poi venivano a piangere perché lo rivolevano indietro…
L’espressione sul viso di quella creatura però non era fame, né capriccio. Era qualcosa di più profondo e incomprensibile. Il crocchiaossa non conosceva il concetto di amore, ma era capace di sentire un legame superficiale con i suoi simili. L’anno prima un suo compagno si era strozzato con una falange ed era morto, e questo gli aveva lasciato una specie di vuoto. Non avrebbe più sentito la sua voce, o scherzato con lui. Questo l’aveva reso… un po’ triste.
Ora questo futuro-cibo sembrava provare lo stesso sentimento, in un certo senso, ma di più. Di più, nella misura in cui il sole era più della luna.
Il folletto non aveva parole per pensare quel concetto, ma stava cominciando a fargli uno strano effetto. Non si sentiva più a suo agio, a spiare il comportamento dello spilungone mentre si portava appresso la testa di quel cadavere.
La pietà non è un’emozione con cui i crocchiaossa abbiano molta familiarità, ma è anche perché non hanno mai occasione di provarla.
Al folletto dispiaceva un po’ rinunciare a quel cranio succulento, ma c’erano così tanti altri corpi…
Prese la decisione su due piedi e si fece avanti, uscendo dall’ombra e trascinando quella testa per i capelli.

Hubert non aveva mai provato un dolore come quello; non aveva mai voluto bene a nessuno all’infuori della sua famiglia, non davvero, quindi non aveva mai perso qualcuno a cui tenesse sul serio. Suo fratello era più grande di lui di tre anni, per cui quando erano partiti per la guerra aveva fatto tutto il possibile per tenerlo d’occhio e proteggerlo. Guillaume era quello forte dei due. Non avrebbe dovuto finire così.
Il senso di vuoto per la sua perdita era quasi troppo grande per essere compreso: Hubert sapeva che non avrebbe più potuto parlare con suo fratello, non l’avrebbe più visto ridere, ma quel senso di desolante eternità era un’idea troppo grossa perché la sua mente potesse già interiorizzarla.
Per un attimo la sua psiche vacillò, nuda davanti alla verità della morte. La battaglia non era terrificante quanto un campo di cadaveri. Nella mischia non si aveva il tempo di pensare, l’adrenalina ti teneva vivo. Dopo il caos invece c’era il tempo per pensare, il tempo per soffrire e per avere paura del futuro.
Quando un piccolo essere mostruoso entrò nel cerchio di luce della torcia, trascinando la testa mozzata di suo fratello, Hubert capì di essere impazzito davvero. La sua bocca si aprì in un muto grido d’orrore, il suo sguardo era calamitato su quella testa che non sembrava nemmeno Guillaume, eppure era chiaramente lui.
Hubert impallidì, poi con immensa fatica riuscì a guardare di nuovo la creatura.
Era una specie di nano, nero come il carbone, gobbo e deforme. Quel parto dell’inferno afferrò i capelli di Guillaume all’attaccatura e sollevò quella cosa raccapricciante, porgendola a Hubert in modo che il volto morto fosse girato verso il cielo, leggermente rischiarato dalla luna e dalla torcia. Gli mancava un orecchio.
Hubert tremò ancora più forte, realizzando che il campo intorno a lui sicuramente pullulava di simili demonietti. Restò congelato, incapace di muoversi.
Lo gnomo nero fece qualche altro passo verso di lui, portandogli la testa. Hubert capì che era stato lui a prenderla, e l’orrore e il furore gli annebbiarono la mente. Era troppo spaventato per avere paura. Era arrivato oltre la paura, sprofondando nella follia.
Strinse la presa sulla torcia e la usò come una clava, schiantandola sulla testa del crocchiaossa.
Il piccolo spazzino non se l’aspettava e riuscì a malapena a schivare il fendente, che gli colpì una spalla anziché la testa. I suoi stracci lerci e vecchi, unti di grasso e sudore, presero fuoco in un attimo.
Il crocchiaossa abbandonò la testa e corse via, urlando di dolore con una vocetta stridula. Cercò di togliersi i vestiti, ma ormai anche la sua pelle aveva preso fuoco.

La sua morte fu abbastanza rapida, per misericordia, ma il folletto ebbe il tempo di maledirsi per la sua stupidità.
Ovviamente lo spilungone era triste solo perché non aveva più nessuno da colpire. La Gente Alta non aveva sentimenti, quelle bestie vivevano solo per uccidere altre cose.


**********
Nota:
la scena si svolge appena dopo la battaglia di Rocroi, 19 maggio 1643, in cui l’esercito francese sconfisse quello spagnolo. Ho fatto un minimo di ricerca per capire se le armi e l’uso delle uniformi potevano avere un senso. “Hubert” e “Guillaume” sono nomi il cui uso è attestato all’epoca in Francia. Anche la fase lunare era quella, ho controllato (luna nuova due giorni prima).
A proposito di accuratezza, non credo che il crocchiaossa appartenga davvero al folklore europeo, penso sia un’invenzione recente della narrativa. Mi sono basata sulle descrizioni trovate in rete che rimandano al libro di Giorgio Schottler “Elfi, Gnomi, Nani e Folletti” (1995) e in modo lasco sulla canzone “il Crocchiaossa” dei Fiaba.

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Capitolo 17
*** 16. Dark ***


16. Dark


Sotto-genere: introspettivo
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: sequel del capitolo 8. Waterlilies


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1290 DR, cittadina di Thassalen, tharch di Priador, Thay meridionale

Da mezzo ciclo di luna l’autunno era ufficialmente calato sulla regione del Thay e su tutta la fascia settentrionale del Faerûn, e il tramonto era ogni giorno più ansioso di fagocitare il sole. Quel pomeriggio la cittadina di Thassalen allungava le sue ombre sulle acque sempre più scure della baia, mentre una nave di modeste dimensioni, la Carezza del mare, trovava la sua rotta nel porto ancora fervente di attività.
Il piccolo mercantile aveva attraccato al molo di Thassalen per un semplice motivo: il capitano non voleva pagare le tasse sul commercio, ben più onerose, nella grande città portuale di Bezantur. Lo straordinario fervore religioso di Bezantur, un fenomeno strano per il Thay, faceva in modo che i numerosi templi della città necessitassero sempre di nuovi fondi per migliorie e manutenzione... ed ecco che quelle spese si riversavano sulle spalle dei mercanti.
A Thassalen era comunque possibile fare discreti affari, se si sapeva sfruttare i canali giusti.
I marinai cominciarono a scaricare le merci dedicate al mercato serale, quelle che non potevano essere vendute di giorno.

Poche ore dopo, il capitano Agaros se ne stava appoggiato al parapetto della sua nave, osservando le luci della città. Prese una lunga boccata dalla sua amata pipa, poi sbuffò il fumo dal naso, ben deciso a gustarsi l’aroma affumicato di quella miscela preziosa. Sì, quello era stato un affare. Si facevano buoni commerci a Thassalen... non come nelle grandi città dell’altopiano, ma il Thay centrale non era posto per un piccolo mercante come lui.
Restò ancora un po’ in contemplazione, perso nei suoi pensieri; la sua mente oscillava fra considerazioni di carattere pratico - economico - e il desiderio di dare ascolto ai suoi impulsi animali.
Aveva una schiava da vendere. Era ancora giù nella sua gabbia, sottocoperta, e avrebbe dovuto portarla al mercato serale. Non l’aveva ancora fatto.
Era un donnino da niente, una fanciulla pallida come il latte, bionda, con occhi violetti e una corporatura minuta e delicata. Avrebbe potuto diventare una cameriera, un grazioso ornamento nella casa di qualche riccone, oppure una schiava di piacere. Sapeva anche leggere e scrivere, e parlava più di una lingua, cosa che l’avrebbe qualificata anche come educatrice per qualche nobile rampollo, oppure come serva in un tempio. Perdipiù aveva sangue fatato nelle vene, non esattamente una rarità nel Thay, ma comunque una cosa inusuale e curiosa. Tutti sapevano dell’esistenza della gente della sua stirpe, gli spiritidi, creature simili agli umani che vivevano in armonia con la natura… ma non era facile catturarli. Decisamente un valore aggiunto.
Agaros non pensava che avrebbe avuto problemi a trovare mercato per lei; era davvero una cosetta deliziosa, fresca e giovane. Il problema era un altro: il capitano era un amante delle cose belle e dei piaceri. Commerciava in spezie, oppiacei, tessuti pregiati e schiavi per potersi pagare i suoi vizi, come i cibi più pregiati, le migliori miscele di caffè e di tabacco da pipa.
E le ragazze. Quando si fermava in un porto, non lesinava sulle spese per trovare le ragazze più belle e sane.
La sua schiava era molto bella, con un volto virginale e un atteggiamento fanciullesco. Lui sapeva che era ancora illibata, il cacciatore che gliel’aveva venduta l’aveva attratta a sé con la seduzione, ma non l’aveva mai toccata in quel modo. Aveva più a cuore il guadagno.
La verginità della ragazza infatti costituiva una buona parte del suo valore come schiava, ma Agaros stava cominciando a pensare che forse non aveva senso dar via una simile perla per avere in cambio dei soldi, per poi comprarsi una notte con ragazze di seconda mano.
Forse, dopotutto, avrebbe preferito tenerla per sé. Almeno per un po’. La vita su una nave poteva sciupare in fretta una donna. Poi l’avrebbe venduta, a un prezzo inferiore certo, ma che senso aveva anteporre il denaro al piacere, se per lui il denaro era solo un mezzo per arrivare al piacere?
Il capitano era sempre stato incerto fino a quel momento, ma adesso stava giungendo a una decisione. Chissà… forse quella miscela di tabacco aiutava a mettere in chiaro le proprie priorità, o forse aiutava a superare le proprie inibizioni?
Agaros guardò la sua pipa, con fare pensieroso. Forse avrebbe avuto bisogno di ben altro per superare le sue inibizioni.
C’era un motivo se fino a quel momento si era servito solo dei bordelli, e non aveva mai comprato una schiava da tenere sulla sua barca.
C’erano cose particolari che gli piaceva fare… cose di cui la mattina dopo si vergognava sempre. Non credeva che sarebbe riuscito a sostenere una convivenza con una donna, nemmeno una schiava, perché avrebbe sentito il peso del suo giudizio giorno dopo giorno.
Ma con questa qui sarebbe stato diverso. Lei non aveva esperienza, non sapeva come venisse fatto di solito.
Doveva solo fare in modo che restasse sempre nella sua cabina, in modo che non parlasse con il resto della ciurma…
La sua testa ciondolò verso il basso, come se fosse appesantita da tutti quei pensieri. Fino a un momento prima, l’idea di tenere la schiava per sé sembrava eccitante, ma ora lo stava riempiendo di preoccupazioni. C’erano dei lati oscuri in lui che non avrebbe voluto lasciar vedere a nessuno, tantomeno a una ragazzina con gli occhi da cerbiatta. Forse lei non era la persona giusta. I suoi occhi innocenti e sconcertati l’avrebbero tormentato per mesi, e allora avrebbe dovuto ucciderla, dicendo addio al potenziale guadagno. Forse era meglio venderla e continuare a rivolgersi alle puttane. Agaros chiuse gli occhi, sentendo anche le palpebre sempre più pesanti. Magari avrebbe fatto meglio a dormirci su. Il nuovo tabacco lo stava rendendo più insonnolito del previsto.

Il vecchio lupo di mare non si rese conto che stava perdendo l’equilibrio. Non si accorse che si era sbilanciato in avanti. Il parapetto della nave era basso, pensato apposta per permettere una rapida fuga in caso di abbordaggio, per cui quando l’omaccione si piegò in avanti cadde fuori bordo con una goffa capriola.
Il tuffo nell’acqua salata del Mare di Alamber sollevò uno spruzzo notevole, ma neanche questo fu sufficiente a svegliarlo, perché ormai non c’era più nulla che potesse farlo.
Un uomo ammantato e incappucciato, che fino a quel momento era rimasto nell’ombra dietro l’albero maestro, camminò silenziosamente sul ponte della nave fino ad arrivare al punto in cui si trovava il capitano poco prima. Il misterioso infiltrato guardò in basso; il corpo di quell’uomo disgustoso galleggiava a faccia in giù, i polmoni ancora pieni d’aria, perché era morto avvelenato prima di toccare l’acqua.
L’incappucciato ricordava ancora una cosa o due, sui veleni. Abbastanza da sapere cosa mescolare a una miscela pensata per essere bruciata e respirata.
Tirò fuori dalla tasca il sacchetto di monete d’oro con cui il marinaio aveva pagato quella preziosa merce d’importazione, e lo lasciò sul parapetto. Non gli importava dei soldi.

I suoi passi avrebbero dovuto essere leggeri come quelli di un gatto, ma la nave era quello che era, e il legno scricchiolava per sua natura. Scendere sottocoperta non fu il lavoro pulito e silenzioso che sperava, ma tanto non c'era nessun altro sulla barca a parte lei.
La gabbia era stata sistemata nella stiva, e la ragazza se ne stava rannicchiata in un angolo, abbracciandosi le ginocchia come se volesse proteggersi dal mondo.
L’ometto furtivo si avvicinò alla gabbia, ma lei non alzò lo sguardo anche se i suoi passi avevano fatto scricchiolare le assi di legno. Sembrava persa nei suoi pensieri.
“Ragazzina bionda” l’apostrofò lui, richiamando la sua attenzione.

La fanciulla sentì un timbro di voce che non conosceva e alzò la testa di riflesso.
Questo non era uno dei soliti marinai. Si chiese chi potesse essere. Era troppo smilzo per essere qualcuno che lavorava su una nave. Forse… un acquirente? Il laido capitano della nave aveva promesso di venderla al miglior offerente.
Guardò quell’uomo, cercando di cogliere un accenno della sua espressione e delle sue intenzioni, ma lui aveva un cappuccio sul volto e la stiva era già molto buia di suo.

L’uomo prese in mano il lucchetto che chiudeva la gabbia. Era un bell’oggetto solido e probabilmente la chiave era affondata con il capitano. Non si lasciò scoraggiare. La gabbia era un cubo quasi perfetto, di cui un’intera parete si apriva come una porta. I cardini erano vecchi, ed erano molto meno resistenti del lucchetto. Erano solo due, entrambi a una spanna dal bordo inferiore e dal bordo superiore della gabbia, proprio sullo spigolo del cubo di sbarre. L’uomo afferrò la porta della gabbia nel punto più lontano dal lucchetto e tirò con un forte strattone. I due cardini saltarono via come bottoni. La porta si aprì, penzolando obliquamente dal punto in cui era agganciata al resto della gabbia con il lucchetto.
“Fuori, ragazzina bionda. Te ne torni nel mare di Meth.”

La donna sgranò gli occhi, stupefatta. L’avevano trascinata attraverso il mare interno solo per poi riportarla indietro? Ma no, quest’uomo non poteva essere il suo nuovo padrone, altrimenti non avrebbe spezzato la gabbia. Avrebbe avuto le chiavi.
“Mi state facendo scappare?” azzardò lei, per esserne sicura.
L’uomo ammantato non fece una piega.
“Ma… e il capitano della nave? L’equipaggio?”
“I marinai sono in città a divertirsi” fu la stringata spiegazione. “Il vecchio bastardo è morto.”
Lei sussultò, colta nel vivo. Questo di sicuro non se l’aspettava.
“Morto? Come, è morto? Stava bene qualche ora fa!”
“Morto” confermò lo sconosciuto, con voce affilata. “Avvelenato.”
“Ma…” la prigioniera boccheggiò, non trovando le parole. “Come?”
“Io l’ho ucciso” spiegò lui, con tutta calma.
Seguì un silenzio pesante, teso, immobile.
“Era un rifiuto umano, progettava di farti del male, e l’ho ucciso.” Approfondì.
Contro ogni sua previsione, la ragazza si mise una mano sulla bocca e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
“Oh, per il cielo!” Sbottò l’incappucciato, e nella rabbia la voce gli uscì più sussurrata, quasi sibilata. “Non può dispiacerti per lui! Ti avrebbe stuprata e venduta… o uccisa.”
“Non… non mi dispiace per lui…” riuscì a dire lei, ma le sue fragili spalle erano scosse dai tremori, come se fosse sconvolta e sul punto di piangere. “Ma è un’altra persona che è morta per colpa mia. Mi dispiace di questo.”
L’uomo si avvicinò a lei, in modo che potesse vederlo un po’ meglio nella debole luce lunare che filtrava dall’unico oblò. Si portò entrambe le mani alla testa e spostò all’indietro il cappuccio, in modo che scivolasse sulle spalle.

La giovane fece un passo indietro, colpita e spaventata dall’aspetto mostruoso del forestiero.
La sua testa calva era coperta di squame, e sarebbe apparsa perfettamente liscia se non avesse avuto due piccole corna ai lati della fronte. Le orecchie erano solo due fori ai lati della testa. I suoi denti erano aguzzi, in particolare i canini che ricordavano quelli di un vampiro. Ma la cosa più sconcertante erano gli occhi: infossati, circondati da un alone scuro come occhiaie di chi non conosce il riposo, eppure brillavano nella notte catturando la poca luce della luna… ed erano color giallo acido, non l'iride, ma proprio tutto il bulbo oculare, ad eccezione della pupilla sottile e verticale.
Lui lasciò che lo guardasse per bene, poi rimise a posto il cappuccio. Le persone non riuscivano mai a smettere di fissarlo, perché lo identificavano come un predatore.
"Che cosa sei?" La domanda sfuggì alle labbra della donna prima che lei potesse controllarsi. Poi si mise di nuovo una mano davanti alla bocca. "Oh! Perdonami… chi sei?"
L'uomo, sempre che fosse un uomo, rimase colpito dalla sua rapida rettifica.
"Hai appena visto un mostro e ti preoccupi di essere stata scortese?"
La ragazza ciondolò sui piedi, a disagio, come se non sapesse cosa farsene di quella domanda.
"È stato molto indelicato da parte mia… chiederti cosa sei. Non sei una cosa. Non è solo scortesia, per un momento ti ho tolto la dignità che si deve a una persona." Cercò di spiegare.
"Ma non sono una persona" la corresse il mostro. "Sono quello che viene chiamato una prole infernale. Un'anima dannata che ha già sprecato la sua occasione per essere una persona."
Lei fece un passo avanti verso di lui, recuperando il coraggio.
"Ma allora perché mi vuoi aiutare a tornare a casa?"
L'incappucciato non mosse un muscolo. Il suo linguaggio del corpo era quasi inesistente. Quando parlò, la voce uscì a fatica, come se non volesse toccare quel discorso.
"Una prole infernale è un'anima che ha avuto una seconda occasione per tornare nel suo mondo e riparare a qualche torto."
Lei sussultò per quell'inaspettata rivelazione. Questo di sicuro cambiava le carte in tavola. L'uomo non era un demone o un diavolo, ne aveva solo l'aspetto...
"Ma perché io?" Chiese, incapace di trattenersi. "In una regione piena di schiavi, perché non hai aiutato qualcuno che lo meritasse più di me?"

Questa domanda affondò nella coscienza dell'assassino e andò a posarsi proprio accanto al ricordo di lei che diceva "è un'altra persona che è morta per colpa mia".
Doveva essere successo qualcosa di traumatico nel suo passato recente, perché dai pochissimi ricordi che aveva di lei, gli aveva dato l'impressione di essere una fanciulla innocente e spensierata.
"Fai domande sul merito a qualcuno che dovrebbe essere all'inferno? Chi sono io per giudicarti poco meritevole, ragazzina?"
"Enbilulu" lo corresse lei. "Mi chiamo Enbilulu, e non sono una ragazzina. Ho trent'anni tondi tondi. E tu non mi hai ancora detto chi sei."
Il misterioso straniero le voltò le spalle, incamminandosi verso le scale.
"Andiamo, ragazzina, prima che torni qualcuno."
Lei capì che per ora non avrebbe cavato un ragno dal buco. Doveva solo fare una scelta: fidarsi del fatto che lui l'avrebbe riportata a casa, oppure non fidarsi.
Nonostante il suo aspetto mostruoso, c'era qualcosa nel suo modo di parlare che le ispirava pietà, e lei non riusciva ad avere paura di qualcuno per cui provasse pietà.
Lo seguì su per le scale.

Enbilulu non aveva bagagli da recuperare, possedeva solo gli abiti che indossava, ma l'uomo la convinse a prendere dei vestiti da uomo dalla cabina del capitano. Le stavano enormi, specialmente i pantaloni che stavano su solo grazie alla cintura, ma con abiti maschili e i suoi capelli corti avrebbe potuto passare per un ragazzino. Per sua fortuna aveva una corporatura minuta e un corpo ancora abbastanza androgino, perché nonostante le sue proteste, a trent'anni era appena adolescente secondo gli standard della sua razza.
Aveva appena finito di cambiarsi quando sentì dei rumori di colluttazione da fuori. La cabina del capitano era sul ponte, accanto alla stanza dove tenevano le mappe, non sottocoperta. Qualcuno doveva essere salito sulla nave e di sicuro il suo oscuro compagno si stava occupando della cosa.
La giovane corse fuori, per capire cosa stesse succedendo.
Il nostromo era tornato sulla nave e l'uomo-diavolo aveva deciso di prendersi cura dell'imprevisto in modo violento. Stava soffocando il marinaio tenendogli la gola nella stretta ferrea di una mano. L'uomo annaspava e si agitava per liberarsi, cercava di colpire il suo aggressore, ma l'altro sembrava insensibile ai suoi pugni disperati, se ne stava lì immobile e riusciva a tenere fermo il nostromo con quella mano soltanto.
"Basta!" Sussurrò Enbilulu, in tono di comando. "Non lo uccidere!"
"È un immondo schiavista" rispose con tono rigido. "Quelli come lui non meritano di vivere."
"È un marinaio!" Enbilulu si lanciò in avanti e quasi si appese al braccio dell'assassino, per fargli lasciare la presa, ma senza ottenere grandi risultati. Sembrava fatto d'acciaio. "Eseguiva solo gli ordini, e poi è un uomo del Thay, la schiavitù è normale per la sua cultura. Non capisce che è sbagliato!"
Finalmente l'uomo dall'aspetto diabolico lasciò la presa sulla gola del nostromo, che cadde a terra annaspando aria come un disperato.
"Il fatto che non capisca non è una scusa."
Enbilulu si frappose in mezzo fra i due, prima che al suo nuovo amico venissero altre idee.
"Non è una scusa, però lascia spazio alla speranza."
Questa obiezione spinse davvero quell'uomo uscito dall'inferno a fermarsi e a riflettere. Forse non era del tutto falso. Forse il fatto che molte persone non capissero la crudeltà delle loro azioni, lasciava sperare nel fatto che se l'avessero capito si sarebbero comportate meglio.
"Non ti sto dicendo che le azioni della ciurma della Carezza del mare siano giustificabili. Ti sto solo chiedendo di avere pietà. Molti di loro sono persone normali, nel cuore non sono malvagi, sono solo abituati ad un mondo malvagio. Il nostromo ha una famiglia, ho sentito che ne parlava una volta. Non resterò a guardare mentre spezzi un'altra vita. Come hai detto tu stesso, non sei nessuno per giudicare se gli altri siano meritevoli."
"Hai carattere, bambina" affermò l'incappucciato, adesso con voce acida. Qualcosa nel discorso della fanciulla doveva aver toccato la corda sbagliata. "Ma io sono perfettamente qualificato per giudicare persone che compiono volontariamente azioni malvagie. Ho detto che non avrei giudicato te, soltanto perché ti considero incapace di fare del male. Se le tue azioni passate hanno portato a conseguenze negative, deve essere stato per errore o per ignoranza. Non ha niente a che fare con la situazione di questi marinai. Sono già abbastanza magnanimo a lasciar vivere quelli che sono scesi a terra. Questo qui ci è capitato fra i piedi e sta ostacolando la nostra fuga…"
"E tu non ucciderai una persona solo perché si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato" Enbilulu non cedette di un palmo.
"Potete fuggire! Non mi metterò in mezzo!" Supplicò il nostromo, ancora seduto a terra. “Signorina, io non volevo che vi accadesse qualcosa di male. Ero tornato per convincere il capitano Agaros a… vendervi a una buona padrona, che cerca una dama di compagnia per sua figlia. Sapevo che Agaros vi avrebbe venduta al miglior offerente, ma non volevo che cadeste in mano a qualche… pervertito, o peggio.” Si fregò le mani, un tic nervoso che lasciava intendere quanto fosse spaventato. “Non è… essere schiavi è un modo di essere. Non è strano. Uno schiavo abbandona la sua vita di prima, nessuno pensa mai a tornare libero. Ma alcuni schiavi hanno una bella vita, e pensavo che questo fosse il massimo… il massimo che potevo fare per voi. Però se volete scappare e cercare di tornare a casa vostra, io mi toglierò dai piedi. Non lo dirò a nessuno!”
“Non lo dirà a nessuno” ripeté la ragazza, guardando l’uomo che si era definito prole infernale. Dai suoi pochi studi sulle credenze religiose, le sembrava di ricordare che i diavoli fossero molto poco elastici, e pregava che questo non fosse anche il suo caso.
“Non so perché ci tieni tanto” cedette lui, alla fine. “Ma va bene, facciamo a modo tuo.”
“Vi consiglio di andare subito, prima che il capitano ritorni” li invitò il nostromo, ansioso di mostrarsi utile. Il suo collo si stava colorando di lividi e non voleva fare il bis.
“Non tornerà, a meno che non possa tornare dal regno dei morti” promise lo sconosciuto, senza la minima traccia di rimorso.
Il nostromo sbiancò ancora di più. La sua faccia ormai era così smorta che poteva rivaleggiare con la pallida luna.
“Agaros è morto?” L’espressione nei suoi occhi diceva chiaramente Non voglio che succeda anche a me. “Ma… ma allora questo cambia tutto.” Balbettò, pensando velocemente a qualcosa. “Se un capitano muore senza eredi, secondo la legge è il secondo in comando a ereditare la sua nave, a meno che non sia… ehm… coinvolto nella sua morte. Questo significa che la Carezza del mare è mia, e posso riportarvi nell’Unther via mare, senza che dobbiate fuggire rischiando la cattura come schiava ribelle.”
Enbilulu e l’uomo incappucciato si guardarono a vicenda, incerti. L’offerta era buona… fare il viaggio via mare avrebbe fatto risparmiare loro molte settimane di cammino.
Alla fine lui sospirò e fece un gesto conciliante con la mano.
“Anche se quest’uomo stesse mentendo, gestire la ciurma di una nave sarà più facile che combattere contro tutte le guardie che ci darebbero la caccia se fuggissimo.” Ammise controvoglia.
Enbilulu gli rivolse un sorriso entusiasta, un sorriso che l’uomo non pensava di meritare. Si girò, usando la scusa di volersi recare al parapetto della nave per guardare verso la città.
“Partiremo domattina. Non mi interessa se la nave ha altri affari qui. Mi sono spiegato… capitano?”
L’ex-nostromo deglutì rumorosamente e annuì, poi si rese conto che il pericoloso straniero non poteva vederlo. “S-sì. Partiremo appena gli uomini saranno tornati alla nave.”
“Bene. Viaggeremo fino al mare di Meth. Poi…” la sua voce si spense nell’aria notturna, perché non sapeva veramente cosa avrebbe fatto dopo.
“Poi mi aspetterai sulle rive mentre saluto mia madre e il mio villaggio” s’intromise la giovane donna. “E quando sarò pronta a partire, mi accompagnerai all’avventura.”
Lui si staccò dal parapetto e si girò a guardarla, stranito.
“Prego?”
“Non sei obbligato a pregare, ma se ti fa piacere...” scherzò lei, cercando di riportare la conversazione su un tono più leggero. “Dai, pensaci. Io voglio girare il mondo e portare aiuto a chi ne ha bisogno, ma mi occorre una guardia del corpo. A te, invece, serve chiaramente una bussola morale. Hai detto che vuoi riparare a qualche torto, forse desideri anche essere buono, ma ti comporti come un intransigente fanatico portatore di morte. Hai bisogno di me per capire dove finisce la giustizia e comincia il buonsenso!”
“Parla di buonsenso una che si è fatta catturare…”
“Ho già ammesso di aver bisogno di una guardia del corpo.” Lo interruppe la donnina. “Io imparo dai miei errori.”

I due rimasero a fissarsi in silenzio per alcuni lunghi secondi, mentre nella mente di ciascuno si svolgeva una battaglia dialettica immaginando potenziali risposte dell’altro.
L’argomentazione dello sconosciuto però non fu quella che Enbilulu si aspettava.
“Non posso viaggiare con te. Non sopporto la tua vista.”
La spiritide rimase a bocca aperta. Non avrebbe mai potuto prevedere una risposta così villana.
“Ah perché tu credi di essere una gioia per gli occhi?”
“Io sono un mostro” ammise lui. “E tu somigli così tanto all’ultima persona buona che ho ucciso. Non riesco a sopportare di guardarti.” Si passò una mano sul volto e si sedette a terra, appoggiando le spalle contro la balaustra. “Ho passato gli ultimi dodici anni in un monastero, per addestrarmi ad imbrigliare i miei ricordi frammentati e le mie emozioni, per imparare a non soccombere al senso di colpa che minaccia di paralizzarmi. Una prole infernale dovrebbe desiderare di portare il bene nel mondo, per bilanciare il male che ha fatto in vita. Per questo veniamo ricreati senza più ricordi. Io invece ho voluto trovare il modo di rammentare tutto, ho insistito e ho tentato finché non ho recuperato molte delle memorie della mia vita passata. Non sopportavo l’idea di dover basare la mia esistenza sul porre rimedio a crimini che nemmeno ricordavo.” Fece una pausa, prese un profondo respiro e quasi gli scappò un risolino amaro.
La fanciulla rimase in religioso silenzio, perché forse stava iniziando a capire. L’aspetto di lui, quasi serpentino. La somiglianza con la sua ultima vittima buona…
“Quello che non avevo considerato è… c’è un motivo se quelli come me vengono privati della memoria.” Continuò lui. “Non è una punizione, è una benedizione. Abbiamo tutti commesso crimini che sono troppo orribili da sopportare, con la nostra nuova moralità. Azioni immonde che potevamo capire e apprezzare quando eravamo malvagi, ma che diventano inaccettabili adesso che abbiamo capito i nostri errori. Realizzare la portata del miei misfatti all’inizio mi ha paralizzato. Il senso di colpa era così schiacciante da lasciare solo una vuota depressione. Ma alla fine mi sono risollevato, perché ho smesso di credere di poter fare abbastanza buone azioni da bilanciare la mia vita precedente. Non è possibile riuscirci. Come per molti della mia risma, non esiste per me alcuna possibilità di redenzione. Però mi era stata data una seconda possibilità, e dovevo quantomeno sfruttarla per fare tutto il bene che mi fosse riuscito di fare. Questo è il pensiero che mi ha fatto risollevare e cercare aiuto.”
“Il monastero” tirò le fila Enbilulu. “Dove hai imparato a controllare le tue emozioni e a strangolare la gente con una mano sola.”
“Tu non approvi.” Indovinò lui.
La ragazza fece qualcosa di inaspettato: si sedette accanto a lui.
“Non approvo che tu abbia ucciso mia nonna.” Affermò. Lui sussultò, come se il fatto che lei l’avesse capito fosse una coltellata al petto. “Mio padre non si è mai ripreso dalla sua morte. E no, non approvo che tu abbia voluto recuperare i tuoi ricordi. Se tu non l’avessi fatto, ora potrei pensare che tu sia una persona diversa. Non potrei incolparti per qualcosa che ha fatto qualcun altro. Invece tu sei tu, e ne sei consapevole, e io non ho nessuna scusa per non odiarti. Devo solo… accettare questa realtà così com’è, e decidere se posso perdonare o no la persona che ha distrutto la mia famiglia.” Chinò la testa in avanti, guardando con ostinazione il ponte della nave. “Anzi, io… non ho il diritto di approvare o disapprovare che tu abbia recuperato i ricordi. Quella è una decisione tua. Mi hai privato di una facile scappatoia, ma la vita non è fatta di scappatoie.”
Enbilulu si voltò di scatto verso l’ex yuan-ti, con gli occhi velati di lacrime.
“Lei com’era? Ha lasciato il villaggio per andare in guerra contro di voi, quando io avevo dodici anni. Non la ricordo molto bene. Vorrei ricordarla meglio.”
“Ah, lei… tu le assomigli molto.” Tornò a ripetere. “Nell’aspetto e nel carattere. Lei era un po’ più intransigente di te, ma forse perché aveva combattuto molte battaglie. Fino all’ultimo però voleva solo tornare a casa. Sei stata l’ultimo dei suoi pensieri. Tu, e il vostro villaggio fra le ninfee. Voleva tornare da te, ma io… gliel’ho impedito. È stato un gesto ignobile, insensato e crudele. Tua nonna ti voleva molto bene, e sarebbe qui adesso se non fosse stato per me.”
La giovane aspirante avventuriera rimase in silenzio per un lungo momento, cercando di trattenere le lacrime.
“Capisco…” si passò una mano sugli occhi, in un gesto quasi rabbioso. “Sei tornato perché in qualche modo ucciderla ti ha aperto gli occhi sulla tua crudeltà?”
Lui annuì cautamente, senza sapere cosa aspettarsi.
“Allora posso pensare che la sua morte non sia stata vana, dopotutto.” Decise Enbilulu, prendendo un altro profondo respiro. “Lei sarebbe contenta di sapere che ha lasciato un’impronta nel mondo.”
La creatura che un tempo si faceva chiamare Sszarek Ivanissu spalancò gli occhi come se la ragazza avesse appena detto una cosa inconcepibile, fuori dal mondo.
“Devi essere all’altezza di lei, però” continuò la biondina con voce rotta, fissando un punto in lontananza davanti a sé, senza sbattere le palpebre. “Dovrai fare del bene come l’avrebbe fatto lei… e… voglio ancora che mi aiuti nella mia missione. Ho qualche nozione di erboristeria e guarigione, vorrei trovare un tempio per migliorare. Magari diventare una sacerdotessa, non lo so. Voglio apprendere quello che mi serve per aiutare il mio prossimo. Mia nonna mi avrebbe insegnato come si va all’avventura, perché avrebbe approvato il mio progetto. Ma me l’hai portata via, quindi dovrai insegnarmi tu.”
“Tu” balbettò, con la gola secca “tu vuoi ancora che ti accompagni?”
“Non me ne frega niente se non puoi tollerare la mia vista!” Scattò lei. “Perché non ti togli il cappuccio, così potremo guardarci con orrore a vicenda?”
“Non mi fai orrore” la corresse lui. “Ma mi costringi a guardare nella mia stessa oscurità.”
“Guarderemo insieme nella tua oscurità” propose la ragazza. “In due dovrebbe fare meno paura.”

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Capitolo 18
*** 17. Mushroom ***


17. Mushroom


Sotto-genere: avventura, lore
Ambientazione: Forgotten Realms
Note: questi personaggi compaiono già in Big Brother Worship


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1282 DR, sottosuolo del Faerûn settentrionale

La caverna era buia e silenziosa come una tomba, in un modo che avrebbe reso nervoso qualsiasi elfo. Le creature abituate alla notte della Superficie non hanno idea di cosa sia l’oscurità perfetta, perché nemmeno una notte senza luna è completamente priva di luce. Il silenzio assoluto sarebbe stato ancora più alieno alle orecchie di un elfo di Superficie; la notte non è molto meno rumorosa del giorno, punteggiata dal frinire dei grilli e dal tubare degli uccelli notturni. Anche nelle zone più remote e desolate del mondo, la carezza del vento di solito sporca il silenzio con i suoi sussurri.
Per fortuna, Duvainion era un elfo solo per metà, e aveva passato quasi un quarto della sua vita nel sottosuolo. Ricordava la prima volta in cui aveva messo piede nel Buio Profondo. Era soltanto un ragazzo di nemmeno trent’anni, abituato alle foreste e alle pianure della Superficie, e si era aspettato di avere paura… invece no. La sua vista soprannaturale si era adattata senza problemi all’oscurità, come se per lui vivere sottoterra fosse una seconda natura. Quel paesaggio fatto di alcove scavate nella roccia, stalattiti e stalagmiti, cascate e cannule, aveva subito catturato la sua immaginazione e l’aveva incantato con il suo fascino. Come poteva avere paura di un luogo tanto bello? E poi all’epoca non era solo. Sapeva che sua madre e suo zio l’avrebbero protetto.
Duvainion scosse la testa, piegando le labbra in un sorriso silenzioso. Era passato un quarto di secolo da quella prima grande avventura, adesso era molto più consapevole dei pericoli del Buio Profondo, ma era anche in grado di difendersi da solo. Forse sarebbe stato anche in grado di proteggere la sua giovane sorella.
Nel silenzio completo delle gallerie apparentemente morte, sentì i suoi passi leggeri che si avvicinavano.

Kore era molto giovane e stava ancora imparando. Questo Duvainion lo sapeva, ma non era certo di cosa lei stesse imparando. Sembrava che la ragazza non avesse un’idea chiara di cosa fare nella vita, anzi, sembrava che volesse imparare a fare tutto. Era affascinata dall’idea di diventare una strega, come la loro madre, ma Duv sapeva che anche suo padre aveva una forte influenza sulle decisioni della ragazza. Perfino la prospettiva di diventare una guerriera esperta la intrigava, ma era consapevole della sua minore prestanza fisica rispetto a… be’, praticamente a chiunque, in Superficie, tranne forse gli halfling e gli gnomi o altre razze di piccoletti. Kore raggiungeva a stento i cinque piedi d’altezza per cento libbre di peso, era decisamente più minuta del fratello e sapeva che non avrebbe mai potuto fare affidamento sulla forza fisica o sulla stazza. Era fin troppo entusiasta del suo progetto di imparare a usare trucchi e inganni per avere la meglio sugli avversari, per superare i suoi nemici in astuzia. Duv ogni tanto si chiedeva se non fosse una cosa innata nella sua natura di drow. La maggior parte delle volte poi scartava quel pensiero come uno sciocco preconcetto, eppure il dubbio rimaneva.
Sapeva che Kore non era meschina né malvagia, per lei si trattava di un gioco, e quando si immaginava a sconfiggere i suoi avversari non aveva in mente nessuno in particolare; il suo stile di vita non le aveva ancora procurato dei nemici. Si trattava delle fantasticherie di un’adolescente, e Duv era anche convinto che nella sua mente Kore non immaginasse nemmeno di uccidere. Dopotutto, se i suoi avversari morivano, come avrebbero fatto a sapere che aveva vinto lei?
Quindi sì, Kore stava imparando. Stava affinando il suo talento naturale nel creare illusioni magiche, e stava allenando la coordinazione muscolare per arrivare a muoversi in perfetto silenzio. Purtroppo era ancora molto lontana dall’obiettivo.
In Superficie il lieve rumore che stava producendo sarebbe passato inosservato, ma il Buio Profondo non faceva sconti a nessuno. Laggiú c'erano creature che attendevano, sempre in agguato, pronte a sfruttare ogni minima debolezza.
Duvainion era già in allerta, non a torto. All'improvviso percepì un leggerissimo tremore nella roccia e capì che stava per piovere merda.
Abbandonò la sua usuale furtività e corse via, battendo i piedi per terra in modo più rumoroso del dovuto. Con un po’ di fortuna, il predatore avrebbe seguito lui. Il peso dei suoi passi sulla roccia avrebbe dovuto identificarlo come una preda più grande, quindi più appetibile della fragile e minuta femmina.
Grazie al cielo il verme purpureo sembrò pensare la stessa cosa.

“Mi dispiace, Duv” mormorò la ragazza qualche minuto dopo, guardandosi i piedi. “Non pensavo di aver fatto tanto rumore.”
“Non preoccuparti. Imparerai.” La rassicurò lui, guardando con immenso sollievo il gigantesco verme che si rituffava nella terra. Alla fine rimase solo un mucchietto di roccia smossa (digerita) a testimoniare il passaggio della bestia.
“Come sei riuscito a mandarlo via?”
Il mezzodrow si concesse un sorrisetto soddisfatto. La ragazza lo guardava con occhi spalancati, colmi di meraviglia. Lui si crogiolò per un po’ in quell’ammirazione, perché era convinto che la sua intelligente sorellina sarebbe presto stata una sua pari, quindi voleva godersi quelle lusinghe finché c’erano.
“Non stai imparando anche tu come influenzare gli animali e far sì che si fidino di te?” la imbeccò.
Lei boccheggiò per un paio di secondi, mettendo a confronto quello che stava imparando a fare con quello che aveva appena fatto lui.
Io riesco a convincere i gatti a farsi prendere in braccio, e neanche sempre.” Sussurrò, scuotendo la testa.
Duvainion sorrise, questa volta un sorriso aperto eppure con un che di misterioso.
“Allora lascia che questo viaggio ti apra la mente.”
Percorsero il resto della strada in silenzio, anche se non più in un clima di paranoia; un verme purpureo, gentilmente indirizzato verso prede più succulente, poteva fare miracoli per sgomberare una regione da potenziali nemici.

“Siamo quasi arrivati” annunciò l’esploratore, qualche ora dopo.
Kore immaginava che dovessero trovarsi da qualche parte sotto la Grande Foresta. Duv sapeva tutto quello che riguardava la Grande Foresta, e la sua conoscenza si estendeva anche al Buio Profondo sotto di essa, o almeno così sembrava a lei. In realtà non c’era limite alle cose da sapere o da scoprire in un territorio così vasto, ma la ragazza era giovane e naive. Per lei la Grande Foresta era come un’unica entità, un unico luogo, poco importava che fosse grande quanto un regno umano di dimensioni rispettabili.
“Quanto siamo scesi?” Gli domandò ad un certo punto, perché negli ultimi giorni aveva avuto l’impressione di scendere all’infinito.
“Non molto.” La rassicurò lui. “Un miglio e mezzo sotto il livello della pianura, circa. Ti sembra di più perché la discesa è stata lunga.”
Kore mugugnò, pensando alla risalita che sarebbe stata ancora più lunga.
“Mi chiedo se…” mormorò, pensando ai suoi progetti futuri. Era autunno, e aveva avuto il permesso di lasciare la locanda di sua madre per qualche mese, per andare a trovare suo padre. A patto che stesse attenta. “Non conosco bene il Buio Profondo in questa zona, è possibile viaggiare senza tornare in Superficie?”
“Non essere sciocca.” La rimproverò il fratello, seccamente. “Queste zone sono molto pericolose, siamo vicini a una città drow.”
“Eryndlyn?” Domandò lei, cercando di mantenere un tono casuale.
Eryndlyn?” Sbuffò lui, incredulo. “Kore, siamo entrati dalle Colline Forlorn e poi ci siamo diretti a nord-est, tu cosa ne dici?”
La ragazza ci rifletté su per qualche attimo; vero, erano proprio scesi nel sottosuolo a partire da una grotta che si trovava sulle brulle e pericolose Colline Forlorn. Aveva sperato che si fossero spinti un po’ a sud, invece no. In quella zona, in Superficie, c’erano le propaggini meridionali della Grande Foresta. Ma nel Sottosuolo c’era…
“Hm. Ched Nasad?” storse il suo piccolo grazioso nasino, pensando di avere indovinato.
Duvainion si limitò ad annuire.
Hm, Ched Nasad.” Confermó lui, facendole il verso. “Fai un favore a te stessa, non avventurarti da sola se hai così poco senso dell'orientamento.”
Kore mise il broncio e per il resto della strada non gli rivolse più la parola. Tutto sommato era un bene.

Meno di mezz’ora dopo, finalmente Duvainion le fece cenno di fermarsi. Con un gesto della mano le indicò una cosa per terra, una massa di sostanza informe dal colore grigiastro... ma qualsiasi cosa aveva un colore grigiastro grazie alla loro vista soprannaturale: potevano vedere al buio, ma solo in bianco e nero.
“Che cos’è?” Sussurrò la ragazza, che non aveva mai visto niente di simile. “Una melma?”
“No, è… era un pezzo dell’Araumycos.”
“Un pezzo di che?”
Duv sorrise e le fece cenno di seguirlo oltre una svolta. S’infilarono in una galleria troppo stretta per allargare le braccia, e che in origine forse era molto lunga. Ora non più: si interrompeva dopo pochi passi, bloccata da una parete irregolare e molto strana.
Avvicinandosi, Kore si accorse che non era affatto pietra, ma una sostanza grigia e dall’aspetto spugnoso.
“Ma che è? Si può toccare?” Domandò, spostando lo sguardo da quella cosa a suo fratello.
“Te l’ho detto, è l’Araumycos. Si tratta di un fungo.”
Kore gli lanciò un’occhiata scettica.
“Adesso mi prendi per i fondelli!”
“Secondo te ho fatto tutta questa strada per uno scherzo?” Duv non abbandonò il suo sorrisetto saputo. “Questo è un fungo, e si tratta di un unico enorme organismo. Si estende per miglia. Sotto tutta la Grande Foresta. E questa è solo la zona più superficiale, perché si sviluppa anche verso le profondità della terra.”
La giovanissima drow restò a bocca aperta, cercando di immaginare l’enormità di quelle dimensioni.
“Un solo organismo vivente??” Chiese di nuovo, per sicurezza.
Duv ridacchiò della sua innocente sorpresa. “Te lo assicuro. Guarda, puoi toccarlo se vuoi. È innocuo.”
Kore sporse una mano verso la parete grigiastra, curiosa come un gatto, ma si fermò un attimo prima di toccarla.
“Mi hai sempre detto che non c’è niente nel Buio Profondo che sia innocuo.”
Il mezzodrow si strinse nelle spalle. “Diciamo quiescente, allora. Se non lo attacchiamo non ci farà del male. Se provassimo a tagliarlo o a bruciarlo, allora forse metterebbe in campo delle… difese di qualche genere. Io però non ci ho mai provato.”
“Non vedo il motivo di farlo” sussurrò Kore, aggrottando la fronte. “Se ne sta qui e basta, perché dovremmo cercare di distruggerlo?”
“Qualcuno ci avrà provato” suppose lui “per aprirsi la strada o qualcosa del genere. Questo fungo cresce di anno in anno.”
“Sembra…” Kore lo toccò, accarezzando con una mano la superficie spugnosa. “Sarà sciocco, ma sembra un enorme cervello. Per queste curvature che ha. La consistenza però è meno morbida.”
“È interessante che tu l’abbia detto.” Duvainion si appoggiò casualmente contro una parete. “Ci sono teorie sul fatto che sia senziente, almeno fino a un certo punto. Mi piacerebbe che tu facessi un esperimento. Se te la senti, naturalmente.”
“Hm? Mi fido di te, fratellone” affermò con noncuranza, una frase stranissima da sentire in bocca a una drow.
Con qualche giro di parole, Duvainion le disse che cosa voleva farle fare.
Kore rimase interdetta.
“Ah, quindi è a questo che si spinge la curiosità di un druido?” sussurrò.
“Non dire ad alta voce che sono un druido” Duv alzò lo sguardo verso il soffitto della galleria, come se potesse vedere oltre la pietra.
“Siamo un miglio e mezzo sotto la foresta, non credo che possano sentirci” scherzò Kore.
“Sì, ma tu non dirlo comunque. Vorrei continuare a evitare quei rompiscatole degli altri druidi. Loro non capirebbero.”
“Cos’è che non capirebbero, il tuo interesse per il sottosuolo? O la tua idiosincrasia per il lavoro di gruppo?”
“Non odio lavorare in gruppo, sono qui con te adesso, no?”
“Ah, no. Non è lavoro di gruppo, tu vuoi sfruttarmi. Ma io credo che non servirà a un bel niente. Non sono in grado di aiutarti, non ho alcun potere speciale per sviscerare i misteri della mente.”
“Questo lo dici tu. Tuo padre ha poteri telepatici, lo ricordo bene; potresti averli ereditati.”
Kore sentì un brivido spiacevole lungo la schiena.
“Mio padre non ha mai approfondito troppo quei poteri. Sono interessanti, ma se perdesse il controllo in una città come Eryndlyn, che razza di pensieri orrendi sciamerebbero senza controllo nella sua mente? E quindi non ha mai avuto modo di insegnarmi. Io non so nemmeno se ho ereditato quella cosa. Non mi interessa scoprirlo.”
Perché no? Andiamo, Kore, tu hai una mente svelta e curiosa. Non puoi non voler sapere di cosa sei capace.”
“Ma non voglio. Tu… maledizione, Duv, io odio il fatto che mio padre abbia poteri mentali e che sia così paranoico al riguardo. Sai che ogni tanto io e mamma andiamo a trovarlo, e poi cancella i suoi stessi ricordi ogni volta che ci separiamo? Come pensi che mi senta, sapendo che se lo incontrassi per caso non mi riconoscerebbe?”
“Tutti i drow sono paranoici, che cosa ci vuoi fare? Il fatto di sapere o non sapere se hai ereditato i suoi poteri, non cambia il fatto che tu li abbia o no. Pensaci…” Duvainion prese le mani della sorella nelle sue e la guardò negli occhi con grande serietà. “Se deciderai di restare nell’ignoranza e poi di punto in bianco cominciassi a sentire i pensieri della gente, non sarebbe peggio? Non è meglio addestrarsi e imparare a controllare questa capacità?”
“Una capacità che sicuramente non ho nemmeno” Kore storse il naso. “Stai facendo il passo più lungo della gamba.”
“Ma se invece l’avessi?”
“Ah!” La ragazza liberò le mani dalla presa del fratello, facendo un passo indietro. “E per scoprirlo dovrei farmi un viaggio con una sostanza allucinogena!”
“Non sappiamo se sia allucinogena. Ci sono stati casi di bestie del sottosuolo che hanno mangiato pezzi dell’Araumycos. Non è successo niente, tranne in alcuni casi in cui il fungo ha risposto mettendo in atto le sue difese.”
“Che gioiosa prospettiva!” Ironizzò Kore. Tornò vicino alla strana parete organica e accarezzò con interesse le pieghe e le curvature dell’Araumycos. “Al di là del rischio personale, non voglio tagliare pezzi di questa creatura, nemmeno se è migliaia di volte più grande di me. Non sappiamo se senta dolore. Penso che sia un organismo molto antico e merita più rispetto di così.”
“Parli a me di rispetto? Io sono un… quella parola con la d.” Le ricordò lui, con un sorriso rassegnato. “Non avevo intenzione di tagliare pezzi di questo fungo. Ogni tanto si lascia indietro dei residui, come quello che hai visto fuori.”
Kore ripensò a quella massa informe e grigiastra vicino all’imbocco della galleria.
“Ah. Non solo vuoi che mangi un fungo, ma un pezzo di fungo marcio per giunta.”
“Non è marcio! È solo un po’... saponificato. Appena appena. Non si è staccato da molto.”
La giovane drow cominciava a capire che suo fratello ci teneva davvero, a questo esperimento. Sapeva che Duvainion non l’avrebbe messa volontariamente in pericolo, la loro madre l’avrebbe polverizzato se le fosse accaduto qualcosa di brutto.
Forse dopotutto le conveniva accettare. Un favore così grande lasciava spazio a una trattativa.
“Ho sempre desiderato un cat shee” buttò lì. “Anche un gatto fatato è una creatura da trattare con rispetto, ma immagino che siccome sei un… la parola con la d… potresti convincerne uno a diventare mio amico.” Intrecciò le mani dietro la schiena e si sporse verso Duvainion, con un sorriso esagerato e furbetto. “Sai, con le buone maniere. Un po’ come stai convincendo me a fare questa cosa disgustosa per te.”
Il mezzelfo sospirò, perché si stava chiedendo quando Kore se ne sarebbe uscita con una proposta del genere. Lo aveva messo in conto.
“Proverò. Ma non è giusto. Questa cosa che stiamo facendo è anche per il tuo bene.”

Kore stese a terra il suo mantello, ripiegato due volte in modo che fornisse un po’ di difesa contro il freddo della pietra. Si sedette a gambe incrociate, chiedendosi se sarebbe riuscita a mantenere quella posizione, nel caso in cui le cose si fossero fatte selvagge. Ma tanto era convinta che non sarebbe successo niente.
Aveva a portata di mano il suo otre d’acqua, perché Duvainion non era un novizio nell’uso delle sostanze psicoattive e le aveva consigliato di fare così. Trovò una posizione comoda e cercò di calmarsi con qualche esercizio di respirazione, mentre suo fratello sezionava il pezzo di fungo in cerca di una parte, all’interno, che fosse ancora abbastanza morbida e incorrotta.
Alla fine lui tornò, con una strisciolina di micete grande quanto un dito.
Kore lo guardò incerta, per un momento, ma lui le promise ancora una volta che avrebbe vegliato su di lei con la magia e con le sue scimitarre.
La ragazza mise in bocca un’estremità di quella strisciolina e cominciò a masticare. Era spugnosa, un po’ più dura di come appariva il fungo più grande. Si aspettava che rilasciasse dei liquidi nella sua bocca ma invece fu il contrario, quel boccone poroso catturava la sua saliva lasciandole la bocca secca. Kore continuò a lavorare di denti, sorbendo un sorso d’acqua ogni tanto. Finalmente, un po’ alla volta, il pezzetto di fungo giunse a saturazione e Kore si trovò a masticare qualcosa di più elastico. Presto la pressione dei suoi denti cominciò a far rilasciare dal fungo la sua stessa saliva mista a… qualsiasi sostanza ci fosse in quell’organismo.
Sapeva di antico. Al gusto non era simile a nulla che la ragazza avesse mai provato, ma la sensazione ricordava il sapore della terra umida, delle foglie secche, del legno di alberi ancestrali… ma diverso. Dopo un po’ ebbe la certezza di stare masticando ossa, ma erano ossa così antiche da essere diventate morbide.
Una parte della sua mente notò che questa cosa non aveva senso, le ossa non diventano morbide, ma quella piccola voce venne messa in un angolo e dimenticata. Kore continuò a masticare per automatismo. Era certa di stare mangiando tutti i funghi del mondo, anzi, forse stava mangiando tutte le cose vive che esistevano su Toril. Era giusto farlo? Il dubbio la fece sentire un po’ colpevole.
Poi qualcosa scattò. Come se una parete nella sua mente fosse stata sfondata, all’improvviso lei non era più lì, non era più Kore. Era estesa, immensa, sentiva le pareti di roccia contro il suo corpo, la circondavano e la tenevano costretta, ma lei trovava sempre nuovi modi per espandersi, in cerca di spazio, di vita, di grandezza. E poi un momento dopo divenne ancora più espansa. La sua mente era tutto il suo enorme corpo, ma era anche di più. Divenne improvvisamente consapevole della posizione di ogni fungo, senziente e non, sopra e sotto la superficie del mondo. Sentiva i grandi miconidi che cantavano lentamente le loro litanie telepatiche, in pace nelle loro ordinate tribù; sentiva gli immensi, luminosi funghi del Buio Profondo, percorsi dallo zampettio di ragni e lucertole; sentiva perfino i minuscoli finferli che crescevano all’ombra delle conifere della Grande Foresta, cullati dalle tenui vibrazioni dei passi degli elfi. Non poteva vederli, ma sapeva, sapeva per istinto quale fungo era quale, eppure erano tutti uno. Una mente alveare, perfino per quelle creature che una mente non l’avevano. Kore - o quello che era in quel momento - sentiva di essere come una immensa rete nervosa, il suo senso del tatto era l’unico senso, ed era l’unico che importava.
Poi l’immensità di quella sensazione fu semplicemente troppo, si stava allontanando da quello che era in origine e da quello che una mente singola poteva concepire. Il suo naturale istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e la sua mente chiuse i battenti.
All’improvviso fu tutto… non buio, perché comunque non aveva più il senso della vista, ma fu tutto più ovattato. La sensazione di unità con il mondo c’era ancora, ma aveva il sapore di un sogno. Kore all’inizio cercò di aggrapparcisi ma presto iniziò a perdere la presa, e alla fine lasciò perdere, troppo stanca per lottare contro sé stessa.

Duvainion vide sua sorella rivoltare gli occhi all’indietro e perdere i sensi, appoggiandosi pesantemente contro la parete di roccia alle sue spalle. Si lanciò su di lei, aprendole la bocca per farle sputare subito il pezzetto di Araumycos. L’ultima cosa che voleva era che morisse soffocata per errore.
Poi frugò nella sua scarsella, cercando qualcosa che potesse aiutarla a riprendersi. Decise per una fialetta di pozione emetica.

Kore stava facendo sogni confusi e non del tutto sani per una mente umanoide, ma mentre li faceva non riusciva a memorizzarli. Aveva ancora la sensazione di essere in più posti contemporaneamente, sentiva che c’era qualcosa di sbagliato ma non capiva cosa.
Poi una sensazione fisica si fece strada con prepotenza nella sua mente, per la prima volta da molti minuti. Era una sensazione così forte che costrinse il suo corpo a svegliarsi.
Kore aprì gli occhi di getto, si piegò di lato e vomitò una boccata d’acqua. Aveva bevuto metà del suo otre mentre masticava l’Araumycos, non si era resa conto che fosse così tanto. La sensazione di nausea non accennava a passare. Riuscì a mettersi carponi e vomitò ancora, mentre i suoi pensieri finalmente si schiarivano.
“Come stai?” Le domandò una voce gentile.
“Ah! Tu dici ‘come stai?’, ma quello che sento io è ‘non dirlo alla mamma’” scherzò, abbozzando un sorriso. Fu subito spezzato da un altro conato di vomito.
“Che sciocchezza, sono davvero preoccupato per te!” Negò lui.
La drow si ricompose un po’ e lo guardò in faccia. Sembrava sincero.
“Ho visto… no, ho sentito cose. Era tutto molto strano, anzi, alieno. Questo… fungo… è senziente. Cioè, non senziente come noi, ma è senziente in modo diverso. Sente tutti gli altri funghi del mondo, e alcuni di loro sono creature con una mente. E se loro hanno una mente, l’Araumycos come può non essere senziente? Lui pensa… e forse i suoi pensieri sono di seconda mano, ma pensa. E so che può… isolare e prendere in esame quei pensieri. Lui sa che siamo qui. Non gli importa, ma lo sa.” Disse d’un fiato.
“Stupefacente” mormorò Duvainion. “Quando io ho fatto questo esperimento, non ho percepito nulla tranne un fungo spacca-mandibole che sapeva di chiuso.”
Kore boccheggiò, atterrita per quell’esperienza e anche per le implicazioni di quella confessione.
“Non mi hai detto che ci avevi già provato!”
“Lo avresti fatto, in quel caso?”
Kore rabbrividì, e non per l’aria fredda. “No, non l’avrei fatto, perché così adesso ho la certezza che…” non terminò il ragionamento, paralizzata dai suoi timori.
“Che hai dei poteri psionici latenti” concluse suo fratello per lei. “Una giornata di grandi scoperte!”
“Vaffanculo” Kore gli diede un pugno su una spalla, ma non molto forte, perché si sentiva ancora scossa. “Ti è mai importato davvero dell’Araumycos? O era tutta una scusa?”
“No, mi importa davvero” le assicurò il druido. “I funghi sono una delle poche forme di vita simil-vegetale che cresce nel sottosuolo. La tua scoperta mi interessa moltissimo.”
“Maledetto druido” borbottò la drow.
Duvainion si rialzò e le porse una mano. Kore accettò quell’aiuto e si lasciò tirare in piedi. Lui recuperò il mantello e lo allacciò intorno al colletto della sorella, in un gesto pieno di premure.
“Va bene, ma quando torniamo su, non dire la parola con la d.” Sussurrò.
Kore gli permise di sostenerla per le prime ore di cammino, perché si sentiva debole e nauseata. Nel frattempo cercò di tenere lontani il malessere e la paura stilando mentalmente un elenco di parole che iniziavano con la d, con cui suo fratello avrebbe meritato di essere apostrofato.

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Capitolo 19
*** 18. Tree ***


18. Tree


Sotto-genere: romantico
Ambientazione: Forgotten Realms


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1362 DR, Grande Foresta

Adòla era rimasta sola in quei giorni, e si sentiva un po’ abbandonata.
Era una driade, avrebbe dovuto essere abituata alla solitudine. Per moltissimo tempo lo era stata.
Poi però aveva incontrato Duvainion, e qualcosa era cambiato.
Lui era un umanoide, ed era più solitario di un folletto. Era così strano. Singolare, ma anche affascinante.
Quando Duvainion si era stabilito nel suo territorio, lei all’inizio l’aveva evitato con cura, come è giusto per una driade. Lentamente aveva capito che anche lui cercava di evitare lei, e si era sentita un po’ offesa.
Duv assomigliava moltissimo agli elfi della regione, forse la sua pelle era un po’ più scura, ma lei non ci faceva caso; in quanto driade era soggetta a cambi di colore stagionali, mutando come il manto delle foreste decidue. Non era proprio nella posizione di giudicare il colore altrui.
L'elfo era bello, in un modo un po’ spigoloso, ma il suo atteggiamento non era per niente incoraggiante.
Per molto tempo si erano semplicemente evitati. Poi, un giorno, un parassita raro aveva attaccato molte piante di quercia, fra cui quella che ospitava Adòla. La sua sopravvivenza dipendeva da quell’albero, quindi la disperazione l’aveva spinta ad avvicinarsi a Duvainion per chiedergli di contattare gli elfi selvaggi. Forse avevano dei druidi disposti ad aiutarla; lei non poteva allontanarsi molto dal suo albero, si sarebbe ammalata e in pochi giorni sarebbe morta.
Duvainion l’aveva ascoltata, aveva scosso la testa tristemente e si era rimboccato le maniche.
Quel giorno Adòla aveva scoperto che lui non era un ranger o un bizzoso eremita, ma un vero e proprio druido. Aveva curato il suo albero e tutti quelli intorno con qualche semplice incantesimo mirato.
La driade aveva capito finalmente che Duv era una persona gentile, anche se dall’indole solitaria. Non era affatto freddo e scortese come l’aveva immaginato. Solo che aveva un tabù per quanto riguardava gli elfi selvaggi: non li avrebbe contattati, per nessun motivo, e non voleva nemmeno parlare della loro esistenza.
“Sei stato molto gentile”, gli aveva detto quel giorno, sorridendogli con gratitudine e dolcezza.
Lui aveva scrollato le spalle.
“Proteggere gli alberi è un mio dovere. Ma tieni presente che gli alberi prima o poi muoiono. Non posso fermare la morte, fa parte della natura.”
“Un giorno morirai anche tu” aveva ribattuto Adòla. “Non c’è molto che possiamo fare. Ma possiamo fare in modo che sia più tardi possibile, nel rispetto della natura. C’è così tanto per cui vivere.” Sfoderò di nuovo il suo sorriso ammaliante.
“Hm” fu la prolissa risposta.
“Il mondo è meraviglioso” insistette lei.
Questa volta Duvainion l’aveva guardata con un minimo di interesse.
“Se posso essere indelicato, che ne sa una driade del mondo? Non devi restare sempre nei pressi del tuo albero?”
Il sorriso di Adòla sfumò lentamente.
“No, non puoi essere indelicato.” Rispose con voce fredda, nascondendo una smorfia di tristezza. L’elfo aveva proprio colpito nel segno.
“Ti chiedo scusa” aveva balbettato lui, ma la fuggevole creatura era già scomparsa fra gli alberi.

Questo però era accaduto molti anni prima. Da allora, per un lungo periodo, Adòla e Duvainion si erano parlati a stento. La loro convivenza era pacifica, ma non molto fruttuosa.
Poi, un giorno di primavera, lui era cambiato.
Se n’era andato per tre interi cicli di luna, e quando era tornato era diventato qualcosa di diverso. Qualcosa di molto simile a una pianta.
La sua pelle era ruvida e scura, simile alla corteccia di un albero, e al posto dei capelli aveva rametti e foglie.
Adòla era rimasta senza parole. Non aveva mai visto un umanoide trasformarsi volontariamente, e in via definitiva, in una creatura vegetale. Nemmeno un druido.

In qualche modo la sua trasformazione lo rese meno alieno ai suoi occhi, più accessibile.
Andò a parlargli, per chiedergli i motivi della sua trasformazione. Sotto sotto però lo aveva già capito: lui si sentiva un figlio della foresta, come lei, in un modo più completo e totale di come gli elfi dei boschi e gli elfi selvaggi intendevano quella definizione.
Dopo quella volta non ebbe più esitazioni ad avvicinarsi a lui per confrontarsi e fare conversazione. Anzi, scoprirono entrambi di apprezzare molto la reciproca compagnia.

Nel corso dei decenni divennero buoni amici, entrando sempre più in sintonia. Adòla non avrebbe mai creduto che fosse davvero possibile, ma sentiva che si stava innamorando di lui. Di un mortale. Queste relazioni erano solo una leggenda fra le driadi, una cosa di cui le sue compagne ridevano in modo frivolo, ma senza prendere sul serio l’eventualità. Fino a quel momento anche lei ne aveva riso, ma ora il suo sentimento le sembrava sempre più reale ogni volta che andava a trovare Duv.
Poi, di punto in bianco, un giorno lui era scomparso.
E per tornare alla situazione di partenza, Adòla era rimasta sola da qualche giorno. Non se lo aspettava, lui non lasciava quasi mai la sua piccola collina e la sua tana fra le radici dell’albero di fico. A volte si assentava per proteggere il territorio o per curare qualche pianta, ma di solito l’avvertiva prima.
Si sentiva sola e un po’ abbandonata, e dopo una decina di giorni cominciò anche a preoccuparsi che gli fosse successo qualcosa.

Alla fine tornò, fresco come un giunco, come se non fosse successo nulla.
Adòla non prese molto bene il suo buonumore.
“E quindi?” Lo apostrofò, quando lui venne a trovarla alla sua quercia. “Sparisci per giorni e poi entri nel mio territorio senza chiedere il permesso? Che cosa devo pensare, Duvainion?”
Lui sorrise in quel modo un po’ legnoso che lo caratterizzava anche prima di diventare un boschivo.
“Dovevo confrontarmi con altri druidi e con mia madre, che è una strega esperta. Cercavo un incantesimo in particolare e non ero del tutto sicuro che potesse funzionare.”
Lei piegò la testa da un lato, esponendo il profilo del collo aggraziato. Era bella, anche quando era arrabbiata, lui non poté fare a meno di notarlo.
“Ricordo quello che hai detto anni fa sul fatto che il mondo sia bello. All’epoca ti ho risposto molto male, e mi dispiace. Di recente mi sono sentito finalmente pronto a sperimentare incantesimi un po’ più spinti, e quindi ho cercato un modo per…” la guardò incerto, ricordando solo in quel momento che non a tutte le donne piacciono le sorprese. “Uh… sentiti libera di rifiutare… ma sono certo che non ci siano pericoli. Ho trovato un modo per rendere animata la tua quercia.”
Adòla lo fissò con occhi sgranati, in perfetto silenzio.
“In questo modo potrebbe spostarsi” continuò Duv, lanciandosi in una spiegazione tecnica. “Permetterti di esplorare… il mondo, o almeno quella parte del mondo che può sostentare la vita di una quercia. Non puoi andare nel deserto o… o fra i ghiacci… ma sarà meglio che restare nel raggio di trecento passi e vedere solo questo angolo di bosco.”
Anche il suo approfondimento fu accolto da un silenzio attonito. Ormai lui non sapeva più cosa dire, e l’atmosfera stava diventando pesante.
“Tu…” mormorò alla fine la driade, con voce incerta. “Ti sei ricordato un quasi litigio di decenni fa?”
“Non ha mai abbandonato la mia mente” confessò l’elfo, passandosi una mano fra i rametti che aveva al posto dei capelli. “Non per la rispostaccia che ti ho dato, ma per la tua espressione ferita quando l’ho fatto. In tutti questi anni ho pensato a come permetterti di viaggiare dove vuoi. Anche… anche se questo alla fine ti portasse lontano e non ci vedessimo più” concluse, a voce sempre più bassa.
Adòla esitò solo un istante, perché la sua espressione segretamente triste era uno spettacolo così tenero. Poi si lanciò addosso a lui, stringendolo fra le braccia.
“Non andrò lontano!” Gli promise, con le lacrime agli occhi. “Non ho mai visto il mondo e desidero tantissimo farlo! Ma se incanterai la mia quercia io… magari lontano da qui sì, ma lontano da te mai. Io ti amo. Trovare l’amore è quasi impossibile per una driade, come trovare la libertà. E con te, io ho trovato entrambi” declamò, con la sincera passione delle creature fatate.

Duvainion sorrise e ricambiò il suo abbraccio.
“Oh, Adòla, è un vero sollievo sentirtelo dire. Ti amo anch’io, ma non volevo stare con te solo perché condividiamo il territorio e ci siamo abituati l’uno all’altra. Voglio che tu possa viaggiare e vedere il mondo. E sono disposto a spostarmi con te, anche se preferirei rimanere in questa foresta, almeno per un po’.”
La driade rise di pura gioia, con la sua voce leggera come la pioggia. “Tutti dicono che questa foresta sia enorme! Voglio esplorarla dai confini fino al suo cuore, e magari ci vorranno anni solo per questo. Voglio conoscere ogni pianta e ogni animale, e le persone che ci vivono. Be’, non gli elfi, se a te non piacciono.”
Duv scrollò le spalle e si sciolse dall’abbraccio.
“Non importa se mi piacciono o no. Tu mi piaci, e non avrò occhi per nessun altro. Adesso lasciami tentare il mio incantesimo.”

L’elfo scivolò in una profonda concentrazione, riportando alla memoria l’incantesimo per cui aveva meditato quella mattina. Pescare dalla fonte dell’energia della natura era così facile, così giusto. La cantilena gli salì alle labbra facilmente, e il suo corpo cominciò a formicolare dalle palme dei piedi fino alla punta delle dita.
Si avvicinò alla quercia e toccò il suo ampio tronco con entrambe le mani, come se volesse abbracciarlo. La magia fluì nella pianta sotto forma dell’incantesimo Querciaviva, donandole una sorta di coscienza artificiale… ma non innaturale, visto che quella magia gli era stata elargita dalla natura stessa.
Il druido percepì che la coscienza della quercia si stava risvegliando, perché le piante non sono mai completamente inerti o inconsapevoli; sono solo diverse dagli animali. L’incantesimo la stava rendendo solo un po’ più simile a un umanoide, nei comportamenti se non nella forma.
La quercia mosse i suoi rami, poi sul suo tronco si formò una sorta di rudimentale volto.
Duvainion aprì gli occhi.
Davanti a lui non c’era più una quercia, ma qualcosa di simile a un treant.

“Senti ancora il collegamento soprannaturale con questa quercia?” Domandò, perché voleva accertarsi di non aver danneggiato la sua amica driade.
“Sì” risposero in coro Adòla e il treant. Entrambi sentivano il legame.
Entrambi erano pronti per una nuova, anzi per la loro prima, grande avventura.


**********
Nota:
i puristi delle regole potrebbero obiettare che una driade deve avere un legame con una quercia, e un albero per le regole di D&D è un oggetto, mentre un treant è una creatura di tipo Vegetale, quindi non è esattamente un albero. Me ne rendo conto, ma esiste un precedente in Dragon #304 a pagina 64 in cui una driade usa l’incantesimo Liveoak esattamente per questo scopo e funziona. I Dragon Magazine sono materiale ufficiale.

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Capitolo 20
*** 19. Changeling ***


19. Changeling


Sotto-genere: drammatico
Ambientazione: Forgotten Realms


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1348 DR, Bosco di Yuir, Aglarond

La piccola Lilhanket si guardò intorno furtivamente, per controllare di non essere seguita dal famiglio di sua madre. Non era semplice, seminare un serpente in una foresta. Il maledetto rettile poi era bravissimo a mimetizzarsi.
Ragionevolmente sicura di non essere spiata, la ragazzina prese il sentiero nascosto che l’avrebbe portata alla radura di Alderfern. Sua madre non avrebbe approvato. Non aveva mai osato chiedere il suo permesso, ma sapeva per istinto che non avrebbe approvato.
Alderfern non le obbediva, era una delle poche creature di quella regione che non aveva paura di lei, e quindi era interessante. La bambina non aveva mai conosciuto un albero parlante prima di lui, e non ne aveva mai conosciuto un altro. Credeva che Alderfern fosse l’unico treant del bosco di Yuir, o forse del mondo, e lui non aveva mai parlato dell’esistenza di altri suoi simili.
Lilhaket era una changeling, la figlia di una megera verde. Quelle della sua razza andavano incontro a una mutazione durante l’adolescenza, diventando vere megere in una sorta di rituale di passaggio; ma per il momento era ancora una bambina e il suo aspetto era umano. Un osservatore casuale non l’avrebbe saputa distinguere da una normale ragazzina, se non fosse stato per alcuni piccoli dettagli: unghie lunghe e affilate come artigli, particolarissimi occhi di colore diverso.
Quando sbucò nella piccola radura, si avvicinò saltellando al grosso albero in centro. Chiuse il suo occhio dorato, lasciando aperto solo quello verde.
“Il mio occhio è verde come le tue foglie” lo salutò, scherzando.
Il treant spostò lo sguardo su di lei, con flemma. I suoi movimenti erano sempre molto lenti.
“Piccola mia” la salutò lui, mentre un largo sorriso si stiracchiava sul suo tronco. “Sei cresciuta ancora?”
“Io cerco di non crescere, Alderfern” giurò lei, mettendosi una mano sul cuore. “Però cresco lo stesso. Mia madre dice che fra cinque o sei anni sarò abbastanza adulta per diventare come lei.”
“Mia cara bambina” mormorò Alderfern, lento come le stagioni. “Non sarai mai obbligata a diventare come lei. Non sarà facile, ma potrai scegliere.”
“Ma…” Lilhanket scosse la testa, facendo oscillare le ciocche selvagge di capelli neri. “Non mi lascia mai scegliere niente! Si arrabbia e mi fa paura, e mi dice che mi può mangiare e avere altre figlie, se non faccio come dice lei!”
“Non sei sola, piccola mezza-umana. Io sono con te. Potrai rimanere con me… ti posso proteggere da lei. Io sono… antico… e faccio parte della natura. Anche tu ne fai parte… adesso. Ma se cambierai non sarai più tu. Sarai qualcosa di diverso. Sarai...”
“Potente!” Esclamò una voce squillante alla destra di Lilhanket.
La bambina si voltò di colpo, perché aveva riconosciuto quel tono aspro e crudele.
Sua madre li aveva scoperti.

Il fuoco arse per due giorni di fila, consumando lentamente il cadavere legnoso di Alderfern.
Per il primo giorno, Lilhanket non riuscì a trattenere le lacrime. Non solo per il suo amico, ma anche per sé stessa, per la paura che provava, per essere rimasta sola senza nessuno a supportarla e per il suo futuro che sembrava già segnato.
Dopo un po’ la paura cominciò ad anestetizzare la sua mente dal dolore, e con il passare dei mesi Lilhanket fece l’unica cosa che una bambina poteva fare: cominciò a convincersi che tutto sommato andava bene così. Che quello era il futuro che, sotto sotto, voleva. Si arrese, perché altrimenti sarebbe impazzita.
Una parte di lei però rimase umana, e lo rimase per molto tempo ancora.

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Capitolo 21
*** 20. Tavern ***


20. Tavern


Sotto-genere: avventura, comico
Ambientazione: fantasy generico
Nota: questa storia è il sequel di 1. Faun e 4. Goat


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Sinyel amava l’avventura. Aveva l’entusiasmo di un piccolo apprendista scout che sogna di esplorare il mondo mentre gioca nel giardino di casa. Gylas aveva sempre un po’ invidiato questa cosa; sua cugina aveva mantenuto la stessa gioia di vivere di quando erano ragazzini, e adesso che stavano davvero andando all’avventura era come se nulla potesse mettere freno alla sua determinazione.
Né la pioggia, né il fango, né fastidiosi animali parlanti. Perché il vero problema di quel mondo assurdo era che tutti gli animali parlavano. Anche le zanzare. Era terribile cercare di schiacciare una zanzara e sentirsi gridare dietro, con una vocetta sottile sottile: “Mostro insensibile! Sono incinta! Per te è solo una goccia di sangue, con che cuore mi vuoi uccidere per così poco?!”
Gylas all’inizio era entusiasta di quel luogo, ma stava arrivando a odiarlo. Sinyel invece era contenta perché poteva mettere a frutto le sue capacità da guerriera dando la caccia agli animali ‘malvagi’, i predatori carnivori.
Il bardo all’inizio non era davvero sicuro che fossero malvagi, perché dopotutto dovevano pur mangiare… ma quando li avevano incontrati si erano davvero comportati in modo aggressivo e spietato.
Dopo un po' diventava anche noioso dare la caccia a lupi e faine. C'era ben poco che Gylas potesse scrivere in una ballata epica. Non erano neanche lupi mannari, erano soltanto lupi. E le faine in un qualche modo erano perfino graziose. Cattive come il latte rancido ma graziose. Nessuno avrebbe voluto ascoltare una canzone su due sbandati che uccidevano animali.
"Io non so se quello che stiamo facendo è proprio giusto" il bardo cercò per l'ennesima volta di intavolare quel discorso. "Non pensi che anche i predatori abbiano il loro ruolo nella catena alimentare?"
"Potrei dirtelo se fosse un druido" rispose la mezzelfa stringendosi nelle spalle. "Quello che so è che una povera famiglia di conigli ci ha chiesto aiuto perché delle laide faine stanno mangiando i loro cuccioli. Lo capisci che si tratta di proteggere dei bambini?"
"E di affamare i bambini delle faine" controbatté Gylas. "Forse potremmo semplicemente dire loro di andare a mangiare animali meno carini dei conigli. Questo dovrebbe funzionare."
"Stai ancora facendo l'avvocato del diavolo?" Sbottò Sinyel, infastidita. "Oppure mi stai accusando di fare stupidi favoritismi verso animali carini? Quelle faine hanno attaccato anche noi! Hanno cercato di rubarci gli zaini con le nostre ultime razioni di…" s'interruppe, diventando all'improvviso bianca come un cencio.
"Le nostre ultime razioni di carne essiccata che ci siamo portati dietro dal nostro mondo" la aiutò il bardo. "Da una certa prospettiva, tutto il nostro impegno per aiutare gli erbivori di questo mondo sembra abbastanza ipocrita, non credi?"
"Gli animali del nostro mondo non parlavano e non erano senzienti" la guerriera abbozzò una risposta ma non sembrava troppo convinta.
Gylas non aveva voglia di continuare a discutere, trovava già abbastanza divertente aver minato le convinzioni di sua cugina. Era una piccola vendetta per aver dovuto strisciare nel fango e addentrarsi in foreste oscure piene di mammiferi dai denti aguzzi. E per ora non avevano neanche approcciato i serpenti…
Il mezzelfo soppresse un brivido. Non aveva molta voglia di scoprire come funzionava la mente di un serpente. Sperò nel suo cuore che almeno loro non cercassero il dialogo.
Sinyel si chiuse in un mutismo che aveva il sapore della ripicca, e poco dopo cominciò a piovere.
Il bardo si tirò su il cappuccio, con un sospiro mesto, pensando che forse quell'acquazzone era stato mandato dal cielo per punirlo del suo comportamento sgradevole.

Camminavano nella pioggia ormai da mezz'ora quando Sinyel si bloccò di colpo e indicò un punto davanti a loro. Gylas non poteva vedere la sua espressione perché anche lei si era tirata su il cappuccio, però davanti a loro non c'era niente oltre a pioggia, erba e qualche albero.
"Una casa!" Esclamò, al colmo della sorpresa. In quel mondo soltanto le creature mezzo umane come i fauni talvolta vivevano in case artificiali. Anche quelle spesso erano ricavate da vecchi alberi vuoti. Se Sinyel nel aveva visto una costruzione che aveva subito identificato come una casa, allora doveva essere un edificio simile a quelli del loro mondo.
"Sei sicura, cugina? Io non vedo niente…"
"Forse solo uno di noi due ha ereditato la proverbiale vista acuta degli elfi" lo punzecchiò lei. "Ti assicuro che davanti a noi c'è una casa e non è neanche tanto lontana."
"Davanti a noi c'è una macchia di alberi" protestò il bardo, che stava cominciando a preoccuparsi che lei avesse le allucinazioni.
La mezzelfa lo afferrò per un polso e accelerò il passo, trascinandoselo dietro.

Avvicinandosi a quell'edificio che solo lei poteva vedere, Sinyel si accorse che non era veramente una casa. Aveva un largo portone e sopra di esso campeggiava un'insegna. Pioveva troppo ed era troppo buio per poter distinguere qualcosa nella luce cinerea del crepuscolo, però c'erano chiaramente delle lettere incise nell'insegna di legno. Forse non erano neanche lettere in una lingua che lei potesse comprendere.
Ad ogni modo erano troppo stanchi, bagnati e infreddoliti per lasciarsi scappare un'occasione simile.
“Sinyel, ora basta!” Gylas la fermò un istante prima che potesse bussare alla porta. “Questo scherzo è durato anche troppo!”
“Scherzo? Sei tu che scherzi, adesso! La porta è proprio qui davanti a…” l’avventuriera si girò per fronteggiare il bardo, pensando che le stesse giocando un brutto tiro, ma quando incontrò il suo sguardo si accorse che era sinceramente allarmato. “Tu non… non la vedi? Sul serio??”
“Non vedo niente a parte una macchia di alberi. Sinyel, questa sembra proprio una trappola. Un miraggio. Qualcosa vuole attirarci in questa macchia di alberi.”
La mezzelfa sgranò gli occhi, riconoscendo che quel sospetto era molto fondato. Eppure… fino a quel momento non avevano incontrato nessuna creatura capace di una magia così sofisticata.
“Se fosse un miraggio o un’illusione, basterebbe non crederci” ragionò Sinyel. “Potrei provare a toccare quella che vedo come la porta, tu che cosa vedi davanti a noi?”
“Lo spazio vuoto fra due alberi” rispose il bardo, cogitabondo. “Se è in corrispondenza della porta, sembra perfetto per attirarci dentro.”
“Ma se la mia mano passerà attraverso la porta, allora sapremo che è davvero un’illusione.”
“E se qualche creatura invisibile ti afferrasse la mano nel momento in cui passa oltre la porta?” Gylas era fin troppo prudente, quando era spaventato.
La mezzelfa sorrise con leggerezza e fece due passi indietro, un campanello d’allarme che il cugino avrebbe dovuto cogliere.
“Oh, in quel caso… KYAAAA!” Sinyel saltò in avanti e colpì la porta con un calcione. Se ci fosse stata una creatura invisibile pronta ad acchiapparla, si sarebbe presa una bella pedata nelle viscere. Se invece fosse stata una vera porta…

Era una vera porta. Non era chiusa a chiave. Si spalancò con un gran fracasso, andando a sbattere contro le pareti interne.
Gylas rimase senza parole: ora la vedeva anche lui! L’arco della porta, almeno. Ancora non vedeva l’edificio. Riuscì a sbirciare da dietro le spalle di sua cugina: all’interno c’era un grosso stanzone illuminato da una luce calda, come di lanterne. Proveniva un leggero chiacchiericcio, indicando che il posto doveva essere mezzo vuoto. Un anziano oste stazionava dietro a un pesante tavolo bar di legno nero.
“Oh! Gente! È questo il modo di aprire una porta?” Li sgridò il vecchietto, agitando un pugno verso l’alto. Nella mano stringeva uno strofinaccio da cucina.
L’uomo - sempre che fosse un uomo - faceva evidentemente fatica a stare in piedi, si appoggiava con una mano al bancone, e sembrava che fosse intento a pulire boccali fino a un momento prima. Le sue parole suonarono strane alle orecchie dei due mezzelfi, ma il significato arrivò forte e chiaro nelle loro menti. Doveva esserci un incantesimo in atto, uno per comprendere i linguaggi altrui.
“Ah… scusate” Sinyel rimase lì sulla porta, imbarazzata. “Non sapevamo se fosse un vero edificio o un’illusione, perché io lo vedevo e mio cugino no… ehm…”
“Ah, certo, certo” rimuginò il vecchio. "Venite dentro, eh! Non state fuori sotto la pioggia come mammalucchi. Beata gioventù! Ai miei tempi potevo stare sotto la pioggia tutto il giorno, ma poi s'invecchia, eh? Fra cinquant'anni le sentirete tutte con gli interessi, queste camminate sotto la pioggia. Le ossa ricordano!"
I due giovani si guardarono l'un l'altro. Gylas aveva ancora il sospetto che potesse essere una trappola, ma Sinyel lo congelò con un'occhiataccia. Non vedeva una vera locanda da mesi. Lui si lasciò convincere in fretta: pioveva veramente tanto.
Entrarono.
All'interno li accolse un piacevole tepore, come se l'aria fosse magicamente riscaldata e il vento freddo delle pianure non potesse raggiungerli. Perfino la pioggia si fermava sulla soglia, come se sbattesse contro una parete invisibile. Quella barriera però non aveva fermato né Sinyel né Gylas. Il tizio al bancone si rilassò, rivelando solo in quel momento, per contrasto, che fino a un momento prima era contratto per il nevoso.
"Sono a posto, Maude" gridò, e i due percepirono qualcosa che si muoveva alla loro sinistra.
Una creatura alta quanto un armadio si fece avanti dall'ombra. Il suo corpo umanoide era coperto di peli e la testa era quella di un lupo, con una bocca piena di denti aguzzi e abbastanza grande da strappare un braccio a un uomo.
"Benvenuti" ringhiò la creatura, allargando quel ghigno minaccioso. Gylas fece un passo indietro, nascondendosi dietro alla cugina.
Lei se ne accorse e gli schiacciò un piede.
"Ahi! Dai, Sinyel, sei tu la guerriera!"
"Inutile strimpellatore pusillanime" sussurrò lei di rimando "non si può mai contare su di te!"
Prima che le cose si facessero inquietanti, la creatura lupesca si allontanò, camminando verso in bancone con andatura tranquilla e in posizione perfettamente eretta.
"È un lupo mannaro in forma ibrida" mormorò Sinyel, che era abbastanza esperta di creature pericolose. Da bambina adorava le creature pericolose, e aveva fatto molte ricerche. Quando aveva raggiunto una buona conoscenza del mondo e delle sue minacce aveva deciso che era ormai pronta per diventare un'avventuriera.
"Perché indossa un grembiulino?" domandò il bardo sottovoce.
"E che ne so?"
Nel frattempo il lupo mannaro di nome Maude aveva raggiunto il piano bar. "Vado a cambiarmi, Sengo. Torno subito." E sparì attraverso un arco nel muro dietro al bancone, piegandosi in modo scomodo per passare.
L'uomo fece cenno ai due mezzelfi di venire avanti.
"Su, su, ragazzi. Chiudete la porta, eh. Non vogliamo che tutti ci vedano."

Gylas chiuse la porta, chiedendosi se non stesse firmando la loro condanna a morte. E se poi non fossero più riusciti ad uscire?
Sinyel era la più coraggiosa fra i due e si mosse verso il bancone. Il bardo la seguì, guardandosi intorno.
Al primo sguardo avrebbe giurato che fosse proprio una taverna. C'erano due lunghissime tavolate, il cui ripiano sembrava ricavato da un unico gigantesco albero, non erano tanti tavoli più piccoli uniti insieme. Era un tipo di arredamento abbastanza fuori moda, qualcosa che richiamava i secoli passati; ormai si usava che le taverne avessero tanti piccoli tavoli. Quel sistema era più da refettorio di un monastero.
"Sembrate infreddoliti. Qualcosa di caldo da bere?" Propose il vecchio.
"Una tisana."
"Una birra."
Avevano parlato in contemporanea, e l'anziano li guardò un po' sperso, con i suoi occhi ormai deboli.
In quel momento una donnina che ormai aveva passato la mezza età arrivò dal retro portando una serie di ciotole pulite.
"Oh, sei qui, Maude. Una birra per la signorina e una tisana per il giovanotto" ordinò, ripetendo la comanda. "Forse voi ragazzi volete andare a sedervi vicino al camino?"
Per la prima volta, i due cugini diedero una bella occhiata approfondita al luogo. Era uno stanzone molto lungo, con un grosso camino dalla parte opposta rispetto al bar. Sembrava accogliente. Non che al bancone facesse freddo, ma sarebbe stato piacevole avvicinarsi di più al fuoco.
Peccato che le due tavolate fossero occupate da creature che per la maggior parte non avevano nulla di umano. Sinyel contò almeno otto paia di corna e sei code, più due o tre creature che sembravano più morte che vive.
"Qui stiamo benissimo" si affrettò a rispondere.
"A posto così" confermò Gylas.
"Bene, bene" mugugnò il vecchio, mentre la sua collega gli passava un boccale di birra schiumante. Lui l'appoggiò davanti alla guerriera. "Per la tisana ci vorrà ancora un po', eh. Ti piace la liquirizia, ragazzo?"
"L'adoro" mormorò il bardo, meccanicamente, senza più osar guardare né a destra né a sinistra. In realtà non andava pazzo per la liquirizia, ma non aveva nessuna intenzione di mettersi a discutere. Sperava solo di uscire vivo da quel posto inquietante.
"Due giovanotti dal portamento fiero e dal viso pulito" commentò la vecchietta, dando di gomito all'uomo. In realtà, a guardarlo bene, assomigliava più a un mezzelfo che a un uomo, ma la sua pelle era troppo scura. Un mezzo drow? Oppure aveva passato l'estate in un posto molto assolato? "Quali affari possono mai avere due persone così, al Questers' Club?"
"Ma fatti gli affari tuoi, vecchia carampana" la rimbrottò lui, in tono bonario.
"Ah! Sei tu che sei troppo riservato, vecchia mummia" rispose lei, stando al gioco. "È un nostro diritto interrogarci su chi entra nella nostra locanda."
"La locanda li ha lasciati entrare" fu la risposta stringata. "A me basta." Poi si rivolse direttamente ai due mezzelfi: "La tua tisana, ragazzo. Lasciala in infusione ancora un po', eh, non è bollente. Le erbe non fanno lo stesso effetto se l'acqua è bollente, e tu sembri uno che ha proprio bisogno di un revitalizzante. Guarda che pallore! Così su due piedi mi puoi sembrare un morto che cammina, e io ne ho visti, eh! Anche in questa locanda, come no!"
Gylas impallidì ancora di più.
"Ma che… che posto è questo, esattamente?" pigolò.
I due anziani proprietari si guardarono l'un l'altro.
"Siete al Questers' Club, come vi ha detto Maude. E io sono Sengo. Mandiamo avanti la baracca da quando il vecchio Gragug è morto. Pace all'anima sua, gli orchi non vivono molto a lungo, eh! Tutti lo sanno. Lui è vissuto anche tanto. Povero vecchio Gragug. Abbiamo ancora la sua ascia, da qualche parte. Una cosa impressionante, eh! Un umano deve usare tutte e due le braccia per sollevarla come si deve."
"Stai di nuovo partendo per la tangente, Sengo." La vecchia gli toccò un gomito.
"Ah sì, ah sì" l'oste scosse la testa. "Si invecchia, e si ricordano i tempi antichi meglio di quelli recenti. Ma non abbiamo fondato noi il Quester's Club, eh? Nemmeno Gragug. No, un orco che fonda una locanda? Bah! Parola mia, un orco può arrivare ad amare i coniglietti ma non ha la testa di fondare una locanda. È sempre così: quando uno di noi invecchia e diventa incapace di andare all'avventura, diciamo che si piglia in gestione la locanda. È come per continuare a essere utili, eh? Per aiutare le nuove generazioni." Li trapassò con uno sguardo insolitamente acuto. Si aspettava che dicessero qualcosa, forse, ma loro non avrebbero saputo cosa dire. "Questo è un posto per persone che hanno preso una strada sbagliata e vogliono cambiare." Chiarí.
I due ci rifletterono su in silenzio.
Gylas ci arrivò per primo.
"Per questo la taverna è piena di…?" Stava per dire mostri, ma si fermò appena in tempo. Tutt'a un tratto gli sembrava molto scortese.
"Oh, sì. Ma non è che si deve giudicare dall'aspetto. Molti dei nostri clienti sono… sembrano persone normali, eh! Umani, mezzelfi… qualche elfo, e gli gnomi, sì, qualche d'uno. Mai visto un halfling qua dentro. Secondo me chi tiene sempre la pancia piena non ha troppo tempo di complottare brutte cose. E non lo dico perché gestisco una locanda, eh!, ma voi dovreste proprio mangiare qualcosa."
Gylas e Sinyel si guardarono a vicenda, per l'ennesima volta. Lui aveva una mezza idea di chiedere se avessero stufato di capra, ma non voleva turbare la cugina.
"Noi non abbiamo preso una strada sbagliata, almeno non credo" azzardò il mezzelfo, timoroso delle conseguenze. Se li avessero multati, o cacciati, o peggio ancora imprigionati? Se avessero tagliato loro la lingua per fargli mantenere il segreto? Ricordava bene che il vecchio aveva detto 'Non vogliamo che tutti ci vedano'.
"Ci siamo un po' persi, nel senso che non troviamo un modo per tornare a casa" spiegò Sinyel, sperando di migliorare la loro posizione, "ma non siamo mai stati, be', malvagi."
Il vecchio mezzelfo si grattò il mento su cui cresceva una barba rada e patetica.
"La locanda vi ha lasciati passare oltre la barriera, quindi è chiaro che non siete malvagi. Ma è strano che siate riusciti a vederla. Qualcosa minacciava la vostra vita? Si fa trovare, in quel caso."
I due si strinsero nelle spalle in un gesto molto simile.
"No."
"La pioggia era fastidiosa, ma non letale."
Maude gli diede di gomito, come per suggerirgli qualcosa. Lui all'improvviso ricordò un dettaglio.
"Oh, ma la fanciulla non ha forse detto che tu, giovanotto, non riuscivi a vedere l'edificio?"
Gylas annuì, perché in effetti era andata proprio così.
"È chiarissimo, allora" intervenne la lupa mannara in forma umana. Fissò lo sguardo su Sinyel, cercando nel suo viso una conferma della sua intuizione. "Qualcosa turba la tua coscienza, tesoro, oppure voi due siete considerati 'persone che hanno compiuto azioni malvagie' secondo gli standard di questo mondo."
Non aveva ancora finito di parlare, che già Sengo si era sbattuto una mano sulla fronte.
"Animali parlanti!" Sbottò. "Sbaglio, giovani?"
"Be'... Animali parlanti" confermò Sinyel. "E sì, mi sento davvero una cacca per aver mangiato carne in passato, e…"
"Odio questo fottutissimo mondo!" La interruppe il vecchio. "Pieno di muffin canterini e vuoto di buonsenso."
Sinyel rimase senza parole, Gylas mormorò "Muffin canterini?" senza troppa convinzione.
"È un modo di dire" borbottò Maude. "Sengo non ama questo mondo. Io lo detesto. Perché i predatori come i lupi e le volpi e perfino i gatti vengono colpevolizzati per quella che è solo la loro natura, e si sentono dire così spesso che sono malvagi che poi finiscono per crederci. Quelli che riescono, scappano su altri mondi. Se avete mai sentito leggende su lupi parlanti che ingannano i bambini… vengono tutti da questo mondo. Ma non è facile, perché non ci sono molti Portali. E non sono mai stabili, si attivano e si disattivano a caso. La gente ci casca dentro quasi per errore."
I due mezzelfi ascoltavano avidamente, a occhi spalancati. "Ma quindi…" ragionò il bardo, "questa locanda di solito non si trova su questo mondo?"
"Eh! È una locanda interplanare, figlioli miei." Raccontò l'oste. "Bevi la tua tisana, giovane, che si fredda."
Gylas e Sinyel accolsero quella rivelazione in silenzio attonito.
"Potete portarci a casa?" Domandò Sinyel.
"Vi prego! Vi prego!!" Implorò il bardo.
I due anziani s'irrigidirono, a disagio.
"Non è così che funziona, figlioli" a Sengo si afflosciarono le spalle. "La locanda non lo consente. Si esce da dove si entra. Se si spostasse su un altro mondo, restereste bloccati qui finché non torna in quel posto del cavolo."
"A volte compare contemporaneamente in due luoghi dello stesso mondo, e nemmeno in quel caso si può decidere dove uscire. Sì esce da dove si entra" confermò Maude. "A meno che non facciate parte dello staff."
I due avventurieri si scambiarono un'occhiata molto consapevole.
"Ero giusto in cerca di un impiego" affermò Gylas.
"Adoro pelare patate" mentì Sinyel.
Sengo si lasciò sfuggire uno sbuffo che era chiaramente una risatina camuffata.
"La locanda deve accettarvi e riconoscervi come membri del personale" chiarí, in tono paziente e quasi dolce. "Significa lavorare qui per tutto il periodo di prova, che è di un anno, un mese e un giorno."
"È chiaro che se rimanete su questo mondo, potreste anche non riuscire ad andarvene mai" spiegò la licantropa, "ma lavorare qui non è uno scherzo. I nostri clienti non sono mai battaglieri, ma alcuni sono depressi. Si ubriacano e poi bisogna trascinarli in una stanza. C'è sempre, e dico sempre, del vomito da pulire. E potreste vedere creature spaventose e dover ascoltare i loro racconti raccapriccianti. Qui non arrivano solo onnivori che si sentono in colpa. Arrivano anche persone che hanno compiuto genocidi e trucidato bambini. Noi cerchiamo sempre di non giudicare, perché questo è un posto sicuro… e quando vi verrà naturale farlo, ricordate sempre che le persone che entrano qui si stanno già giudicando da sole. È un lavoro emotivamente pesante."
"È emotivamente pesante anche vivere in mezzo ai muffin canterini" replicò Gylas, riprendendo la definizione del vecchio locandiere. "Sinyel si sentiva sempre più in colpa per una cosa di cui a me, detto fuori dai denti, non frega niente. Ma mi fa male vederla in preda ai tumulti emotivi."
"Tu devi essere un bardo" scherzò il vecchio, appoggiandosi al bancone con entrambi i gomiti.
"L'hai capito dalla mia favella? O dalla mia spiccata sensibilità?"
"Dal liuto legato alla tua schiena."
Gylas sorrise, perché capí che doveva essere una battuta. Il liuto era lì fin dall'inizio.
"Allora, c'è lavoro per noi?" Insistette Sinyel. "Siamo mezzelfi, possiamo sacrificare un anno, se è per tornare a casa."
Maude ci pensò un attimo, poi annuì.
C'era sempre lavoro per due paia di braccia in più.

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Capitolo 22
*** 22. Doppelganger ***


22. Doppelganger


Sotto-genere: nessuno
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: questa storia è il prequel di Per sempre felici e contenti


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1372 DR, secondo giorno di Mirtul, città di Waterdeep

Il bardo si muoveva furtivo fra le stradine della periferia di Waterdeep, ben consapevole che ogni paio d'occhi puntato nella sua direzione poteva appartenere a un nemico.
D'altro canto, anche se i suoi alleati l'avessero visto in una situazione così equivoca non avrebbero lasciato correre facilmente.
Non era stata una scelta facile nemmeno per lui, per la sua etica, però ormai la decisione era presa, e non voleva più pensarci. Dover dare spiegazioni ai suoi compagni Arpisti l'avrebbe costretto a rimettere in discussione tutto il piano, e quindi era meglio non trovarsi nella situazione di doversi giustificare.
Ciò che i suoi colleghi non sapevano, non poteva ferirli.

Il doppelganger aveva rubato l’identità di uno scagnozzo di un piccolo boss della malavita locale, ma il suo vero aspetto si stagliava netto e chiaro oltre il velo della metamorfosi, per qualcuno che aveva il potere di vedere il vero aspetto delle cose. Qualcuno come Simkin, il cantore girovago. Il corpo del doppelganger era più alto della sua forma umana, il viso era privo di lineamenti, con una sorta di becco accennato al posto della bocca. La pelle del corpo era grigia, apparentemente viscida, come la pancia di un pesce. Probabilmente l'organizzazione segreta di doppelganger, su cui il bardo non stava indagando, aveva interesse a infiltrarsi in quel particolare mercato. Forse quel gruppetto di banditi da quartieri poveri stava per ricevere un'offerta che non poteva rifiutare, o forse i doppelganger volevano solo sfruttarli a loro insaputa… ad ogni modo non erano affari suoi.
Simkin sapeva che c'era ben più di un doppelganger a Waterdeep... ma gli altri, quelli più importanti, vivevano in zone della città a cui lui non aveva accesso. C'era un antico incantesimo che impediva a quelli come lui di passeggiare indisturbati per le vie del centro.
Grazie agli dèi - anzi, grazie all'operosità degli umani - la città nei secoli si era espansa ben oltre i limiti di quella protezione magica.

Si avvicinò al criminale di bassa lega e gli allungò un sacchetto di monete. Un necessario obolo da pagare anche solo per parlare con lui.
L'uomo tozzo e lercio soppesò il sacchetto in una mano, poi lo aprí. Il luccichio dell'oro era inconfondibile anche alla luce della luna.
L'uomo, che in realtà era un doppelganger, spalancò gli occhi. Non era abituato a essere pagato così tanto.
"Il signor Truble vi riceverà con la massima urgenza" promise, con un sorriso mellifluo.
"No” lo fermò l’Arpista in incognito. “Non è con il signor Truble che voglio parlare, chiunque egli sia. Ho un’offerta da fare direttamente… al signor Sanjakilar degli Invisibili.”
Recitare queste parole e trovarsi un coltello puntato alla gola fu un tutt’uno. Simkin alzò le mani in un gesto conciliante.
“Calma, calma… non sono un nemico. Sono qui per affari.”
“Affari con chi e per conto di chi?” sibilò il doppelganger, con una voce che sembrava troppo sottile per la sua forma umana grassoccia.
“Mi manda un certo Signor Finnegan.”
“Che? Floyd Finnegan, il mercante che ha bottega vicino alla Casa degli Eroi?” domandò, facendo riferimento a un tempio nel quartiere del mare.
Simkin per un attimo fu preso in contropiede. “No. Un altro Finnegan. Non è di Waterdeep.”
“E cosa può volere dagli Invisibili uno che non è di Waterdeep… ammesso e non concesso che io sappia come contattare questo signor Sanjakilar?”
Simkin sorrise, nonostante il pugnale così vicino alla sua gola.
Voi siete il signor Sanjakilar, riconoscerei quel colorito grigio pallido fra mille doppelganger.” Scherzò. Non era vero, naturalmente, perché i doppelganger sono tutti uguali, ma Sanjakilar era riconoscibile per una cicatrice sul dito indice della mano destra.
Il corpo temporaneamente umano del doppelganger arrossì di rabbia e aprì e richiuse la bocca a vuoto per qualche secondo. Simkin era quasi certo che stesse per bucargli la gola in un impeto d'ira.
"Non mi rivolgo agli Invisibili per chiedere un favore che riguarda la città, ma solo perché so di avere qualcosa da offrire qui in città. Magari la proprietà di un edificio nel Quartiere del Castello, a due passi da Castel Waterdeep e con un’ottima vista sul bordello La Casa del Piacere di Mamma Tathlorn? Giusto per tenere d’occhio chi viene e chi va.”
Sanjakilar deglutì e abbassò leggermente il coltello.
“Quelle case costano un occhio.”
Il bardo sorrise apertamente, ma non era un sorriso allegro.
“Una volta ho davvero pagato un occhio, è un prezzo che non mi spaventa. Che ne dite di… la chiave adesso, l’atto di proprietà a fine lavoro? Sempre che io riesca a parlare con il signor Sanjakilar.”
“Il signor Sanjakilar vi ascolterà, ma dipende dall’entità del lavoro.”
Il pugnale si allontanò dal suo collo e Simkin seppe che per il momento era al sicuro: avrebbe almeno ascoltato la sua richiesta, e aperto una trattativa.
“C’è una fanciulla in un castello che necessita di essere salvata. Lo chiederei a un eroe, ma poi pretenderebbe la sua mano.” Scherzò. “Ella invece è già promessa, per così dire.”
“Al signor Finnegan?” ironizzò il doppelganger. Probabilmente non lo riteneva un signore, se mandava un intermediario a trattare con un doppelganger per fare un lavoro 'eroico', che di norma qualsiasi uomo dabbene avrebbe voluto fare in prima persona.
Sinkin si strinse nelle spalle.
Non avrebbe accettato giudizi morali da una creatura laida e codarda che non osava nemmeno vivere nei propri veri panni.

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Capitolo 23
*** 21. Weapon ***


21. Weapon


Sotto-genere: azione
Ambientazione: Sigil


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129 HA, Città extraplanare di Sigil

L’arena della Fossa Insanguinata, dalla strada, non assomigliava a una vera arena; una serie di magazzini dall’aria poco interessante nascondeva la struttura ad anello in cui si svolgevano i combattimenti. L’arena vera e propria era una struttura a pianta circolare che poteva ospitare centinaia di spettatori, e il vero scopo di quel luogo era il segreto peggio custodito della città di Sigil.
Si svolgevano diversi generi di incontri, alla Fossa Insanguinata; alcuni all’ultimo sangue, altri no, altri ancora nominalmente non avrebbero dovuto essere mortali ma poi nella realtà dei fatti lo erano.
Il piccolo goblin era finalmente riuscito ad avere un aggancio per entrare nell’arena. Uno gnomo chiacchierone e lurido di nome Felgar lo aveva stordito di pettegolezzi inutili, ma si era fatto offrire quattro birre prima di scucirsi la bocca su come accedere ai combattimenti.
No, non come spettatore.

Steekaz era un rispettabile cittadino di Sigil, una città in cui viveva da sei anni e che era giunto ad amare moltissimo. O meglio, ci si divertiva un sacco. Aveva perfino un lavoro e degli amici, più o meno. Lui li considerava la sua tribù, perché aveva perso la sua tribù di nascita.
Poco male, era composta per la maggior parte di imbecilli cacasotto.
Il piccoletto non era un imbecille e nemmeno un codardo. Il suo sogno nel cassetto era diventare un grande guerriero.
Era un’aspirazione strana per un goblin, la sua razza non eccelleva nel combattimento faccia-a-faccia, di solito i goblin trovavano il coraggio solo quando sapevano di avere la superiorità numerica (quelli di loro che sapevano contare), o quando credevano che la preda fosse molto più debole di loro. Steekaz doveva essere nato con qualche stortura, o così gli diceva sua madre, perché fin da bambino aveva voluto diventare l’eroe e il capo della sua tribù.
Certo, un eroe per la mentalità goblin non è necessariamente un individuo di buon cuore… ma voleva essere la persona capace di portare la sua gente a una maggiore prosperità e sicurezza, aprendosi la strada con le armi fra i molti nemici del suo popolo.
Non aveva avuto molte occasioni di addestrarsi nell’arte bellica quando viveva con i suoi parenti in un complesso di caverne sotterranee. L’unico vero guerriero era un prepotente hobgoblin che aveva sconfitto il precedente capo e aveva cominciato a governarli con il pugno di ferro. Lui però non avrebbe mai insegnato ai suoi servi goblin a combattere come si deve, per paura di una ribellione.

Steekaz era finito a Sigil quasi per sbaglio. La sua tribù aveva attaccato dei viaggiatori che si erano stupidamente inoltrati nel loro territorio, ma quelli non erano degli sprovveduti, e avevano iniziato ad abbattere i goblin uno dopo l’altro.
All’epoca Steekaz aveva nove anni, era piccolo perfino per gli standard della sua razza, ma non si era tirato indietro dalla lotta. Era corso incontro ai nemici con una spada arrugginita e una pentola in testa.
Capiva molto poco la lingua comune del sottosuolo, ma era chiaro che quei viaggiatori l’avevano deriso. Uno di loro gli aveva messo intorno al collo una corda con appesa una chiave, non per reclamarlo come schiavo, ma per addobbarlo come una donna vanitosa, in segno di scherno.
Steekaz non si era mai sentito così umiliato. Aveva provato ad uccidere quegli stronzi, ma semplicemente non era all’altezza. Allora, ingoiando l’orgoglio e il risentimento, era scap… si era ritirato per motivi tattici.
Nella sua fuga era caduto nell’imboscata di una belva distorcente e per poco non era stato catturato e divorato. A quel punto era successo il miracolo: la chiave che portava al collo si era illuminata e accanto a lui si era aperto un Portale.
Per la disperazione, il piccolo goblin ci si era tuffato dentro. Per quanto ne sapeva avrebbe potuto portarlo dritto fra le fauci di un otyugh… ma tanto, se fosse rimasto dov’era, la belva distorcente l’avrebbe mangiato comunque.
Il Portale l’aveva scaricato nel seminterrato polveroso di una casa sconosciuta. Una donna umana con la pelle scura e occhi chiarissimi l’aveva accolto sparandogli addosso un incantesimo paralizzante. Quando si era accorta che era solo un piccoletto disarmato l’aveva liberato dall’incantesimo, ma Steekaz non era stato molto collaborativo: aveva cercato di scappare senza dare spiegazioni, cosa che alla donna non era andata molto a genio. Alla fine, con le buone o con le cattive, lei era riuscita a tenerlo lì e a interrogarlo sulla sua provenienza.
A Steekaz veniva da ridere, a ripensarci. Adesso quella donna, Amanita Bellisgar, era la sua migliore amica, nonché socia in affari nella loro piccola agenzia di import-export e consegne interplanari.
La chiave che lui aveva avuto in dono quasi per scherzo si era rivelata… non esattamente una chiave planare, ma una componente di una chiave planare in tre parti: il cordoncino di cuoio, un catalizzatore di metallo, e la morte imminente del suo portatore. Dei tre elementi, solo il cordoncino era assolutamente insostituibile. La chiave in ferro battuto alla fine era solo una normalissima chiave.
L’oggetto aveva il potere di riportare il suo portatore a Sigil, in particolare nella cantina di Palazzo Endamion.
Era lì che ora Steekaz viveva, insieme ad Amanita e agli altri fattorini della Goblal Hexploring. Un palazzo in grande stile, bellissimo, con ampi spazi… per uno gnomo. Perché il fu signor Endamion, padre adottivo di Amanita, era uno gnomo.

Steekaz avrebbe preferito avere una casa propria. I costi per un alloggio a Sigil però erano assolutamente proibitivi, com’è ovvio in una città che non poteva espandersi.
Ora sperava di guadagnare abbastanza con i combattimenti, da arrotondare il suo stipendio da fattorino ed esploratore. Era convinto che un giorno si sarebbe imbattuto in un grande tesoro, da qualche parte su qualche Piano remoto, ma fino ad allora… avrebbe dovuto raggranellare soldi dove poteva.
Per di più, non vedeva l’ora di mostrare la sua prodezza come guerriero.
Doveva solo partecipare alla mischia e sconfiggere il campione in carica, il famigerato Plio Largaspada.



La grande mischia sembrava pensata apposta per calpestare i sogni di un giovane goblin, nello stesso modo in cui un grosso bruto mezzo-bugbear gli stava calpestando una mano.
Steekaz aveva la vista annebbiata e gli girava la testa a causa delle troppe botte. La città sembrava essersi girata al contrario, poi si ricordò che era caduto per terra e che si trovava a Sigil, quindi era normale che vedesse delle case al posto del cielo; la città fatta a ciambella si ripiegava su se stessa. Era strano però, vedere il suo piccolo mondo da quella posizione. Lui di solito cercava di non guardare mai in alto.
Un lucertoloide venne spinto a terra e gli cadde proprio addosso, e il piccolo goblin smise di vedere le case. Perse conoscenza di nuovo, sognando nel dormiveglia un guerriero minuto e indemoniato che mulinava una spada grossa quanto lui.

Plio Largaspada. Si sprecavano le battutine sul suo nome, anche Steekaz credeva che fosse un modo per compensare qualcos’altro. Adesso che l’aveva visto in azione non faceva più battutine.
Anzi, vista. Il guerriero più temuto della Fossa Insanguinata era una femmina di goblin, una cosetta anche più piccola di lui, con la pelle verde pallido e fluenti capelli rosa confetto.
Steekaz l’aveva vista da lontano, fra gli altri partecipanti alla mischia, e si era innamorato all’istante. Poi un fischio aveva decretato l’inizio della mischia. Lei aveva indossato un elmo sciccoso e aveva iniziato a roteare una spada enorme come se fosse un bastoncino da giocoliere, e Steekaz si era innamorato di nuovo.
L’amazzone goblin falciava nemici a destra e a manca, con il piatto della lama quando poteva, ma una o due volte i suoi avversari l’avevano messa alle strette alleandosi contro di lei, e la guerriera aveva dovuto far saltare qualche dito. Mirare all’impugnatura delle spade era il modo più veloce per far perdere la presa ai nemici.
Steekaz avrebbe voluto avvicinarsi abbastanza da ingaggiarla in combattimento. Voleva dimostrare il suo valore. Purtroppo c’era una marea di corpi in battaglia fra loro due, e lei continuava a spostarsi, rapida come uno sveltelfo.
Il piccolo goblin si sentiva parecchio stupido a maneggiare una spada lunga, doveva reggerla con entrambe le mani perché non era abituato al suo peso. Lui era più un tipo da coltelli nelle maniche, ma non era uno stile di combattimento onorevole e nemmeno scenico. Voleva fare una buona impressione durante la sua prima mischia.
Perseverò nella sua danza di parate e affondi con la caparbietà di un caprone. Era ben deciso a non farsi fermare da nulla… ma il grosso pugno di un genasi della terra, dritto sulla sua grossa testa goblin, mandò all’aria i suoi buoni propositi.

E così, Steekaz era finito a terra, a guardare per aria con espressione vacua, finché un lucertoloide non gli era caduto addosso.
Qualche tempo dopo era stata annunciata la fine della caotica battaglia, e i sopravvissuti si erano ritirati, pesti e doloranti, alcuni dopo aver discretamente depredato i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta.
Solo il vincitore era stato premiato, o meglio premiata, con cinquecento jink, una cifra tale da ingolosire gli altri partecipanti ma non abbastanza da rendere qualcuno davvero ricco.
Il piccolo goblin grigiastro si allontanò mogio mogio dall’arena, pensando a quanta fatica gli era costata trovare l’accesso a quel paradiso proibito.
Stavolta è andata così, pensò, prendendo a calci un sasso, ma la prossima volta farò meglio.

Nel frattempo la campionessa in carica era uscita dall’arena, Steekaz la vide camminare in mezzo alla folla. Indossava ancora l’armatura, ma non l’elmo, e il suo faccino simmetrico era chiaramente visibile. Steekaz non aveva mai visto una femmina di goblin così armonica. La sua testa era enorme, su un collo che sembrava fragile. Le orecchie a punta si allungavano in orizzontale, non verso il basso come quelle di Steekaz. Cercò con tutte le sue forze di non guardarle il petto, perché aveva paura che lei se ne sarebbe accorta e l’avrebbe picchiato. Invece, continuò a fare paragoni nella sua mente: gli occhi della ragazza erano di un colore ambrato, quasi arancione, non di un giallo violento come i suoi. Forse lei non poteva vedere al buio, come lui. Steekaz era un goblin del sottosuolo, dopotutto, e il suo colorito grigio lo tradiva. Lei invece aveva la pelle di un verde pastello che non si era mai visto nei goblin del Faerun, ma la punta del naso e delle orecchie erano rosa come i suoi capelli. Quella chioma rosa chiaro era un altro mistero, probabilmente la tingeva con qualche polvere. Un gesto di vanità molto strano per una goblin. Il suo portamento però era tutt’altro che frivolo; da come camminava e da come combatteva sembrava una tipetta pragmatica.
Steekaz la seguì con lo sguardo, pensando che forse la prossima volta sarebbe riuscito ad arrivare a scontrarsi con lei.
Un gruppo di persone la circondò in fretta, e dal linguaggio del corpo lui capì che dovevano essere suoi amici. Qualcuno indicò una taverna, la House of the Griffin, e tutti acclamarono con entusiasmo. Era un luogo ben noto per le frequenti risse da bar.
Il piccolo goblin decise che tutto sommato non era una cattiva idea, avrebbe potuto seguirli e concedersi una birra. E no, non era assolutamente un comportamento inquietante. Voleva solo sciacquarsi la bocca dal sapore del sangue e della polvere.

La taverna era già in piena attività, e già all’altezza del suo nome. Griffin, la proprietaria, si muoveva fra i tavoli servendo le bevande del tutto incurante dei piccoli focolai di guerriglia che stavano nascendo. Qualcuno vicino all’ingresso urlò, con un pesante accento abissale, accusando qualcun altro di aver barato ai dadi, e Steekaz si abbassò appena in tempo per schivare un’accetta lanciata male.
Plio Largaspada e i suoi amici avevano appena raggiunto una donna umana che sedeva da sola a un tavolo tondo, come se li stesse aspettando. La tavolata accanto al loro esplose in una rissa. Plio si agganciò il grosso scudo alla schiena, dietro alla spada, in modo da avere le spalle parate. Non sembrava molto preoccupata.
Steekaz decise di fermarsi al bancone. Sembrava un posto leggermente più sicuro, perché gli avventori avevano sempre più rispetto per le bottiglie di alcolici che per i loro simili.
Continuò a tenere d’occhio con discrezione la bella guerriera (e no, non era affatto un comportamento inquietante!). Presto la rissa vicino al gruppetto si estese come un fuoco anche ai tavoli vicini. Nel caos generale, un halfling furbetto allungò una mano in cui teneva un taglierino e recise i legacci della scarsella della goblin, facendosi scivolare in mano il sacchetto di monete appena vinto.
Steekaz sospirò, considerando per un secondo di estrarre la sua spada lunga. Non era l’arma giusta da maneggiare in un locale pieno di gente, non avrebbe saputo controllarla bene, e con la sua proverbiale fortuna si sarebbe incastrata nelle budella delle persone sbagliate. I coltelli che teneva nascosti nelle maniche, d’altro canto…
L’halfling guadagnò l’uscita, ma senza il sacchetto di monete che aveva appena rubato. Se ne accorse troppo tardi, quando Steekaz si era già infrattato fra le gambe degli spilungoni che litigavano e facevano rissa in mezzo alla taverna.
Si avvicinò di soppiatto al tavolo della goblin e lanciò il suo sacchetto di monete sul ripiano.
Il rumore richiamò l’attenzione dei cinque avventori. Steekaz riconobbe un mezzorco, una donna umana, due piccoletti che probabilmente erano halfling… e la goblin, naturalmente. Aveva degli strani amici.
Tutti e cinque lo fissarono con sguardo interrogativo.
“Un ladruncolo aveva rubato i soldi che hai vinto all’arena” spiegò, guardando direttamente la guerriera.
Lei studiò il sacchetto, riconobbe il nastro che lo chiudeva e lo afferrò protettivamente con le sue manine adorabili.
“E me l’hai restituito?” domandò, incredula.
Steekaz scrollò le spalle, cercando di sembrare fico e non un completo idiota.
“Li hai vinti onestamente.”
“E tu come lo sai? Mi stavi osservando?” Lei sembrava soprattutto sospettosa.
“Ho combattuto anch’io alla Fossa Insanguinata.” Il goblin grigiastro cercò di non far capire quanto l’argomento lo mettesse in imbarazzo. “Eravamo lontani, sono caduto prima di arrivare a scontrarmi con te, ma ti ho vista combattere. Impressionante.”
Finalmente lei sorrise, e se il suo broncio era carino, il suo sorriso era ancora meglio; tuttavia aveva qualcosa di molto poco goblinesco. I suoi denti, forse. Erano troppo piccoli per una della sua specie.
“Grazie! Siediti con noi, ti offro da bere!”
Il suono della rissa che ora aveva coinvolto tutta la taverna si trasformò in un brusio di fondo, mentre il sangue gli andava alle orecchie. Stava per bere con una celebrità.

Richiamare la taverniera fu impossibile, perché c’era davvero troppo casino. Un ogre mezzo avvinazzato provò addirittura a sedersi sul loro tavolo, ma l’umana lo dissuase mulinando le sue accette da battaglia e tagliandogli un orecchio. Steekaz rubò un po’ di alcolici abbandonati su altri tavoli, mentre Plio si ubriacava per festeggiare. La ragazza halfling leggeva i tarocchi in un angolo in perfetto silenzio, come se nulla la disturbasse, e il mezzorco giocava con il suo gatto. L’altro halfling amico di Plio era un tizio silenzioso vestito da giullare di strada, che guardava tutti come se stesse decidendo chi dovesse essere il prossimo a morire. Steekaz lo trovava veramente inquietante. L’unica persona con cui scambiare due parole era la donna umana con le accette, che gli confidò di essere la più vecchia amica di Plio. Entrambe venivano da un Piano chiamato Feywild, ma mentre l’umana ci era stata portata da bambina (una dei tanti bambini rapiti dalle fate), Plio era nata lì. La goblin, riemergendo dai fumi dell’alcol, confermò quella storia: da qualche parte, ammise, aveva antenati pixie, da cui i suoi stupidi capelli color fuffa. Nessuno l’aveva mai presa sul serio, piagnucolò tutta presa nella sua sbronza triste, finché non aveva imparato a impalare la gente con la sua spada usando una mano sola. Allora avevano smesso di ridere.
Steekaz si scolò mezza pinta di qualcosa che probabilmente avrebbe dovuto essere servito in un ditale. Aveva sempre retto bene l’alcol. E il cibo avariato. E il veleno. Era cresciuto in un mondo difficile.
“Adesso nessuno” affermò, un bel discorso interrotto sul nascere da un rutto sonoro. “Nessuno ti dirà che sei una fatina. Tu hai… tu picchi… anche i mezzi giganti!” Si complimentò, allargando le braccia per indicare qualcosa di molto grosso.
Un tiefling che passava lì vicino cercò di allungare una mano per rubare la bevanda di Steekaz, ma lui gli piantò un coltello nel palmo senza neanche abbassare lo sguardo. L’aspirante ladro lanciò un ululato e si defilò, con la coda letteralmente fra le gambe. Il piccolo pugnale a misura di goblin sparì nella manica tanto rapidamente come ci era entrato.
Plio fissò il suo polso come se avesse appena visto un trucco di magia, e Steekaz riconobbe nei suoi occhi la stessa ammirazione che lui aveva provato vedendole mulinare lo spadone.
“Perché sei tanto… testardo… di combattere la Fossa?” lei si sforzò di mettere insieme una frase di senso compiuto.
“Ho sempre voluto essere un grande guerriero” raccontò lui, appoggiandosi con i gomiti al tavolo. Le sue orecchie, già basse di solito, si fecero ancora più basse. “Ma mi sa che non sono dotato. Prendo in mano quella spada lunga e non capisco come faccio a far andare la punta dove voglio io…”
“Ma tu sei un… guarda Borba, lei ha le accette… io ho lo spadone… tu sei un molto-bravo dei pugnali. Voglio essere goblin come te. Voglio essere più goblin che ora. Sapere come si… come si bugiarda, come si ruba… come si coltella… no’ ci riesso, non mi entra nella mia testa di fuffa!” si lamentò Plio, sbattendo un pugnetto contro il ripiano di legno. Fissò il suo pugno, per un lungo momento, come se stesse avendo una rivelazione. “Ma forse…” lo guardò con occhi lucidi, pieni di saggezza alcolica. “Forse ogni uno ha le sue armi.”
Steekaz sostenne il suo sguardo, mentre la verità di quelle parole faceva breccia nella sua mente resa malleabile dall’alcol.
Forse dopotutto lei aveva ragione. Forse nessuno dei due doveva sforzarsi troppo di essere quello che non era. Se fosse riuscito ad accettare la sua natura, avrebbe finalmente trovato un po’ di pace? Ma era giusto che l’unica risposta sensata ai suoi sogni fosse la resa?
Avrebbe voluto chiederglielo, ma la goblin era caduta a faccia in avanti, russando come un carrettiere ubriaco.

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Capitolo 24
*** 23. Black Blood ***


23. Black Blood


Sotto-genere: lore
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: sequel di 11. Crown


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Se c’era una cosa che Boklop non aveva mai capito degli umani, era la loro logica assurda e insensata.
Da quando avevano iniziato a considerarlo un dio, l’antico folletto si era ritrovato oggetto di venerazione attraverso i canali più strani.
Gli umani che vivevano in quella regione del Chult gli avevano costruito un tempio. A lui, che odiava restare più di un anno nello stesso posto. Aveva insegnato a quella gente l’importanza di spostarsi continuamente per trovare nuovi territori e nuove prede, e per offrire il fianco ai predatori il meno possibile. Aveva insegnato loro la necessità di conoscere il proprio territorio palmo a palmo. E loro gli avevano dedicato una chiesa, una struttura fissa che costringeva l’intera popolazione a limitare il proprio territorio di caccia, visto che avevano questa stupida idea di fare visita a quel luogo sacro almeno una volta l’anno.
Poi erano cominciati i sacrifici di sangue.
Boklop non aveva mai chiesto sacrifici di sangue. Per fortuna si trattava ancora di una cosa di buonsenso: i suoi seguaci umani catturavano una preda, la uccidevano e offrivano a lui il sangue, ma poi la carne veniva consumata da tutta la tribù. Era un modo di ottimizzare le risorse sul piano fisico e metafisico, in un certo senso, come prendere due piccioni con una fava. Boklop non se ne faceva niente del sangue di animale, non capiva il senso della cosa, ma non era nemmeno contrario a quella pratica.

Il punto in realtà non era il sangue. Boklop lo capì quando i suoi fedeli riuscirono per la prima volta ad abbattere un deinonico, un dinosauro astuto che d’abitudine caccia in branco.
Il sacrificio di quel pericoloso predatore rese davvero più forte il legame fra Boklop e i suoi seguaci, e in minima parte il dio percepì che l’uccisione aveva rinfocolato il suo potere divino.
Non era il sangue in sé, in quel momento lo capì chiaramente: era l’entità della preda.
Aveva insegnato ai suoi umani ad essere astuti e letali, e loro avevano dimostrato di essere degni allievi. Più la preda era intelligente e scaltra, più il sacrificio avrebbe dato potere a Boklop.
Da quel giorno, il grasso dio-folletto accettò con grande piacere i sacrifici dei suoi piccoli seguaci umani. E loro ottennero sempre più vantaggi e insegnamenti grazie alla benevolenza del loro piccolo dio.
Sembrava un perfetto rapporto di simbiosi destinato a durare in eterno, ma gli umani ad un certo punto cominciarono a diventare troppo furbi per il loro stesso bene.
Quale prova di astuzia, si dissero, può mai essere più sublime che ingannare il dio stesso della furbizia e dell’inganno?

Organizzarono una grande caccia, capitanata dal più eroico e più intelligente guerriero della tribù. Lo scopo era manifesto: tendere una trappola a un julaji molus che infestava il territorio della tribù da molti anni. Il mostro era simile a un babbuino ma alto quanto tre uomini adulti, e il solo vederlo induceva un antico terrore anche nei cuori più impavidi. Il suo nome significava letteralmente divoratore di bambini, perché quella laida creatura usava i suoi poteri metamorfici per trasformarsi in creaturine graziose e attirare i bambini lontani dalle madri. Non c’era alcun dubbio però che potesse divorare anche gli adulti, all’occorrenza.
Troppi ragazzi e giovani cacciatori avevano incontrato la morte fra le sue fauci, e la tribù aveva deciso di prendere provvedimenti.
Per fare questo, i sacerdoti avevano pregato per tre giorni e tre notti nel tempio di giada per assicurarsi il favore di Boklop e la buona sorte, e avevano donato al guerriero prescelto la spada sacra del culto: una splendida lama di ossidiana indurita con la magia, che era stata usata per innumerevoli sacrifici nel corso dei secoli.
Il ripetuto utilizzo e il favore divino avevano reso quell’arma ancora più magica; in certa misura, era in grado di trasferire le qualità della creatura uccisa al loro dio.

La trappola a cui la tribù aveva pensato era tutt’altro che ingenua. Prevedeva di fingere un’evacuazione dell’accampamento estivo con la scusa del pericolo crescente, e di portare gli anziani, i bambini e i deboli nel tempio. I guerrieri sapevano che il julaji molus non avrebbe resistito alla tentazione di trovarsi chiuso in un edificio insieme a tante prede indifese. Un vero banchetto luculliano.
La tribù non aveva fatto mistero di quel progetto, parlandone apertamente per giorni prima dell’esodo: il mostro era in grado di capire e di parlare la loro lingua, e loro sapevano che ogni tanto veniva all’accampamento a spiarli. Le madri avevano spiegato ai bambini che questa volta, e solo questa volta, avevano il permesso di raccogliere e portare con sé qualsiasi piccolo animale grazioso che avessero incontrato lungo il tragitto, che fossero scimmiette, cuccioli abbandonati di grossi felini, piccoli marsupiali dagli occhi grandi, o qualsiasi creatura che ispirasse tenerezza.
In mezzo a quella fiumana di gente, alcune donne guerriero si erano nascoste fra i profughi, gonfiando i vestiti con stracci appallottolati per sembrare gravide; gli uomini invece si erano camuffati da anziani e da storpi, e avanzavano strascicando i piedi e tenendo la schiena curva. Il mostro non doveva capire che c’erano dei giovani combattenti nascosti fra quegli umani apparentemente indifesi.

Il tempio era una tozza torre di pietra a pianta circolare, il tetto costituito da una cupola. Le pareti all’esterno erano rivestite da preziosi intarsi in giada, da cui il nome. Il tetto a cupola era stato creato intrecciando lunghe canne di bambù, un materiale elastico e molto resistente, poi ricoperte di fango in modo da chiudere tutti i buchi. All’esterno la cupola era stata ricoperta con pezzi di qualsiasi materiale resistente fosse reperibile nella giungla: sassi piatti, squame di coccodrillo e di yuan-ti uccisi nelle schermaglie, perfino le scaglie di un drago verde che un eroe mitico aveva ucciso generazioni addietro. Strati su strati di queste protezioni, sistemate in modo sapiente, permettevano al tetto di resistere alle piogge tropicali.
L’interno del tempio era buio e soffocante, anche se i corridoi erano ampi. Si diceva che i loro antenati avessero costruito quella struttura pensando gli spazi in modo che fossero comodi anche per il loro dio opulento. Almeno due statue di Boklop erano state scolpite e sistemate in bella vista nel corridoio circolare. L’aspetto tondeggiante del dio, con la parte superiore del corpo da umano e la parte inferiore da rana, era una vista rassicurante per quella popolazione sperduta nella giungla.
I bambini si guardarono intorno con meraviglia, perché per molti di loro era la prima volta che venivano ammessi in quel luogo sacro. Una di loro, una ragazzina di nemmeno sei anni, stringeva fra le braccia un galagone. Il piccolo mammifero era simile a una scimmia con una lunga coda lanosa, e si guardava intorno con occhi sgranati. Anche gli occhi della bambina erano sgranati, ma non solo per la sorpresa. Era anche terrorizzata all’idea che l’animale che aveva in braccio potesse essere il julaji molus. Non era l’unica a portare con sé un animaletto, ma il suo istinto le diceva di tenersi pronta alla fuga.

In condizioni normali, il piano sotterraneo del tempio era accessibile solo ai sacerdoti, ma quella volta fecero un’eccezione. In uno dei dormitori c’era uno sgabuzzino. Sotto una stuoia di giunchi, però, era nascosta una botola.
La gente venne fatta scendere al piano inferiore. Era lì che si trovava il vero cuore religioso della struttura, la stanza delle preghiere e delle evocazioni. Furono portati tutti lì, ma nella stanza non ci stavano tutti. I bambini vennero fatti entrare, insieme ai guerrieri travestiti da anziani e da persone deboli. I veri anziani rimasero fuori, nel corridoio serpeggiante e nelle altre stanze.
Vicino al cerchio sacro per le evocazioni c’era un grosso braciere, che non smetteva mai di bruciare e non consumava l’aria perché era sostentato dalla magia: in realtà era un’illusione.

I bambini si avvicinarono al braciere, stanchi e tremanti. L’idea era che fingessero di tremare dal freddo, perché erano abituati a climi molto caldi e nel seminterrato c’era una frescura inusuale e umida. In realtà tremavano soprattutto di paura.
Poi, ad un cenno di uno dei guerrieri, i bambini che avevano un animaletto lo gettarono nel fuoco.

Le bestiole passarono oltre l’illusione, senza danno, ma cominciarono a scappare da tutte le parti per lo spavento. Il julaji molus invece, temendo che la sua piccola forma animale restasse ferita dal fuoco, aveva già cominciato a trasformarsi durante il salto per riprendere la sua forma originale. Quando si accorse dell’inganno era troppo tardi per ritrasformarsi in un innocuo cucciolo.
Impossibile dire quale fosse di quelle bestiole, nella confusione del momento; una mezza dozzina di quadrupedi stava correndo e rimbalzando in giro per la stanza, i bambini erano terrorizzati ed erano fuggiti urlando prima ancora che il mostro avesse riacquistato le sue vere dimensioni.
Lungo le pareti della stanza, i chierici avevano già cominciato a intonare un canto per richiamare il loro dio, mentre cinque guerrieri esperti avevano gettato da parte i travestimenti e sfoderato le armi.
Fra loro, il prescelto dalla tribù impugnava la spada sacra e sacrificale. Sapevano tutti che la parte più difficile sarebbe stata resistere all’aura di paura emanata dal mostro come un puzzo gelido, ma il canto dei sacerdoti li stava aiutando a trovare il coraggio.

Non fu una battaglia facile. Non era previsto che fosse facile. Era giusto che fosse sudata, doveva essere un sacrificio abbastanza grande per attirare lì il loro dio, il sacro Boklop.
Funzionò.
Il grande eroe Oytai affondò la lama nel petto del julaji molus mentre i sui compagni e le sue compagne lo tenevano impegnato pungolandolo ai fianchi. Ormai il mostro era troppo ferito e rallentato per riuscire a evitare il colpo. Proprio in quel momento, il possente Boklop si manifestò in carne e ossa, emergendo dalle ombre.
L’enorme folletto-rana sorrise in segno di approvazione. Quella era stata una dura prova, la perfetta applicazione dei suoi insegnamenti secolari: inganno, pianificazione, ma anche lealtà verso il proprio popolo.
Il giovane Oytai sfilò la spada di ossidiana dal corpo morente del mostro e la alzò verso il soffitto, lasciando che il sangue gli gocciolasse lungo il braccio.
Il dio aprì bocca per complimentarsi ed elargire la sua benedizione…

...e un momento dopo la spada sacrificale, lanciata con maestria ineguagliabile, gli trapassò la gola.
I guerrieri esplosero in un urlo selvaggio, e i sacerdoti alzarono la voce invocando il suo nome in estasi.
“Boklop! Boklop! Signore delle astuzie!”
“Immenso Boklop! Il più grande sacrificio è per te! Il più grande di tutti gli inganni!”
Il dio comprese troppo tardi che i suoi seguaci avevano imparato la sua lezione anche troppo bene. Non era il julaji molus la vera preda! Era tutto un elaborato inganno per attirarlo lì e… sacrificarlo a se stesso.
E lui non poteva tirarsi indietro. Aveva benedetto quella lama perché potesse uccidere qualsiasi creatura non più potente di lui, e aveva fatto in modo che i poteri di quella creatura gli venissero offerti perché potesse consumarli. Ma cosa succede quando un dio degli inganni viene ingannato? Aveva ancora diritto a quel titolo?
La sua natura divina gli venne strappata dal filo della lama, e poi gli venne infusa nuovamente perché l’arma era consacrata a lui. Poi gli venne strappata di nuovo, e gli venne restituita, in un ciclo infinito. Il dio continuava a venire ucciso dal potere della spada e poi reso divino da essa, oscillando fra la vita e la morte.
Era diventato un paradosso.
Un dio ingannatore, ingannato dai suoi seguaci. Un immortale, ucciso dal suo stesso potere. Una creatura che promuoveva la libertà, che era diventato una divinità aiutando quegli umani a liberarsi dalla schiavitù, eppure incapace di fuggire.

I suoi protetti continuarono a urlare e invocare il suo nome, fieri del proprio successo, finché ad un certo punto si accorsero che il dio non reagiva. Non riusciva a liberarsi dal gorgo in cui era intrappolato. Le grida di esultanza si fecero sempre più incerte, fino a cessare del tutto.
I guerrieri guardarono i sacerdoti, ma nemmeno loro avevano una risposta. Il coraggioso Oytai cercò di avvicinarsi al dio per afferrare la spada e tirarla fuori dal suo collo, ma un’aura innaturale lo investì appena la sua mano sfiorò l’impugnatura.
Un simbolo sconosciuto si tracciò da solo sulla fronte di Oytai, e l’uomo cominciò a urlare e ridere istericamente afferrandosi i capelli. Barcollò lontano dal dio morente, poi si mise a saltellare ridendo come un pazzo e facendo piroette. Quando uno dei suoi amici si avvicinò per calmarlo, Oytai gli diede una testata sul setto nasale e corse verso l’uscita della stanza.
Più tardi lo trovarono completamente nudo, che si rotolava sul pavimento del corridoio.
Nessuno più si azzardò ad avvicinarsi a Boklop. L’area intorno a lui stava cominciando a vibrare di energia caotica. Le pareti cambiavano colore, nell’aria si sentivano profumi sconosciuti, come di fiori esotici, e poi venne l’odore di sangue, di carne alla brace e di sudore, e mille altri odori tutti insieme.

Gli umani cominciarono a scappare. I sacerdoti fecero evacuare il tempio, e fu molto difficile mettere un argine al panico della gente, perché anche loro erano terrorizzati. Un giovane adepto aveva provato a pregare, entrando in contatto spirituale con il loro dio, e sotto di lui si era aperto un Portale che lo aveva fatto cadere in una qualche dimensione sconosciuta. Per fortuna il Portale si era richiuso subito dopo.

Non c’era altra scelta se non la fuga. A malincuore, con animo pesante e terrorizzato, i chierici aiutarono tutti a uscire dal tempio (anche Oytai che sembrava completamente impazzito) e avvertirono tutti di non entrarci più per nessun motivo.

Per un po’, tutti sperarono che la situazione fosse temporanea, e che il loro dio sarebbe tornato a dargli ascolto. Ma dopo mesi, dopo un anno, qualunque sacerdote provasse a pregare si ritrovava ancora vittima di incantesimi completamente casuali.
La tribù alla fine dovette prendere la dolorosa decisione di abbandonare il suo dio.
Il sacerdote più anziano tornò nel tempio una volta sola, per scrivere in una stanza incisioni che raccontavano che cos’era successo; poi uscì dal tempio e lo sigillò, sperando che restasse inviolato per sempre.

Non è chiaro cosa accadde alla tribù, ma è probabile che si sia spostata verso nord e si sia fusa con altre popolazioni umane che occupavano il Chult già in quei tempi antichi. Quello che è certo è che con il tempo si perse la memoria del loro dio imprigionato, e si perse anche la loro lingua e la loro cultura, come spesso accade quando diverse tradizioni si mescolano.

Nel frattempo, nel sotterraneo dell’antico tempio, il povero Boklop rimase intrappolato a rivivere in eterno l’istante della sua morte, emanando un’aura di caos a causa del paradosso che era diventato.
Con il passare dei secoli, perfino lui perse memoria di chi era e di perché si trovava in quella situazione. Era diventato un essere di puri istinti, capace solo di sentire e di soffrire, non di ragionare.
Dal taglio sulla sua gola cominciò a sgorgare un sottilissimo rivolo di liquido scuro, simile a sangue nero, ma più oleoso. Il dio si rese conto che era solo un’altra manifestazione del caos, ma non gli importava più. Non era più capace di pensieri coerenti.

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Capitolo 25
*** 24. Teeth ***


24. Teeth


Sotto-genere: urban fantasy, black humor
Ambientazione: Terra, un qualche Paese del Primo Mondo, epoca contemporanea


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“No, no, no. Ancora non ci siamo, Gemmil. I tuoi risultati continuano a essere sotto la media.”
Gemmil, fatina dei denti di terza classe, deglutì a vuoto e fece vibrare nervosamente le ali da libellula. Ogni volta la stessa storia, la sua superiore leggeva i dati raccolti e la rimproverava per la scarsa quantità di denti che aveva collezionato in quell’anno.
“Mi dispiace, Melchil, ma mi occupo di una zona ricca dove la sanità è ben sviluppata, e la gente è consapevole della necessità della prevenzione…”
“Scuse, Gemmil. Sono decenni che non mi fornisci altro che scuse! Ero convinta di averti chiesto risultati.”
“Ma… io non so che cosa potrei farci se…”
Melchil, capo-settore di un’area che includeva diverse nazioni e che chiaramente non voleva perdere quel privilegio, sbatté il plico di pergamene sulla scrivania, facendo tintinnare tutte le sue penne di cristallo.
“Sei una vergogna, Gemmil. Non mi stupisce che dopo decenni tu sia ancora solo una Raccoglitrice di terza classe.” Sibilò, stringendo gli occhi.
Gemmil avrebbe preferito che si fosse messa a gridare. Quando la sua superiore stringeva gli occhi in quel modo, era un bruttissimo segno. Ci sarebbe andata giù pesante con le umiliazioni e poi forse le avrebbe dato un ultimatum. Invece…
“Sono stanca di te, sciocca imbecille senza spina dorsale. Sei licenziata.”
Gemmil impallidì e sentì che il sangue le defluiva verso i piedi. Smise di muovere le ali e si posò delicatamente a terra, bianca come un cencio.
“No… no, signora, ti prego, sono una fatina dei denti. Posso fare solo la fatina dei denti. Se non posso fare questo, io, io… cesserò di esistere. Ti prego” poco prima aveva paura di ricevere un ultimatum, invece ora stava implorando per averne uno “ti prego, dammi solo un’ultima possibilità!”
Melchil poggiò i gomiti sulla scrivania, congiunse le quattro mani e la guardò con scetticismo da sopra i pugni chiusi.
“Uhm… non so, Gemmil. Sono stanca di darti ultime possibilità.
“Ti prego! Se hai un cuore, non lasciarmi morire così!” La fatina terrorizzata cominciò anche a piangere, senza rendersene conto.
“Ah! E va bene, va bene. Ti darò dieci anni. Ma voglio dei risultati, o te ne sparisci nell’oblio eterno. Sono stata chiara?”
“Cristallina!” Gemmil scattò sull’attenti, raddrizzando la schiena. “Questa volta farò l’impossibile!”

Le fate non avrebbero dovuto mischiarsi con i demoni. Questa era una regola non scritta, ma era anche semplice buonsenso.
La realtà però non era così bianca o nera. Esistevano fate buone e, naturalmente, fate malvagie. Non era strano che le fate malvagie facessero qualche piccolo patto con i demoni minori, di quando in quando. Piccole cose, scambi di favori, informazioni. Fra creature del caos ci si intendeva, e ogni tanto una fata nera riusciva a subodorare un buon affare per un demone. Il popolo dei folletti non aveva la costanza di mandare avanti un piano malvagio, anche le fate più crudeli avevano la soglia di attenzione di una farfalla.
Le fatine dei denti erano un po’ l’eccezione alla regola. Né buone né malvagie, il loro business principale era raccogliere denti che poi rivendevano come componenti per incantesimi o malefici, o come materia prima per gli alchimisti. Chissà cosa poteva venir fuori da un dente scartato; qualcosa di molto cattivo, o qualcosa di molto buono. In ogni caso, chissenefrega.
Gemmil aveva sempre pensato a se stessa come a una personcina buona. Insomma, per gli standard di una fata. Amava raccogliere i dentini dei bambini, e lasciava sempre una moneta sotto il cuscino, cosa che non tutte le sue colleghe si curavano di fare. Ma dove l’aveva portata la sua gentilezza? Ad avere risultati insoddisfacenti, e quindi ad essere quasi dispensata.
Era tempo di cambiare musica.
Sua cugina - le fatine dei denti sono tutte femmine - conosceva una certa unseelie che conosceva una banshee che conosceva un demone. Non si trattava di amicizie, ovviamente, ma tutto quello che a lei serviva era un nome, un contatto.

Nelle ultime due settimane Gemmil aveva fatto le sue ricerche. Su questioni mediche e sui patti con i demoni. Sapeva che quelle creature non potevano entrare nel mondo se non venivano invitate, e le fate, nonostante il progresso tecnologico che le stava progressivamente mettendo da parte, erano ancora parte del mondo.
Tracciò con cura il suo cerchio di evocazione, nell’auditorium vuoto della sede dell’università cittadina, polo di scienze naturali e chimica. Quanto mai appropriato.
Il demone comparve con uno sbuffo sulfureo, dandosi un sacco di arie. Gemmil non si lasciò impressionare. Era un mostriciattolo non più grande di lei, con ali da pipistrello e una ridicola coda dalla punta arrotondata. Un fallito, un po’ come lei. Questo aveva sentito dire.
“Bhayrozuzu” lo salutò, con un cenno del capo.
Il demonietto piegò la testa da un lato. Si aspettava di essere evocato da un umano, un mago, non di certo da una fata.
“Chi sei tu che osi convocare Bhayrozuzu il Velenoso, luogotenente del Signore delle Malattie?”
“Luogotenente delle mie campanule” commentò Gemmil, alzando un sopracciglio. “So benissimo che sei un Demone della Dipendenza, uno dei tanti e uno dei meno dotati. Ma ti ho chiamato proprio per questo: facciamo un patto, vuoi?”
Bhayrozuzu corrugò la fronte, perché non gli piaceva per niente il tono della fata. Lo stava trattando con troppo poco rispetto, e soprattutto gli dava fastidio che lei conoscesse la triste verità sulla sua carriera.
“Quale patto, creaturina zuccherosa? Parla, prima che ti mangi e mi pulisca i denti con le tue ossa!”
Gemmil gli concesse un risolino di cortesia, come se la sua battuta fosse divertente. (Non lo era.)
“Lo scambio che ti propongo è semplicissimo. Io ti libero da questo cerchio di convocazione, e tu per contropartita mi infetti questa regione con una dipendenza. Dovrebbe essere il tuo lavoro, se ho capito bene. È un affare due volte vantaggioso…”
“Ah! Niente di più facile, mia cara” Bhayrozuzu cambiò immediatamente registro, perché la cosa davvero difficile per un demone non era scatenare i suoi poteri e irretire gli umani, ma riuscire ad arrivare nel mondo degli umani. Forse la sua esistenza stava per avere una svolta. “Qualche richiesta in particolare?”
Gemmil sorrise. Un sorriso a settantadue denti, com’era normale per una fata della sua spece.
“Cocaina, se non ti dispiace.”

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Capitolo 26
*** 25. Weak ***


25. Weak


Sotto-genere: dark fantasy
Ambientazione: Forgotten Realms


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1278 DR, cittadella di Dallnothax, Montagne del Cammino

“Sei debole” affermò la voce dall’oscurità. “Fragile, debole, una cosetta da niente. Sei quasi spezzata. Non vali nemmeno le monete che ho pagato per te. Sei una frode.”
La ragazza si rannicchiò nel suo angolo, tenendo il capo chino in avanti in modo che i capelli rossi coprissero il suo volto e la sua espressione. Non voleva che l’elfo scuro potesse leggerle in faccia le emozioni viscerali che stava provando.
Lui fece schioccare la frusta sul pavimento, come gesto di stizza.
“Se continuo adesso morirai di sicuro. Pensavo che gli elfi chiari fossero più resistenti.”
Lei riusciva a percepirla, l’eccitazione del crudele drow, era palpabile, come un’onda di calore. Era la sensazione di potere. Per quelli come lui era una droga.
Non era solo sadismo. Non si divertiva a farle del male solo per il gusto di farlo. Era soprattutto il fatto di poterlo fare. Era la possibilità di dominare una femmina, qualcosa che sarebbe stato impensabile nella società matriarcale in cui quasi tutti gli elfi scuri vivevano. Lei lo capiva. Era uno dei tanti limiti di quella razza orgogliosa.
I drow erano più fragili e prevedibili di quanto immaginassero.
Quando lui le afferrò i polsi e la sollevò di peso, la schiava chiuse gli occhi come se fosse spaventata. In realtà non voleva che lui vedesse le sue iridi rosse, un colore inusuale fra gli elfi.
La buttò sul letto, ed era chiaro quello che aveva intenzione di farle. L’eccitazione del drow stava raggiungendo il culmine, e per una come lei quell’emozione brillava come la luce di una candela.

Sulerin lasciò scivolare il pollice della mano destra lungo il medio, fino a trovare al tatto un anello che era stato reso invisibile con la magia. Non aveva bisogno di toccarlo per sapere che era lì, il suo incantesimo costante l’avvolgeva e non c’era possibilità di errore, ma quel contatto la fece sentire più tranquilla. Ora tutto dipendeva dal fatto che fosse in grado di annullarne la magia. Se il suo complice non le aveva mentito…
“Astux” mormorò, la parola di comando per disattivare l’effetto dell’incantesimo.
La magia dell’anello smise di sostenerla e il suo fisico tornò a essere com’era sempre stato: intangibile. Solo la forza della concentrazione della donna faceva in modo che i suoi pochi stracci e l’anello non cadessero attraverso il suo corpo.
Quando il drow si avvicinò al letto e cercò di afferrarla per i capelli, trovò una gran brutta sorpresa. La sua mano passò attraverso alla testa dell’elfa, e prima che potesse avere il tempo di allarmarsi, lei alzò il viso e incatenò il suo sguardo in due occhi rossi come braci. Rossi e… famelici.
Sulerin si lanciò su di lui prima che il residuo dell’eccitazione sparisse del tutto. Una fata come lei, una predagioia, si nutriva delle emozioni delle sue prede. I drow sembravano incapaci di provare felicità, l’eccitazione e il piacere erano le cose che ci arrivavano più vicino. Lei sapeva di doversi accontentare. Prima che l’elfo scuro potesse riprendersi dalla sorpresa, la fata unseelie allungò una mano e gliel’affondò nel petto, in cerca del nucleo di quelle emozioni residue. Il suo tocco incorporeo cominciò a risucchiare dall’altro tutte le sue passioni, i suoi desideri, le sue paure… tutto quello che lui era, l’idea che aveva di se stesso. Il drow cercò di scostarsi, ma lei si alzò dal letto e lo seguì, lo incalzò, sempre toccandolo con quelle mani incorporee da cui lui non sapeva come difendersi. Il tocco di lei non era doloroso, ma portava con sé un… un nulla terrificante.
Dopo il terzo tocco, il drow cominciò a chiedersi a che cosa servisse cercare di resistere. Che cos’aveva da proteggere, dopo tutto? La sua vita non era forse miserabile e infelice?
Il tocco successivo gli strappò via anche questo pensiero.
Presto la sua mente non trovò posto per nessun tipo di emozione, né paura né interesse, o rancore. Né guerra né pace.
Il drow si appoggiò alla parete e cadde a terra come un sacco vuoto, fissando la ragazza come se non la vedesse neanche. Provò un ultimo barlume di sorpresa, di curiosità per quella creatura che di sicuro non era un’elfa, poi gli venne strappato anche quel pallido pensiero.

Sulerin atteggiò le labbra rosse in una smorfia che poteva passare per un sorriso. Si accovacciò per essere alla sua altezza e lo guardò negli occhi per accertarsi che non fosse rimasto alcun afflato di emozione nel suo spirito.
Le iridi rosse del drow incontrarono quelle della fata, ora di colore ambrato, dal momento che era sazia.
“Sei debole” scherzò la malvagia predagioia. “Fragile, debole, una cosetta da niente. Sei quasi spezzato.” Si concentrò per riuscire a fare presa sugli oggetti corporei anche se era intangibile, sfilò con calma il pugnale che il drow teneva nello stivale e glielo piantò in gola. Lui non fece una piega. Sulerin ridacchiò, deliziata. Adorava riuscire a rendere le persone così vuote, così inconsapevoli da non lottare più nemmeno per la loro vita.
“Non vali neanche il tempo che io e Zeerith abbiamo passato a pianificare la tua morte.” Ridacchiò ancora. “Sei una frode.”

Si alzò in piedi, ammirando la sua opera. Era stato difficile fingere di essere una povera schiava terrorizzata, e ad ogni colpo di frusta aveva avuto paura che lui si accorgesse che quell’arma comune non poteva farle nulla. Ma il drow non si era accorto di niente, troppo preso dalla scena che stava vivendo nella sua mente. Tutte le persone vivevano molto più nella loro immaginazione che nella realtà.
Un’altra grande debolezza che l’insidiosa fata sapeva sfruttare così bene.

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Capitolo 27
*** 26. Each Uisge ***


26. Each Uisge


Sotto-genere: fairytale, drammatico
Ambientazione: Scozia, medioevo


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Le gente avveduta sa che i kelpie, crudeli cavalli acquatici che amano affogare le persone nei fiumi, hanno la capacità ingannevole di prendere forma umana.
Di solito si tratta di uno stratagemma per attirare una preda in acqua, specialmente se prendono la forma di graziose fanciulle o avvenenti giovanotti.
Tuttavia, narra la leggenda che un kelpie si fosse innamorato di una fanciulla umana, e trasformatosi in un giovane uomo, l’avesse sedotta e chiesta in moglie. La ragazza però non era stupida, e riuscì a riconoscere il kelpie per quello che era, notando che aveva delle alghe d’acqua dolce fra i capelli, e una catenina d’argento al collo. Sì sa, puoi fregare una persona ingenua, ma non puoi fregare una persona che conosce le vie delle creature fatate.
La ragazza attese che il kelpie si addormentasse, sulla riva del fiume (e come mai, si chiedono i posteri, come mai lui si addormentò accanto a lei sulla riva del fiume? Erano altri tempi, e forse la morale era diversa!) Mentre la creatura fatata dormiva di un sonno profondo (ragazza mia, che bricconcella, il poverino era proprio esausto), la donna gli sottrasse quella catenina d’argento che era in realtà la sua briglia.
L’uomo tornò immediatamente alla sua forma originale, un cavallo acquatico, rivelando la sua vera natura.
La bella lo afferrò per la sua criniera d’alghe e lo portò con sé alla fattoria di suo padre, dove per un anno intero il povero kelpie solitario venne impiegato per i lavori di fatica.
Al termine di quel periodo di schiavitù, la ragazza chiese consiglio a un anziano uomo saggio che le disse di restituire la catenina, e così lei fece, consentendo al kelpie di tornare a essere quel giovane uomo affascinante che lei aveva conosciuto sulla riva del lago.
Chiese dunque al kelpie: “Potendo scegliere, vorresti restare un kelpie o diventare un mortale?”
“Se diventassi mortale” rispose lui “allora mi sposeresti?”
Lei disse di sì, e lui scelse senza indugio di diventare mortale per amore di lei.

La leggenda racconta che si sono sposati, ma sebbene ci sia un fondo di verità, questo è quello che veramente accadde dopo.
Il sacerdote si rifiutava di sposare una donna ad una creatura fatata, senza prima aver avuto la prova che il kelpie fosse diventato completamente umano. Lui disse dunque, “vi darò la prova!”, e si diresse al lago con la sua promessa sposa. “Se ora entrerò nell’acqua e non cambierò forma in quella di un cavallo, sarà la prova che sono umano.”
Entrò nell’acqua con i piedi, e non cambiò nulla. Entrò fino alle ginocchia, ancora nulla. Avanzò nell’acqua fino alla vita, ed era ancora umano.
“Sapevo che eri cambiato, amore mio!” Gridò la ragazza, guardandolo dalla riva del fiume.
“Invero sono cambiato, mia sposa, e voglio andare a recuperare uno scrigno di perle di fiume che ho nascosto, per fartene dono. Se solo ricordassi dove l’ho nascosto! Qui, da qualche parte fra le canne.”
Sentendo che c’era in serbo un dono prezioso per lei, l’avida ragazza entrò nel lago per cercarlo.
Il fondale però era scivoloso, e per la fretta la donna perse l’equilibrio.
Prima che la gente del villaggio potesse fare un passo, il suo promesso sposo l’aveva già soccorsa e presa fra le braccia. Lei gli sorrise, forse davvero innamorata, e lui rispose al sorriso. Ma lei si accorse presto che qualcosa non andava: non riusciva a staccare le mani dalle spalle di lui, come se fossero incollate per magia.
Il bel giovanotto la prese in braccio come si fa con la propria sposa e la portò verso il lago, la sua nuova casa.
La ragazza finalmente capì cosa stesse succedendo e gridò di terrore, ma era troppo tardi. Una creatura fatata diventa sempre molto più potente quando si trova nel suo elemento, e l’uomo si allontanò dalla riva con la velocità di un luccio.

Per molti mesi il padre della ragazza tornò alle rive del lago, ogni giorno, sperando di ritrovare sua figlia. Ad un anno esatto dal suo rapimento, trovò fra le canne uno scrigno, che conteneva ossa umane sminuzzate e fatte a pezzetti.
Perché un kelpie è una creatura pericolosa e maligna, ma è molto peggio un Each Uisge. Peccato che sia quasi impossibile distinguerli.

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Capitolo 28
*** 27. Folk Music ***


27. Folk Music


Sotto-genere: lore
Ambientazione: Forgotten Realms


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1371 DR, Tethyr

Il Meraviglioso Spettacolo di Ombre e Musica Folk stava lentamente terminando la sua tournée nel Tethyr. Il tour, che era iniziato sulla costa del Mare Scintillante a Myratma, si sarebbe dovuto concludere nella città di Saradush e poi piegare a sud-est fino a Mintar, ma la cittadella sul Lago dei Vapori era in mano alla Chiesa di Bane da qualche anno e quindi era stata esclusa dai piani della compagnia circense. Adesso l’idea era dirigersi a nord, verso Riatavin, la porta sull’Amn. E poi forse continuare verso Trademeet poteva essere una buona opportunità...
Anche a Saradush i guadagni non erano stati niente male, considerando che la città si stava appena riprendendo da un saccheggio di due anni prima. Il vecchio Bert, capo della compagnia, si soppesò fra le mani il bauletto di legno che usavano come cassa. Non erano ricchi, questo no, ma erano liberi. Erano artisti. Questo per lui e i suoi amici contava più di tutto.
La loro piccola carovana di carri (due carri possono essere definiti carovana?) procedeva pigramente lungo la strada sterrata fra la Saradush e la città del nord, che era diventata parte del Tethyr da meno di un anno. Verso metà mattina Lindsey, la barda della compagnia, spronò la sua giumenta nera per mettersi accanto al carro in testa, in un tintinnio di campanellini.
“Lin” la salutò Bert, rimettendo a posto il prezioso scrigno nello scompartimento segreto sotto il suo sedile. “Cosa posso fare per te?”
“Fai correggere il manifesto” rispose lei, con voce fredda.
Lindsey era una giovane donna orgogliosa, acutamente consapevole della sua bellezza e della sua abilità nelle arti sceniche. Non solo sapeva suonare, ma danzava con la grazia di una silfide e sapeva arricchire le sue esibizioni di trucchi magici. Il suo arrivo aveva dato nuova linfa al piccolo circo itinerante, e la donna aveva ogni intenzione di farlo pesare.
“Mia cara, perché insisti su questa cosa?”
'Spettacolo di Ombre e Musica Folk'. Non ha nessun senso, Bert. La gente si chiede cosa diamine c’entri il teatro delle ombre con la musica folk, ed è una domanda legittima! Dovevi scrivere 'Musica Ffolk'!
Bert aveva già sentito quell’obiezione diverse volte, e sbuffò dal naso, producendo un fischio acuto. “Certo! Così la gente si sarebbe chiesta cosa c’entri il teatro delle ombre con la musica folk, e anche perché siamo così analfabeti da non saper scrivere 'folk'. Pensi che qualcuno dei cittadini e dei villici che vengono allo spettacolo sappia cos’è la musica ffolk? O il popolo dei ffolk, per quello che vale?”
Lindsey arrossì di rabbia, cosa che le riusciva facile con quella sua carnagione pallida. Ormai era lievemente abbronzata grazie al sole del Tethyr, ma i suoi compagni stavano iniziando a convincersi che non sarebbe mai diventata più scura di così. I suoi occhi neri brillarono di una luce pericolosa.
“Io sono una ffolk, Bertrold Chimmey, e non sarò mai niente di diverso da una ffolk. Sono Lindsey Kendra di Caer Corwall e discendo dai veri ffolk, il popolo dei Talfir che colonizzò l’isola di Gwynneth più di mille anni fa. Io conosco la musica e la magia dei miei antenati e non tollero che la mia arte sia ridotta a semplice musica folk.”
“Bene signorina, solo perché sai un sacco di parole sciccose e strimpelli un violino ti credi tanto migliore di noialtri?” Bert perse la pazienza. “Sei solo una bastarda della casata dei Kendrick e ti va già bene che ti abbiano dato un’istruzione.” Lindsey era già rossa di rabbia, ma ora divenne praticamente viola. “Se sei così speciale, com’è che giri con una compagnia circense?”
I fieri occhi neri di Lindsey erano così carichi di odio che Bert non si sarebbe stupito se una maledizione l’avesse ucciso sul colpo, ma non poteva più stare zitto. Aveva sopportato le angherie di quella primadonna anche troppo.
Nonostante tutto, lei riuscì a contenersi, dandosi arie da gran signora. Alzò il viso verso l’alto in segno di sdegno. “Pensavo potessi aiutarmi a diventare famosa. Era quello il nostro accordo.”
“Volevi solo un modo sicuro per viaggiare e per esibirti, nella speranza che qualche nobile si invaghisse di te” la provocò lui, ancora non pago.
“Ah! Come sei gretto e meschino. Ho solo espresso la convinzione che le persone nobili e acculturate sappiano apprezzare la mia arte meglio dei plebei.”
“Bene, come rappresentante auto-eletto dei plebei, ti auguro che questo sia vero!” Sbottò il vecchio. “E scordati che io cambi il cartellone. Non succederà.”

Molti giorni dopo, a Riatavin, Lindsey si stava cambiando nella sua stanza in locanda. Gli altri potevano pure dormire sui carri, lei non si sarebbe mai accontentata di una sistemazione così misera. Preferiva impiegare la sua percentuale dei guadagni per concedersi una vita dignitosa.
L’ultima esibizione era stata un successo. Stavano dando tre spettacoli al giorno, uno la mattina, uno prima del tramonto, e uno nel primo pomeriggio, nell’ora che le persone del luogo dedicavano alla sosta. Lo spettacolo del primo pomeriggio era quello che raccoglieva il maggior numero di spettatori, ma il lato negativo era che si trattava anche delle ore più calde della giornata. Dopo quello, solo qualche ora di riposo e poi di nuovo in scena… Lindsey era esausta. Almeno la sera aveva del tempo libero, visto che lo spettacolo della magia delle ombre aveva un senso solo alla luce del sole. Non era pienamente apprezzabile nel bagliore tremolante delle torce.
Con estrema cura, districò la sua retina di fili d’argento e opali dall’acconciatura elaborata. La donna non scioglieva i suoi capelli nemmeno per dormire, rifare l'acconciatura ogni mattina avrebbe richiesto troppo tempo, ma era più prudente togliere la retina d'argento la sera dopo l'ultimo spettacolo. Se l'avesse indossata per dormire si sarebbe sicuramente rovinata.
Le era sempre piaciuto il modo in cui l’argento risaltava sui suoi capelli neri. La retina però era ormai consumata dall’uso e un filo era addirittura spezzato. Aveva intenzione di farla aggiustare, non appena fosse riuscita a mettere da parte un po’ di soldi…
Un leggero colpo di tosse la fece sobbalzare, perché era convinta di essere sola nella stanza, e non aveva sentito la porta aprirsi.
Si girò di scatto: in un angolo, accanto al semplice armadio di legno, c’era un uomo.
Lindsey prese in considerazione l’idea di gridare, ma lo sconosciuto non sembrava un malintenzionato o uno stupratore: se ne stava lì, appoggiato alla parete, con le braccia conserte.
“Chi siete?” Domandò la barda, con la voce che tremava giusto un pochino.
L’uomo si fece avanti, uscendo dalle ombre; avvicinandosi alla finestra, che ancora faceva entrare un po’ di luce del sole al tramonto, la donna si accorse che il nuovo arrivato non era esattamente un uomo. Era più simile a un elfo, solo che lei non aveva mai visto elfi conciati così. La pelle era di un grigio pallido, insalubre, innaturale. La carnagione era chiara come se la creatura fosse esangue. Anche i suoi lunghi capelli folti erano di un color grigio perla che tendeva al bianco. Lindsey tremò da capo a piedi, pensando di trovarsi davanti un vampiro. Ma no, non era possibile, era ancora giorno… e lui si trovava immerso nella luce del sole proprio in quel momento.
“Uno spettacolo mirevole” riconobbe la creatura, con un leggero inchino. La sua voce usciva dalle labbra pallide come un sussurro, come se fosse il resto del mondo a doversi impegnare per ascoltarlo. “Seguo il vostro circo itinerante da Darromar, e in ogni esibizione non avete mai sbagliato un passo o un assolo.”
Lindsey all’inizio non rispose, ma cominciò a pensare che forse lui non era pericoloso. Forse era davvero un elfo, ed era entrato nella sua stanza solo perché non conosceva i costumi degli umani…
“Solo, non ho capito perché 'musica folk'. Non mi sembra una definizione adeguata.”
Il suo tono era così calmo ed educato che la barda trovò il coraggio di rispondere.
“Avrebbe dovuto essere 'musica ffolk', ma il mio capo non sa scrivere. Io sono una ffolk, discendente del popolo Talfir. La mia famiglia ha preservato le tradizioni magiche dei nostri antenati.”
Lo strano elfo si accarezzò il mento glabro con una mano, lanciandole uno sguardo di vago interesse.
“In questo caso, lasciate che mi presenti. Sono Uryatan di Athkatla, reclutatore della compagnia mercenaria La Mano Dietro lo Specchio. Vorrei che mi permetteste di investire sul vostro futuro.”
Lei sbatté le palpebre rapidamente, come faceva sempre quando era sorpresa. Questo… uomo… voleva che lei lavorasse per lui?
“In che modo, esattamente?” Indagò.
Uryatan sorrise. Era un sorriso forzato, come se non gli importasse veramente, eppure gli importava abbastanza da fare quello sforzo.
“C’è molto potenziale in voi. Lavoro per un’organizzazione che agisce nell’ombra e usando la magia d’ombra. Se accetterete di diventare una nostra risorsa, riceverete una formazione completa che vi aiuti a integrare la carriera che avete scelto. Imparerete più cose alle nostre dipendenze di quante ne potreste apprendere da autodidatta. Potrete vivere ad Athkatla e continuare la professione di cantora, ma in un contesto che si addice meglio al vostro talento e alla vostra bellezza. In cambio… quando sarete pronta, presterete il vostro contributo, come incantatrice o come spia. O come assassina, ma solo se fosse nelle vostre corde. Non vi forzeremmo la mano su questo.”
Lindsey prese nota del fatto che non le era stato promesso alcun pagamento. D’altra parte, imparare la magia d’ombra e affinare le sue arti bardiche sotto la guida di un vero maestro poteva essere una ricompensa sufficiente. Come anche vivere ad Athkatla. Avrebbe potuto sfruttare l’occasione per farsi strada nell’alta società della capitale dell’Amn.
“Accetto, a condizione che mi diciate una cosa… non siete un vampiro, vero?”
La creatura simile a un elfo le scoccò uno sguardo di sufficienza, ma le sue labbra si lasciarono scappare uno sbuffo divertito.
“Sono uno shadar-kai, una creatura fatata del Piano delle Ombre.” Il suo sorriso si fece un po’ più stabile. “Non ho idea di cosa accadrebbe se un vampiro provasse a bere il mio sangue. Forse cadrebbe in depressione.”
“Avete un animo malinconico, signore? Permettetemi di rallegrarvi con una canzone” propose lei, accarezzando con un dito il violino che aveva poggiato sul tavolo scarno, accanto ai suoi orpelli di scena.
“Tenete le vostre canzoni allegre per il viaggio che ci aspetta, signora. Se vorrete venire con me, cammineremo nel Piano delle Ombre fino ad Athkatla. Non sarà un viaggio piacevole, ma è una prova necessaria, temo.”
Lindsey annuì, perché capiva la necessità di un test. Il Piano delle Ombre era il luogo da cui prendeva la sua magia, e con cui avrebbe dovuto stabilire un legame sempre più stretto se avesse scelto di continuare quella carriera. Non l’aveva mai visitato, perché un simile potere era ancora ben al di là delle sue capacità, ma sua madre le aveva detto che si trattava di un luogo terrificante e pericoloso.
La barda amava pensare che tutte le cose degne di nota dovessero essere terrificanti e pericolose, perché la bellezza non dovrebbe mai essere gratuita. Dovrebbe appartenere solo a chi ha il coraggio di rischiare tutto per conquistarla.
“Temo una vita ordinaria molto più dei pericoli dei Piano delle Ombre”, affermò con arroganza, preparandosi a partire.

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Capitolo 29
*** 28. Scars ***


28. Scars


Sotto-genere: drammatico, romantico
Ambientazione: Forgotten Realms


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1316 DR, pendici meridionali delle Montagne Fiocco di Neve

Saelas era un elfo ferito.
Non erano passati nemmeno due anni da quando il suo villaggio era stato devastato da una sortita drow. Il suo cuore si era spezzato ed era morto insieme a sua moglie e al loro figlio non ancora nato, e non sarebbe più tornato come prima.
Non erano passati neanche due anni da quando tutti i guerrieri di Silverthorn avevano subito un lutto terribile, un dolore devastante. Le loro famiglie erano state spazzate via, mentre loro erano impegnati in una battuta di caccia. Certo, qualche guerriero era rimasto al villaggio, ma non erano pronti a far fronte a un attacco drow. La foresta era sempre stata un luogo abbastanza pacifico, pericoloso ma entro limiti ragionevoli. Quindi anche quei pochi difensori erano morti.
I sopravvissuti si portavano dietro un tremendo senso di colpa per non essere stati lì, a proteggere i loro cari, e avevano tutti una ferita che non sarebbe mai guarita… o almeno, lui pensava che non sarebbe mai guarita. Quasi tutti loro avevano deciso con slancio di votarsi a Shevarash, dio della vendetta contro i drow.
Erano perfino partiti per una missione nel sottosuolo, per vendicarsi… ma quella missione non era finita benissimo. Erano sopravvissuti, ma solo perché si erano ritirati con la coda fra le gambe. Non era quello che Saelas aveva sperato.
Erano stati catturati dai duergar, alleati dei drow. In realtà erano i padroni dei drow, perché i drow che li avevano attaccati erano solo un gruppo di schiavi sfuggiti al controllo dei nani grigi, ma Saelas non credeva a quella versione. Non poteva accettare che i mostri che avevano distrutto il suo villaggio fossero degli ex-schiavi, erano sicuramente in una posizione di potere, alleati dei duergar. Non che gli importasse, ma se qualcuno gliel’avesse chiesto avrebbe risposto così.
Dopo la loro cattura, erano stati salvati da un mezzo umano. Uno che non era nemmeno completamente elfo. E per di più, quello stronzo si era permesso di decidere al posto loro che avrebbero dovuto ritirarsi e tornare in Superficie. L’aveva fatto attraverso il più bieco dei ricatti: si era rifiutato di aiutarli a ritrovare le loro armi. Sì, avevano rubato un paio di asce, ma quale elfo sapeva usare bene un’ascia?
Così, armati in modo inadeguato per una battaglia già fin troppo difficile, non avevano avuto altra scelta che ritirarsi.
Quel che è peggio, quella piccola disavventura sembrava aver scoraggiato la maggior parte dei suoi compagni. O forse era stato il discorsetto di quel dannato mezz’umano: “i vostri parenti morti ora sono in pace e non vi vorrebbero veder soffrire, gni gni gni, sono un borioso arrogante che caga giudizi, e in fin dei conti la vita è bella”.
E gli altri ci erano cascati. Si erano lasciati manipolare da un… maledetto pacifista che voleva vederli diventare della mammolette.
Alcuni avevano detto di essere stanchi di soffrire, come se avessero una fottuta scelta. Altri avevano detto che si erano già vendicati dei diretti responsabili, il gruppetto di razziatori, ma non era possibile sbarazzarsi di tutti i duergar e i drow del sottosuolo. Qualche poeta mancato aveva perfino detto che era tempo di lasciare che le ferite si chiudessero, ma che avrebbero portato per sempre le cicatrici.
Ah! Cicatrici! Come se fossero un valido sostituto dei loro figli e dei loro fratelli trucidati. Come se fossero un valido sostituto della vendetta.

Saelas conosceva la verità dietro a queste vuote rivendicazioni: erano tutti dei codardi. Non erano più disposti a lottare, a mantenere vivo il ricordo dei loro famigliari massacrati.
Ma lui era diverso. Se nessuno nella foresta di Shilmista intendeva dargli soddisfazione, avrebbe cercato alleati altrove. Non a Sarenestar, perché il mezz’umano aveva amici lì, ma aveva sentito dire che c’erano delle cellule del culto di Shevarash nell’est.
Al diavolo Shilmista e tutta la regione.
Era partito prima che la stagione si facesse troppo fredda. Aveva intenzione di aggirare le Montagne Fiocco di Neve, a sud, e poi avrebbe cercato una strada o un sentiero che portasse verso il Bosco di Chondal. Sicuramente in quell’antica e nobile foresta c’erano elfi con una visione del mondo più affine alla sua.

Quando iniziò a calare il tramonto, Saelas si fermò e decise di montare il campo. Era molto stanco per la camminata e dalle montagne scendevano venti freddi, non sarebbe stato prudente proseguire con il buio. Nonostante quello che potevano pensare gli altri, Saelas non aveva intenzione di morire senza un buon motivo.

Dopo aver montato il campo consumò una cena frugale a base di carne secca e bacche, e si ritirò nella sua tenda ben mimetizzata per concedersi qualche ora di riposo.
Mentre la sua mente scivolava verso l’incoscienza, cullata dai dolci flussi della meditazione elfica, Saelas cominciò a sognare una strana melodia. Non conosceva quella canzone, ma assomigliava molto alle musiche del suo popolo, e la voce accarezzava la sua coscienza per scendere dritta verso il centro delle sue emozioni, la memoria. Era la voce di sua moglie.
Saelas spalancò gli occhi. Era la voce di sua moglie!
Ma non era possibile, sua moglie era morta, falciata dalla crudeli spade dei drow. La sete di sangue degli elfi scuri non aveva risparmiato nessuno, Saelas ricordava di aver trovato il cadavere della sua amata Maegel fra gli altri. Quell’immagine da incubo era ancora orribilmente vivida, come se fosse rimasta impressa nei suoi occhi. Quindi, com’era possibile che ora sentisse la sua voce nel vento?
S’intabarrò nel suo mantello, infilò gli stivali e uscì nella notte. Prese anche le sue armi, per precauzione. Quell’eco lontana poteva essere un inganno dei suoi sensi… o poteva essere un fantasma? Se avesse scoperto che la sua Maegel non era andata in pace, come avrebbe reagito? Il pensiero era desolante, eppure Saelas avrebbe pagato qualsiasi prezzo pur di rivederla, anche se fosse stata solo un’ombra di ciò che era in vita. E quel desiderio, che a malapena riusciva a confessare a se stesso, non era innominabile per un elfo? Che razza di persona avrebbe voluto che i propri cari fossero intrappolati fra la vita e la morte?
Il dolore lo aveva reso egoista. Una parte della sua mente lo riconobbe, poi spinse quel pensiero di nuovo in fondo, nascosto in un angolo, per non lasciarlo crescere.
Maegel aspettava un bambino quand’era morta. Il loro primo figlio, che avevano atteso tanto a lungo. Il loro amore era perfetto, e anche la loro felicità era sul punto di diventare perfetta… poi tutto era stato spazzato via nell’arco di un momento.
Se solo avesse potuto almeno dirle addio.

La voce era reale. Fuori dalla tenda risuonava con più nitidezza nell’aria della notte. Sembrava la voce di Maegel; la dolce elfa dei boschi aveva il dono di saper cantare come una sirena, con una voce splendida e cristallina.
L’elfo accelerò il passo, attirato fra gli alberi da quelle note di speranza. Alla fine si mise quasi a correre. C’era una luce in lontananza?
Sfondò la resistenza degli ultimi cespugli e si ritrovò in una piccola radura. La luce c’era davvero, ma era il riflesso della luna su uno specchio d’acqua calma.

Nella pozza d’acqua c’era una donna. Stava cantando, e all’elfo sembrò quasi che… era un pensiero sciocco, lei cantava rivolta alla luna, con i capelli neri che scendevano come morbide onde a coprire la schiena… ma aveva la netta sensazione che cantasse per lui.
La donna era immersa nell’acqua fino alla vita, e vista di spalle sembrava che fosse nuda. Voltò appena appena il capo, guardando il ranger con la coda dell’occhio, e magari era solo un’impressione ma gli sembrò che stesse sorridendo in modo malinconico.
“Chi sei?” chiese lui, affascinato da quell’apparizione. Il canto si avvitò in un gorgheggio inimitabile, una maestria che sorpassava perfino quella di Maegel.
Saelas cominciò a sentirsi… strano. Il suo cuore doveva essere morto insieme a sua moglie, eppure ora stava ricominciando a battere. Quella voce… era come se Maegel si fosse reincarnata in una creatura fatata, una ninfa dei fiumi, e ora lo stesse chiamando.
La donna si voltò. I suoi tratti erano delicati, ma non appuntiti come quelli di un’elfa. Le orecchie erano tonde, come quelle degli umani, ma Saelas era sicuro che lei fosse aliena alla razza umana quanto a quella elfica.
La fata non era nuda, indossava un abito succinto che le lasciava scoperta la schiena e lasciava intravedere i seni in una generosa scollatura. La stoffa azzurro ghiaccio rivaleggiava con il colore dei suoi occhi, e di sicuro non era stata tessuta da mani mortali. Le sue labbra erano pallide ma invitanti, ora chiuse mentre canticchiava sottovoce la solita melodia. La sua nenia era diventata un sussurro, come se volesse condividere con lui un segreto.
Poteva essere un’idea folle, ma l’elfo dei boschi venne colpito dalla certezza che la fata dovesse essere la reincarnazione di Maegel. Continuò a muoversi verso di lei, incurante del fatto che i suoi piedi stavano affondando nel fondo limaccioso della pozza d’acqua. Quando finalmente raggiunse la donna, prese quelle mani diafane nelle sue e si rese conto che erano calde, nonostante lei fosse immersa nell’acqua. Baciò le sue dita, ma non le labbra, voleva che lei continuasse a cantare. Voleva continuare a sentire la voce di Maegel nella sua.

La glaistig sorrise, sapendo che quell’elfo era completamente in suo potere. Era facile, usare il suo canto ipnotico sui guerrieri. Certo sugli umani era più facile che sugli elfi… ma aveva rischiato, e non aveva fallito. Ora avrebbe potuto nutrirsi della vita di un’altra creatura.
Continuò a cantare, cercando di non sorridere troppo. Non voleva che lui vedesse i suoi canini affilati. Non era facile, perché lui le fissava la bocca come se nascondesse il tesoro della vita eterna.
La glaistig si crogiolò nel suo sguardo adorante, ma solo per qualche altro secondo. Si era divertita abbastanza, era il momento di nutrirsi. La sua sola vicinanza avrebbe mantenuto l’elfo in uno stato di fascinazione, non c’era più bisogno che cantasse.
Incrociò il suo sguardo un’ultima volta, e quello che vide la fece esitare.
Non erano gli occhi di un elfo stregato, erano quelli di un innamorato. Il guerriero stringeva le sue mani con la speranza e la disperazione di qualcuno che ha il cuore spezzato, e che ha appena intravisto un barlume di luce. La sua espressione era piena di amore e di dolore, come se la sua anima fosse segnata dalle cicatrici e lei fosse un balsamo.
“Maegel” sussurrò l’elfo, con voce spezzata.
La glaistig non aveva mai avuto un nome. Non sapeva com’era nata, non aveva mai conosciuto nessuno al di là di quella pozza e delle vittime che vi trascinava dentro, quindi nessuno l’aveva mai chiamata in nessun modo. Era piacevole avere un nome. Maegel aveva un suono melodico.
“Maegel” rispose, con la sua voce suadente “Maegel…” si rigirò in bocca quella parola come per sentirne il sapore. Poi prese una decisione improvvisa, liberò le mani dalla stretta dell’elfo e gli buttò le braccia al collo. Anziché morderlo, com’era sua intenzione all’inizio, gli sussurrò all’orecchio una breve litania nel linguaggio delle fate. Era un incantesimo che gli avrebbe consentito di respirare sott’acqua.
Maegel, o la creatura che ora si faceva chiamare così, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto nutrirsi di sangue. Non subito, però. Poteva resistere qualche altro anno, e non le sembrava giusto uccidere qualcuno che era già così ferito.
Perché succede anche questo; raramente, una volta su un milione, succede che una glaistig desideri trovare un compagno.

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Capitolo 30
*** 29. Invisible ***


29. Invisible


Sotto-genere: dark fantasy
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: seguito di 12. Blind


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1324 DR, città sotterranea di Eryndlyn

C’erano molte fazioni invisibili nella città drow di Eryndlyn. La loro sopravvivenza dipendeva dal delicato equilibrio del restare nascoste, eppure avere una nomea abbastanza solida da incutere paura. Era un paradosso che gli elfi scuri, meglio di qualsiasi altra razza, sapevano apprezzare.
Nominalmente la città era divisa in tre quartieri, asserragliati sui tre plateau di roccia della grande caverna. Non era solo una separazione geografica, ma una vera e propria frattura culturale: i tre culti predominanti di Lolth, Ghaunadaur e Vhaeraun dominavano ciascuno una delle tre fazioni cittadine.
Accanto a questa struttura sociale, o meglio, parallelamente ad essa, diverse reti di complotti e alleanze si dipanavano collegando e intrecciando fra loro i drow più insospettabili. Persone di diverse estrazioni sociali, maghi, mercanti, nobili, perfino infiltrati di altre città e di altre razze, che sfruttavano o venivano sfruttati, affollavano le strade della città drow e giorno dopo giorno cercavano di portare avanti i loro schemi e sopravvivere.
C’era la piccola casata nobiliare degli Arkenrret, segretamente una cellula dell’organizzazione degli Jaezred Chaulssin, tesa alla distruzione del culto di Lolth. Ideologicamente vicini al culto di Vhaeraun, vantavano qualche alleato in quella parte della città, ma il loro obiettivo era avvicinarsi anche ai seguaci di Ghaunadaur e quindi dovevano muoversi con cautela: le due fazioni si odiavano quasi quanto i diavoli odiano i demoni.
C’era l’organizzazione mercantile l’Artiglio e la Piuma, commercianti di creature viventi, dagli animali rari agli schiavi. Loro avevano ogni interesse a fare in modo che le ostilità fra le tre fazioni continuassero, visto che le guerriglie foraggiavano la tratta da e verso la città. Avevano le mani in pasta in più di un attentato, specialmente contro templi e altre strutture istituzionali. Invece le Corporazioni degli Artigiani avrebbero voluto che quelle rivalità religiose cessassero, perché dover pagare dazi per importare beni da una parte all’altra della città era troppo dispendioso, e per risparmiare si doveva ricorrere al pericoloso mercato nero. Anche molti altri mercanti stranieri la pensavano come loro, e appoggiavano... chi i tentativi diplomatici, chi la fazione di Lolth sperando che il suo potere fosse sufficiente a soggiogare le altre due.
Poi c’erano i maghi. Le due cittadelle a stampo patriarcale, perché questo erano in realtà il quartiere di Vhaeraun e quello di Ghaunadaur, avevano ciascuna la sua scuola di magia che accoglieva accoliti di ambo i sessi. Nominalmente le due scuole di magia erano nemiche, anzi, lo erano davvero, ma alcuni dei Maestri appartenevano a un’alleanza, una vera e propria organizzazione segreta più lungimirante. Si facevano chiamare i Vuoti, ed era loro opinione che qualunque mago serio non avrebbe dovuto lasciarsi influenzare dalla religione, e che solo la loro abilità e intelligenza potesse guidare Eryndlyn verso il futuro. Alcuni di questi maghi avevano una famiglia, avevano una posizione privilegiata nella loro Casata, ma la loro prima lealtà andava ai Vuoti. Forse.
La gilda misteriosa manovrava di nascosto anche una compagnia mercenaria, che non si occupava di normali soldati a pagamento; era una situazione molto particolare, gestiva il “noleggio” di prestigiosi maghi senza legami ad alcune Casate del quartiere di Lolth. Non tutte le famiglie nobili seguaci di Lolth riuscivano a crescere ed educare un maschio per farne un mago passabile. Naturalmente il noleggio di un mago mercenario era per la vita. La sua, o quella della Casata.

Seldphyn Daevossz era uno di questi maghi mercenari. Il suo cognome di nascita non era Daevossz, ma aveva assunto il cognome della Casata quando ne era diventato il Maestro Arcano. Aveva da poco superato i duecento anni, cosa che faceva di lui un mago giovane per la posizione che occupava. Aveva sempre avuto un certo talento per le arti magiche, e la spregiudicatezza aveva fatto il resto. Molte volte aveva dovuto spianarsi la strada uccidendo e derubando altri maghi, anche più potenti di lui, attraverso l’inganno e ardite alleanze. Come risultato poteva vantare un’ottima biblioteca di testi di magia sottratti alle sue vittime.
Uno come Seldphyn non aveva la minima remora morale a distruggere qualsiasi ostacolo sul suo cammino, e si aspettava di tutto.
Tutto, tranne che un bambino riuscisse a penetrare nel suo laboratorio di magia, oltrepassando le sue difese.
Il mago stava incidendo alcuni simboli sperimentali su una lastra di rame quando il suo famiglio gli inviò mentalmente una sensazione di allarme.
Seldphyn si girò di scatto, con un incantesimo offensivo già sulla punta della lingua.
Quando vide che l’intruso era il rampollo più giovane di Casa Daevossz, rimase impietrito per lo stupore.
Cosa doveva pensare? Un bambino di neanche dieci anni era entrato nel suo sancta sanctorum. Come? Per mezzo di chi?
Perché?

“Maestro, vi prego di ascoltarmi prima di uccidermi. La Matrona sarebbe molto scontenta.” Annunciò lui, profondendosi in un inchino rispettoso.
Seldphyn vagliò mentalmente i diversi livelli di comunicazione in quel messaggio. Era un'implicita minaccia? Il tono non era arrogante… era soltanto una dimostrazione della paura del bambino? Fronteggiare un mago non doveva essere facile per lui, ma quindi perché era lì? Per di più, sembrava che fosse consapevole di essere importante per la Matrona… o almeno lo sperava, perché il mago mercenario si rendeva conto meglio di chiunque altro che tutti sono utili, nessuno è indispensabile.
Mise da parte quei dubbi, perché nessuna congettura poteva davvero aiutarlo a sviscerare quel groviglio di domande.
"Come sei riuscito ad entrare?" Scattò in tono aggressivo, cercando di spaventare il ragazzino. Voleva che capisse subito di dover stare al suo posto.
"Ho visto come facevate voi. Le mosse delle mani e le parole d'ordine."
"Impossibile!"
Il famiglio di Seldphyn, un topo nero come la notte, squittí e soffiò rispecchiando il tono di minaccia del suo padrone.
Tek'ryn Daevossz chinò ancora di più la testa. Aveva l'aria di qualcuno che voleva sparire, sprofondando nella roccia.
"Non so come ho fatto a vederlo. Io vedo le cose. Nel passato e nel futuro. C'è stato un giorno in cui avete scordato di proteggervi dalle divinazioni, prima di entrare qui. C'era un battente diverso alla porta, un serpente che si morde la coda. Io ho visto quello che avete fatto quel giorno."
Il mago s'irrigidí, pensando che il ragazzo lo stesse prendendo in giro. "Ho cambiato il battente sei anni fa!"
"Allora…" pigolò il bambino, tremando. "Posso consigliarvi di cambiare le misure di sicurezza… un po' più di frequente?"
Seldphyn rimase spiazzato. Avrebbe potuto vaporizzare il giovane nobile per la sua risposta sfrontata. E lui lo sapeva.
Quindi, se aveva risposto così, poteva significare solo due cose: o non aveva altra risposta, perché gli stava dicendo la verità… oppure era stato indotto ad agire così da qualcuno che gli faceva ancora più paura del Maestro Arcano.
La sua tattica di terrorizzare il bambino non lo stava aiutando. Non l'avrebbe portato oltre questo dilemma. Era il momento di cambiare strategia.

Tek'ryn rimase immobile a sudare freddo, con gli occhi sgranati per la paura. Non voleva alzare lo sguardo sul mago. Non voleva vedere le esternazioni della sua anima nera. Il dono della Vista era una maledizione, e quando aveva paura non riusciva a controllarlo. Quando in passato gli era capitato di vedere di sfuggita il Maestro Arcano, ai suoi occhi il drow aveva sempre assunto un aspetto orribile: dita lunghe e artigliate, che indicavano la sua bramosia di ghermire i segreti altrui. Occhi brillanti come braci, pieni di cupidigia. Denti affilati. Oh, questo non era strano. Tutti, nelle sue visioni, avevano denti affilati.
Il Maestro Arcano non era neanche la persona più terrificante della casa, ma Tek'ryn non era ansioso di parlarci comunque.
Eppure doveva. E quando l’adulto gli fece cenno di accomodarsi, seppe che sarebbe riuscito a farsi ascoltare.
Cominciò a spifferare i piani di sua madre per quanto riguardava il suo futuro e la sua carriera.

“Sei venuto qui” Seldphyn si massaggiò le tempie con le mani, ma senza distogliere lo sguardo dal ragazzino seduto dall’altra parte della scrivania “per dirmi che rappresenti la mia morte?”
“Nelle intenzioni della Matrona” sussurrò il bambino, e il mago ringraziò di avere un udito eccellente perché l’altro aveva mosso a malapena le labbra. “Non nelle mie.”
“Non dire eresie!” Lo rimbrottò velocemente. “I desideri della Matrona sono i desideri di tutta la Casata. Se vuoi sopravvivere, non farti sentire a mettere in dubbio i suoi propositi.”
“Se voglio sopravvivere?” soffiò il bambino, incredulo. “Non state per uccidermi?”
“Uccidere il favorito della Matrona Madre, che al momento non rappresenta una minaccia… per ora.” Ricapitolò Seldphyn, con un sorriso pigro. “Proprio mentre si trova nel mio studio, forse per ordine della Matrona stessa? Sembra la ricetta per un suicidio.”
“La Matrona non vuole dispensarvi così presto. Anche pensando che mi abbia protetto con molti incantesimi, per tendervi una trappola… perché dovrebbe mandarmi lei? Perché ora?”
Il mago si massaggiò il mento, riflettendo su quell’obiezione sensata. “Una delle tue sorelle? Odiano il mio potere, magari una di loro ha un giocattolino che vuole mettere al mio posto. Se ora ti uccidessi la Matrona vorrebbe la mia pelle.”
Questo pensiero aveva già molto più senso. Le quattro figlie di Matrona Mayquarra Daevossz non vedevano l’ora di consolidare il proprio potere, e quale modo migliore che innestare un mago di fiducia al posto del fin troppo indipendente Seldphyn? E se lui avesse ucciso il fratellino, poco male: le quattro sacerdotesse odiavano il fatto che un giovane maschio avesse il favore della Matrona e forse perfino della dea.
Era la spiegazione migliore, e in qualche modo rendeva il piccolo Tek’ryn intoccabile. Almeno al momento.
“Non sono qui per farmi uccidere” affermò il ragazzino, riuscendo a trovare un po’ di fermezza e ad alzare un poco il volume della voce. “Sono qui per darvi un avvertimento. Se io vivo, voi morirete. Non adesso, ma fra… qualche decennio? La Matrona non vorrà solo licenziarvi. Sapete troppe cose della Casata.”
“Lo so benissimo” scattò il mago, irritato dall’arroganza del moccioso.
Era impressionato, anche se non l’avrebbe ammesso: il ragazzino parlava quasi come un adulto, e dimostrava una spiccata intelligenza grezza, nonostante la sua età. Ma ancora non padroneggiava la sottile arte della negoziazione fra drow.
“E allora questo è il momento giusto per liberarvi di me. Quando è troppo presto perché io sia una minaccia. Nessuno può immaginare che voi lo sappiate già, la Matrona ha parlato dei suoi piani solo a me, e io sarei stato un pazzo a venirvelo a dire, no? Quindi, se io sparissi ora, nessuno potrebbe sospettare di voi.”
Seldphyn Daevossz rimase sbalordito davanti a questa proposta, cercando di capirne le implicazioni recondite. Il più giovane figlio della Matrona aveva detto di non voler morire, eppure ora gli stava proponendo… cosa, esattamente?
“Eppure dici di non voler morire” tirò le fila, sperando che l’altro si scucisse. Aveva la sensazione che stessero arrivando al punto.
“Voglio scappare” confessò finalmente il giovane nobile.
“Anche questa è un’eresia” lo fermò Seldphyn, lapidario.
“Ecco perché sapete che non mi manda la Matrona o una delle mie sorelle. Se venissi scoperto sarei ucciso peggio di voi.” Ritorse lui, e in effetti era una logica inoppugnabile.
“Mi proponi di correre un rischio e farti scappare, perché ora sei troppo giovane per essere una minaccia e quindi non sospetterebbero di me… forse… e che cosa me ne verrebbe?”
“Liberarsi di me non è abbastanza?”
“No. Potrei ucciderti di nascosto negli anni a venire. Se ti farò scappare, potresti essere ritrovato e a quel punto ti farebbero parlare. Il mio coinvolgimento verrebbe scoperto.”
Tek’ryn ci pensò per un lungo momento. Non vedeva la risposta del mago come una chiusura totale. Non l’aveva ancora cacciato dal suo studio.
“Sono molto giovane, e i miei desideri non sono uguali ai vostri quindi non so cosa potrei offrirvi. Quello a cui io do valore più di ogni cosa è una vita sicura. Non m’importa del potere, e non saprei come farvi ottenere potere. Non so niente di magia. Però so come aiutarvi a diminuire le minacce contro la vostra vita.” Il ragazzino lo fissò dritto in faccia, e quei suoi occhi che a detta di tutti erano magici cominciarono a mutare di colore. Divennero di un giallo caldo come ambra, poi di nuovo rossi, ma non come le normali iridi drow; più come due tizzoni ardenti, cangianti fra il rosso e l’arancione, quasi brillanti. Quando parlò, perfino la sua voce aveva un accento diverso.
“Mia sorella Ghiya è la vostra vera nemica.” Seldphyn riconobbe il nome della secondogenita e sobbalzò. Era una sacerdotessa devota, ma sempre molto discreta. Non aveva mai manifestato interesse né odio per il mago. “Xusyne è troppo stupida, Ahlysaaria è la primogenita ed è sicura di sé, invece Elerra…”
“La Terzogenita è pericolosa” lo interruppe il mago. “Mi piacerebbe tanto sapere come mai ai tuoi occhi non lo è.” Concluse in tono di sfida.
“Elerra è pericolosa” ammise Tek’ryn “ma soprattutto per le sue sorelle maggiori. Le sue ambizioni sono clericali. Non guarda a voi, non ancora, anzi potrebbe cercare un’alleanza con il mago della Casata…”
“E quindi è lei che devo far cadere” il mago sorrise, una smorfia affilata come una spada.
Tek’ryn, di nuovo con i suoi occhi normali, lo guardò con un’espressione di genuina sorpresa.
Seldphyn continuò a sorridere, senza sbilanciarsi e senza spiegarsi.
Prima di tutto, stava già pianificando di usare la scomparsa di Tek’ryn per incolpare una delle sue sorelle del suo omicidio. Non era necessario uccidere il ragazzino, anzi sarebbe stato troppo pericoloso… ma avendo il tempo di pianificare la cosa avrebbe potuto produrre un falso cadavere. Elerra non godeva delle simpatie della Matrona, sarebbe stato relativamente facile farla cadere dalla grazia, molto più facile che con la pia e devota Ghiya, la sua vera nemica. Ma tolta dai giochi la brillante Terzogenita, che rappresentava un pericolo per le due sorelle maggiori, Ahlysaaria e Ghiya avrebbero riversato tutta la loro attenzione e il loro acume l’una contro l’altra. Il Maestro Arcano invece ne sarebbe uscito pulito, insospettabile in quanto era quello che più aveva da perdere dalla morte di Elerra, una sacerdotessa che non lo avversava.
Sì, era perfetto.
Forse Tek’ryn non aveva intenzione di rendersi complice nell’assassinio politico di una delle sorelle, forse pensava di ripagarlo solo con quelle informazioni… ma dopotutto la sua partecipazione non era richiesta oltre.
Sarebbe bastato che sparisse dalla scena.
“Potrei essere interessato ad aiutarti a fuggire” propose il drow adulto, avvicinando le mani fino a far toccare i polpastrelli. Un sorriso maligno minacciava di affiorare sfuggendo al suo autocontrollo.

Il ragazzino si rilassò appena appena, ma l’occhio attento del Maestro Arcano colse ogni suo movimento. Com’era giovane, ancora incapace di trattenere le emozioni e pianificare omicidi. Dopotutto il Secondogenito, per il momento, non era davvero un pericolo. Non era nemmeno un vero drow, non era completo.
“Sei venuto qui nella speranza che io tiri fuori qualche trucco magico per farti fuggire, o…”
“Ho bisogno di raggiungere il drow con le treccine” lo interruppe il marmocchio, lapidario come un colpo di scure.
Seldphyn raggelò sul posto.

Il drow con le treccine, come lo aveva definito il ragazzo, era uno degli esponenti più importanti dell’organizzazione segreta dei Vuoti. Era uno dei tre luogotenenti del Supremo Arcanista, e siccome i Vuoti tiravano i cordoni della compagnia mercenaria dei maghi, il drow con le treccine era tecnicamente un superiore di Seldphyn.
Quanto ne sapeva, il bambino? Quanto era pericoloso, solo per quelle sue conoscenze che sembravano venire dal nulla?
“Non so di chi stai parlando” tentò, ma solo per vedere come avrebbe risposto il ragazzino.
Lui non rispose affatto. Sostenne il suo sguardo in un silenzio sempre più pesante, come se non avesse più paura di lui.
“Ho paura di voi” il giovane principe sconfessò quell’idea, come se gli avesse letto nel pensiero. “Ma ho molta più paura del mio futuro qui. Non c’è limite a quello che farei pur di andarmene. Tranne morire. Ma qualsiasi altra cosa sì. Sapete quanto è pericolosa una persona disperata? Se non mi aiuterete adesso, dedicherò ogni istante della mia vita a cercare di rovinarvi. Io so del precedente mago e del rituale che ha fallito, e che ha quasi distrutto la Casata. So come quell’errore fatale è finito dipinto sul suo libro di incantesimi. E so anche un sacco di altre cose.”
“Insomma vuoi proprio che cominci a pianificare come ammazzarti, ragazzino?” La smorfia di Seldphyn era praticamente una promessa di morte.
“Ho scritto queste informazioni dove la Matrona potrà trovarle, compreso un messaggio che vi accusa del mio assassinio. Se morirò, affonderete con me.”
Seldphyn Daevossz fece due rapidi calcoli mentali. Questo bambino avrà avuto nove anni o qualcosa del genere, ma già ragionava come un adulto. Per di più, vedeva cose del passato e forse anche del futuro, e aveva il pieno appoggio della Matrona Madre.
Forse il mago era il primo a doverlo volere fuori dai piedi.
“Il drow con le treccine” ricapitolò, arrendendosi. Si trattava della scelta migliore, che andava a vantaggio di entrambi.
“Tra sei mesi la Matrona riceverà una convocazione da parte del Consiglio della cittadella. Si tratta di una convocazione generale quindi vorrà fare sfoggio del potere della Casata. Chiederà alle mie due sorelle maggiori di accompagnarla, ma forse vorrà anche voi, che siete il nostro mago. Richiamerà la Terzogenita dall’Accademia per non lasciare la magione senza protezione, e resterà anche il Maestro d’Armi. E anch’io. Penso che sarà il giorno giusto per organizzare la mia… morte… quando voi avrete un alibi. Uno che non potevate prevedere.”
“Ma tu puoi” sottolineò l’incantatore.
Il giovane principe si strinse nelle spalle.
Sì, era decisamente meglio mandarlo il più lontano possibile.
“Vedrò cosa posso fare” promise Seldphyn. “Ma per rendere credibile la tua morte, dovrò produrre un cadavere che anche ad un esame magico risulti tuo. Non sarà sufficiente un incantesimo di metamorfosi su un altro cadavere o su un oggetto. Dovrà avere… la tua impronta, per così dire.”
Gli occhi del bambino si illuminarono nuovamente di quel rosso splendente, innaturale anche per un drow. L’effetto durò solo un attimo, poi tornarono normali. La sua espressione non era cambiata: una maschera di finta indifferenza che faticava a nascondere un terrore senza fondo.
“Sì. Vi serve un pezzetto del mio corpo.”
Il mago s’irrigidì, sconvolto che i suoi segreti arcani fossero così facilmente svelati.
“Come lo sai? È un incantesimo troppo complicato perché tu possa capire…”
Il ragazzino sfilò un piede da uno stivale, con gesti lenti e misurati.
“Vi consiglio di prendere un dito del mio piede. Siete un mago, non un sacerdote, quindi non potete farmi ricrescere la carne che mi taglierete. È meglio toglierla da un posto dove non si vede.”
Seldphyn era impressionato dalla calma con cui l’aveva proposto. Per la prima volta si scoprì a desiderare che il giovane nobile fosse suo figlio. Era abbastanza intelligente da esserlo, per lui sarebbe stato un vanto. Purtroppo, pensandoci un attimo, si accorse che non ricordava che la Matrona l’avesse chiamato nelle sue stanze in quel periodo. Le loro frequentazioni erano terminate qualche anno prima di quell’ultima gravidanza…
“Buona idea” sorrise il mago, un tantino troppo entusiasta. Sfilò uno stiletto dalla manica. “Ora lancerò un incantesimo che ti farà svenire. Non vorrei mai che la Matrona si accorgesse di qualcosa. Quando ti risveglierai, sentirai dolore.”
Tek’ryn annuì seccamente. Se lo aspettava.

Passarono sei mesi. Pochi giorni dopo il colloquio con il mago, Tek’ryn era passato sotto le cure amorevoli di sua madre, che ogni giorno passava un’oretta a indottrinarlo sulla grandezza della Regina Ragno e sull’importanza centrale che aveva avuto nella storia dei drow. Quelle lezioni erano quasi sempre noiose e ripetitive. Forse dopotutto non c’era così tanto da dire, sulla Regina Ragno. O forse molte delle cose che si sarebbero potute dire erano soggette a censura. Tek’ryn stava molto attento a non chiederselo, a non formulare pensieri eretici. Sua madre poteva essere in grado di leggergli nella mente. Stava sempre attento anche a non pensare al suo finto cadavere, che da qualche parte, nello studio privato del mago, galleggiava sospeso in un incantesimo di preservazione.
Un altro problema di cui si era accorto subito, non appena la ferita era guarita e aveva smesso di fare male, era che non riusciva più a camminare bene come prima. Non è che fosse diventato zoppo, ma la mancanza del dito trillice del piede sinistro aveva leggermente compromesso il suo equilibrio. Stava sempre molto attento a come camminava in presenza della Matrona o di qualunque altro adulto.
Ma, comunque, in qualche modo passarono sei mesi. Tek’ryn cercava di contenere l’ansia, l’agitazione e il senso di aspettativa. Nessuno di quei sentimenti gli avrebbe garantito la sopravvivenza, ed era come se nel suo cervello ci fosse una voce adulta e matura che era in grado di prendere le redini e tenere sotto controllo le emozioni. I suoi strani sogni, in cui lui era una creatura elementale fatta di fuoco, o di aria, o di acqua o di terra, stavano continuando e si erano fatti più frequenti. Erano senza dubbio una prospettiva migliore rispetto agli incubi e in qualche modo contribuivano a tenere a bada la paura.
Un giorno, finalmente, sua madre ricevette la convocazione. Tek’ryn non era sicuro di che cosa riguardasse; le sue visioni erano precise, ma al piccolo drow mancavano le conoscenze base di etichetta e di gerarchie sociali, quindi non riusciva sempre a dare un senso alle cose che vedeva. L’unica cosa importante era che la sua finta morte sarebbe stata messa in scena, e che il mago l’avrebbe fatto scappare.

L'indomani, mentre si preparava a partire, la Matrona entrò nella cappella di famiglia per prendere alcuni unguenti sacri e vide il suo figliolo più giovane intento a pregare. Non diede molto peso alla cosa, limitandosi a un cenno di approvazione.
Se il dubbio avesse anche solo sfiorato la sua mente - ma perché avrebbe dovuto? - forse avrebbe potuto accorgersi che si trattava di una complicata illusione.
Quella fu l’ultima volta in cui Matrona Mayquarra Daevossz vide, o credette di vedere, suo figlio Tek’ryn. Al suo ritorno avrebbe trovato solo il suo cadavere. O meglio, avrebbe trovato un cadavere che assomigliava in tutto e per tutto a suo figlio, ma a differenza del ragazzino vero, non aveva i crimini del Maestro Arcano scritti sulle braccia con inchiostro appena visibile. Tek'ryn sapeva che sua madre avrebbe analizzato con cura il suo corpo per trovare la causa della morte e quindi aveva preso le sue precauzioni in caso di tradimento.
Ma quella manovra non sarebbe servita, perché Seldphyn era stato ai patti: il vero Tek’ryn in quel momento era già fuori dalle mura del palazzo, e presto sarebbe stato fuori dalla città. Libero. Lontano. Invisibile. La convinzione che fosse morto avrebbe fatto in modo che nessuno lo cercasse.

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Capitolo 31
*** 30. Cruel ***


30. Cruel


Sotto-genere: avventura
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: seguito di 10. Earrings


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1320 DR, regione del Lago dei Vapori

Il mondo era un posto crudele, ma una principessa non poteva saperlo.
Lady Lurene era convinta che la vita fosse stata ingiusta con lei: dover sposare un uomo che era almeno quarant'anni più vecchio non era un destino invidiabile. Fino a poco tempo prima si sarebbe semplicemente piegata alla volontà del re suo padre, ma di recente una fanciulla elfa le aveva parlato del valore della libertà, e le aveva messo la pulce nell'orecchio.
'Siete sprecata in un matrimonio combinato', aveva detto l'elfa, e all'epoca quelle parole per Lurene non avevano senso. Era la principessa di Ankhapur, aveva dei doveri, la sua vita non apparteneva solo a lei.
Ma era forse giusto?
Fino a quel momento la ragazza non si era mai chiesta che cosa volesse veramente, non si era domandata se quel matrimonio le andasse bene oppure no.
E no, maledizione, non le andava bene.

Avrebbe dovuto viaggiare con il suo seguito fino al piccolo regno del suo futuro marito. Lì si sarebbero sposati, per il mutuo a vantaggio dei loro Paesi. Si trattava soltanto di attraversare in nave il Lago dei Vapori, ma per un'adolescente che non era mai uscita dalla propria dimora - e che non aveva il permesso di viaggiare da sola - era come andare dall'altra parte del Faerûn.
Il giorno della partenza salutò suo padre con grande solennità, ma dentro di sé si ripromise di scappare molto prima di giungere a destinazione.
Lurene non sapeva niente della vita, né del mondo. Non conosceva la natura, i pericoli della notte, i segreti del Lago dei Vapori, le maree, la fame… non conosceva nulla di nulla.
Per questo, quando rubò una scialuppa e si calò in acqua una notte, non sapeva quanto sarebbe stato pericoloso. Ma per cominciare da un problema più semplice, non sapeva nemmeno come si facesse a remare. La sua scialuppa girò in tondo per un po’, mentre la ricca nave su cui aveva viaggiato fino a poco prima scivolava lontano e lontano, nel buio.
Senza più quel punto di riferimento, in piena notte, in mezzo a un lago sulfureo, la principessa si accorse subito che aveva perso ogni punto di riferimento.
Da quale parte doveva andare? Non aveva in mente una meta, voleva solo raggiungere la terraferma e scappare a piedi. Ma in quale direzione era la costa più vicina?

Oh, al diavolo, il Lago dei Vapori non è molto grande! Ho visto le mappe! S’incaponì lei, afferrando i remi con vigore. Una direzione qualsiasi andrà bene.
Respirare i fumi sulfurei del lago così da vicino non era esattamente sano. La ragazza tossí mentre cercava di remare, sperando che il rumore che stava facendo non attirasse l'attenzione di qualcuno sulla nave. Aveva corrotto solo uno dei mozzi, non tutto l'equipaggio.
Lo sforzo di muovere i remi in acqua le faceva venire il fiatone, costringendola a respirare a bocca aperta e a inalare ancora più vapori. Presto cominciò a girarle la testa, e non si accorse che si stava girando anche la barca.
Una luce brillava sulla superficie giallognola del lago, che nel buio della notte sembrava nera come l'ebano. Lurene credette che fosse il riflesso della luna e non ci diede molto peso. Quella luce però era più gialla della luna, e cosa ancora più strana, si muoveva.
Verso di lei.
Lurene aveva la mente offuscata dai vapori e non si rese conto della grossa barca che si stava avvicinando silenziosa alla sua scialuppa. Quando però un rampino si agganciò al bordo della sua bagnarola, andò quasi nel panico e afferrò l'oggetto con entrambe le mani, cercando di sganciarlo dal legno. Il metallo era freddo sotto le sue dita, già rovinate dal goffo tentativo di usare i remi. Non riuscì a fare forza. La corda che era legata al rampino si tese, e qualcosa cominciò a tirare la sua barchetta.
La scialuppa si mosse in avanti dolcemente, ma Lurene non se l'aspettava e perse l'equilibrio, cadendo lunga distesa sul fondo di legno. Per poco non sbatté la testa contro il sedile.

C’era una nebbia spettrale che aleggiava intorno alla barca più grossa. Non era una nebbia così fitta da impedire la vista, ma lo era abbastanza da mettere i brividi. Mentre veniva trascinata verso la strana nave, che non era quella su cui suo padre l'aveva imbarcata, Lurene capì che la strana luce che aveva visto era una lanterna appesa alla prua. Quella luminosità giallognola rischiarava un po’ la parte anteriore della nave, abbastanza perché lei riuscisse a leggerne il nome: L’Oeblese Dolente.
Lurene avrebbe dovuto sposare un piccolo re di uno dei tanti minuscoli reami dei Regni di Confine, un guazzabuglio di staterelli che sorgevano (e spesso tramontavano in fretta) in quella striscia di terreno fertile fra la sponda meridionale del Lago dei Vapori e le pianure dello Shaar. Quindi aveva studiato, almeno un minimo, le città principali della regione.
Oeble era un luogo poco raccomandabile. Una città di briganti, ladri, rapitori, pirati, contrabbandieri, schiavisti… e anche peggio.
Quando fu abbastanza vicina, qualcuno lanciò una scala di corda giù dalla fiancata della nave. Lurene non aveva la minima intenzione di salire. Stava seriamente pensando di buttarsi in acqua.
Mentre cercava di trovare il coraggio per tuffarsi, un tizio smilzo si sporse oltre il parapetto della nave, afferrò la scala di corda e si lanciò oltre, con l’agilità di un gatto. Scese lungo la scala senza alcuna difficoltà, e quando mise un piede sulla scialuppa di Lurene lei si tirò indietro facendo oscillare pericolosamente la piccola imbarcazione.
Il tizio saltò sulla scialuppa e riuscì a mantenere l’equilibrio nonostante tutto. Non era umano. Sembrava un mezzelfo, ma le sue orecchie erano strane, e nella luce gialla della lanterna la sua pelle sembrava verde.
“Signorina, se non smettete di far oscillare la barca cadrete in acqua e diventerete un bocconcino per qualche testuggine dragona” l’avvertì lui. Il suo modo di parlare era diretto e sbrigativo, ma non scortese. Nonostante il suo aspetto insolito, non era brutto. Magari era davvero un mezzelfo?
Qualcun altro si sporse da sopra l’Oeblese Dolente.
“O’ moccioso! Allora? L’è ‘na pirata?”
A gridare era stata una donna bionda, con la pelle così chiara che nemmeno il buio della notte avrebbe potuto nasconderla.
“Ti pare una pirata? A me sembra una…” il presunto mezzelfo corrugò la fronte. “Mah… non ne ho nessuna fottutissima idea.”
“L’è ‘na piccina, mi pare” continuò la donna, appoggiandosi con i gomiti sul basso parapetto. “Ma ch’è, ‘na scappata di casa? Vedi mica che magari l’avevano rapita. Chesta non sa manco remare. N’ c’ha manco ‘no zaino. Ma ‘ndo vai, piccina?”
Lurene arrossì, un po’ per l’imbarazzo e un po’ per la rabbia.
“Non vi devo alcuna spiegazione. Se dovete prendermi prigioniera, fatelo e basta.” Incrociò le braccia davanti al petto, ombrandosi.
Il marinaio che era sceso dalla scaletta per raggiungere la sua barca spostò lo sguardo dalla sua compagna di ciurma a Lurene, perplesso. Poi notò il nome della nave, dipinto in lettere color sangue, e l’aspetto in generale un po’ spettrale dell’Oeblese Dolente.
“Ah, capisco. No, signorina, c’è un malinteso. Siamo cacciatori di pirati.”
Lurene si sentì tremare dal sollievo. Forse erano comunque persone poco raccomandabili, cacciatori di taglie o qualcosa del genere, ma non l’averebbero imprigionata o schiavizzata. Al massimo avrebbero chiesto un riscatto a suo padre.
“Eh, piccina, l’è ‘n mondo crudele.” Riprese la donna bionda, che aveva un forte accento di qualche luogo esotico. “Ti andava male se ti trovavano i mostri marini. O i pirati. Che ‘l nostro capitano li conosce bene i pirati, né, testa pelata?” Gridò, voltandosi verso qualcuno che stava sulla nave, fuori dalla visuale della principessa.
Nessuna risposta, solo un grugnito stanco.
Lo smilzo le indicò la scala di corda. “Se volete salire, signorina, io terrò ferma la scala perché non oscilli.”
La fanciulla arrossì di nuovo, perché si vergognava della sua inettitudine davanti ai più semplici ostacoli. Afferrò la corda e cominciò a salire.
“Quando arrivate su, non spaventatevi per il capitano” l’avvertì il tizio che forse era un mezzelfo. Sentendo che il marinaio le stava parlando, lei arrossì convinta che le stesse sbirciando sotto la gonna. Guardò in basso, con aria inviperita, ma lui stava pudicamente guardando in basso. “Ha un aspetto disumano, ma non è malvagio.”
Lurene finì faticosamente di scalare la corda, e la donna bionda l’aiutò a salire per bene sulla nave.
L’uomo al timone era una specie di gigante, con la pelle grigiastra, la testa calva coronata da grosse corna da diavolo.
La principessa era stata avvertita di non spaventarsi, ma non era una cosa su cui avesse controllo. Il sangue le scese fino ai piedi, impallidì, roteò gli occhi all’indietro e svenne.
“E ce l’avevi pure detto, a ‘sta marmocchia, de no’ spaventasse” rise la cacciatrice di pirati, aiutando anche il suo compagno a tornare su.
Il mezzelfo acquatico rifiutò la sua mano tesa in aiuto, con un certo sdegno, e tornò sul ponte della nave con un’acrobazia aggraziata.
“E che fa, Betz, è andata così” commentò, stringedosi nelle spalle. “Te la sei presa, capitano?”
L’uomo al timone grugnì di nuovo. Non gli importava un gran che. Aveva visto cose peggiori di una ragazzina terrorizzata dal suo aspetto.

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Capitolo 32
*** 31. Yourself as Fae ***


31. Yourself as Fae


Sotto-genere: comico
Ambientazione: nostro mondo versione fey


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Trovare una partnership per l'inktober non era una questione da poco. Era importante trovare una fata capace di disegnare e che avesse voglia di farlo piuttosto celermente.
La Fata dei Lavori Fatti Presto e Bene e Gratis sarebbe stata l'ideale, ma in realtà non esisteva. Era solo un modo di dire ironico: "Ah! Chiedilo alla Fata dei Lavori Fatti Presto e Bene e Gratis!", proverbiale quanto la famosa Erba Voglio che non cresce neanche nel giardino del re. Anche nel mondo delle fate c'erano dei limiti.
Ma io non mi sarei arresa.
L'inktober era tradizionalmente una cosa da disegnatori, non da scrittori, ma capitava ogni tanto che qualche disegnatore allegasse una breve storia sotto ai suoi disegni. Mi sarebbe piaciuto dividere il compito: a me le storie, a qualcun'altra i disegni. Dopotutto era un compito perfetto per me, la Fata dei Lavori Che Non Portano Guadagno. In qualche modo dovevo pur buttare via il tempo che non avevo.
Proprio mentre ci pensavo, la mia cellulira iniziò a suonare da sola. Afferrai lo strumento musicale con entrambe le mani, osservando le corde che, pizzicate da una forza invisibile, creavano un’armonica melodia. L’aria fra le corde cominciò a vibrare e poco dopo ricreò l’illusione di un’altra fata, che teneva in mano la sua cellulira come io tenevo la mia.
Era la mia amica Erika, la Fata dei Disegni Autodeprecati.
“Ehi, ciao. Scusa se ti disturbo…”
“Non mi disturbi” la rassicurai. “Cosa posso fare per te?”
“Hai visto che figata certe liste dell’inktober di quest’anno? Non mi dispiacerebbe partecipare.”
Drizzai le orecchie: non me lo aspettavo, da lei.
“Potremmo lavorare insieme, che dici? Tu disegni, io scrivo dei brevi racconti? So che l’inktober è una cosa per disegnatori e non per scrittori, ma in cambio potrei darti spazio sulla mia pagina di Feybook, e avresti un po’ di visibilità.”
“Sì… oddio… la cosa mi fa un po’ paura, i miei disegni non sono bellissimi…”
“Sono belli eccome! Guarda la Fata della Vuota Autocelebrazione, si fa forse di questi problemi?”
“Eh, c’hai ragione, ma io mica voglio essere come lei…”
“Non sarai mai come lei, Erika” scrollai le spalle e la cellulira oscillò, facendo andare fuori fuoco l’immagine. “Ma potresti imparare ad avere un po’ della sua faccia tosta. Giusto un po’.”
“Hm… hai ragione… posso farcela se lavoriamo insieme.”
“Io ho bisogno di te per avere una scusa per pubblicare, si è mai visto un inktober senza disegni?”
Erika sorrise, e io in quel momento seppi che potevamo farcela.
“Va bene! Ma dobbiamo scegliere una lista! Quella ufficiale non è male, ma vorrei qualcosa di più fantasy…”
La lista Faerie. Era perfetta per noi. Giusto un poco fuori dalla sua comfort zone dei soggetti che ritraeva di solito, ma non proibitiva; da parte mia, abbastanza familiare da permettermi di scrivere storie brevi sui miei personaggi ricorrenti, ma anche abbastanza aliena da costringermi a scrivere anche storie diverse dal solito.

Le cose andarono abbastanza lisce, per i primi dieci giorni o giù di lì. Ogni tanto Erika ammetteva perfino che qualcuno dei suoi disegni le piaceva.
Forse non sarà per sempre la Fata dei Disegni Autodeprecati, sperai fra me e me. Vorrei proprio vedere questo cambiamento, anche a costo di vederla diventare la Fata dei Disegni Troppo Belli Per Essere Pubblicati Gratis Sulla Tua Misera Pagina Feybook Con Settecento Fan Scarsi. Certo che sarebbe davvero molto situazionale. A noi fate non è permesso essere patrone di ambiti così ristretti. Oh, allora forse sarà solo la Fata dell’Arte Giustamente Retribuita. Lo spero tanto. Mi piacerebbe che almeno una di noi riuscisse a fare della sua arte un lavoro.
La mia cellulira trillò. Ormai ci sentivamo tutti i giorni, per coordinarci con il lavoro, ed ero diventata capace di intuire il suo umore dal tipo di melodia che mi inviava. Quel giorno percepii insoddisfazione e una punta di senso di colpa.
“Non so se ce la faccio con il giorno Tredici” mi confessò, appena la sua immagine si formò sulle corde vibranti. “Non sono proprio ispirata, non ho idee.”
“Ma non preoccuparti” cercai di rassicurarla. “Molti artisti saltano qualche giorno, non è mica facile produrre disegni a spron battuto…”
“Ma tu mi hai già fatto leggere la storia” Erika si scusò mille volte “mi dispiace di non fare in tempo.”
“Tranquilla, fatuzza, oggi è successo a te ma magari domani succederà a me.”
Le sue graziose ali tremarono per lo stress. “Sei sicura?”
“Certo. Nessun problema. Potrebbe succedere ancora, i nostri pochi fan se ne faranno una ragione. Io però vorrei pubblicare comunque il racconto su EFP” proposi, parlando del sito su cui pubblicavo le mie storie, Ethereal Feyfiction’s Page.
“Ci mancherebbe!”
La nostra conversazione si chiuse così. Abbassai la cellulira e ripresi in mano il kelpiuter; era uno strumento molto utile, ma capace di trascinarti nelle profondità di internet se non stavi attenta. Io però in quel momento non avevo tempo per navigare in internet. Dovevo scrivere.
Avevo detto la verità a Erika: oggi era toccato a lei, magari domani sarebbe toccato a me…

Giorni dopo, sdraiata sul divano in una posizione scomoda (colpa delle ali), afferrai mestamente la mia cellulira. Il mio triste pronostico si stava avverando. Ero a malapena riuscita a finire il racconto per il giorno Venti, consapevole che Erika probabilmente non avrebbe fatto in tempo a disegnarlo e inchiostrarlo. Avevo già pronto il racconto per il Ventuno, più tutti quelli dal Ventitrè al Ventisei, ma nient’altro fino all’ultimo giorno.
La mia cellulira inviò un trillo funebre a Erika.
“Ciao, Fata delle Aspettative Che Sto Per Deludere” mi annunciai con voce atona, appena la sua immagine si formò nello strumento. “Qui è la Fata della Sindrome Premestruale Che Ammazza La Voglia Di Vivere, e degli Impegni Lavorativi Che Non Lasciano Tempo Libero. Mi mancano sei storie… cinque, sto scrivendo la Trentuno, più o meno… ma non so se riuscirò a produrle tutte in tempo. Settimana prossima sarò in viaggio per mezzo reame fatato.”
Erika mi guardò con un’espressione di profonda comprensione.
“Non ti preoccupare. Molti artisti saltano qualche giorno, l’hai detto tu. Magari in quei giorni pubblicheremo il Tredici che è rimasto indietro… e poi non lo so, magari mi dai la scaletta delle storie e mi porto avanti con i disegni.”
La scaletta, ripetei nella mia mente. Non faccio mai la scaletta. Parto con un’idea vaga, metto i personaggi nella situazione giusta, e poi fanno tutto loro. Spesso le storie non sono andate come le avevo preventivate, hanno vita propria.
“Non so. Farò quello che posso, Erika. Grazie.”
“E poi, oh, nessuno ci costringe. L’inktober è volontario. Nessuno ci paga.”
“È irrilevante, sono la Fata dei Lavori Che Non Portano Guadagno. Se mi metto in testa di fare un lavoro, lo devo fare bene anche se nessuno mi costringe.”
“Vorrà dire che l’anno prossimo faremo meglio.”
Contemplai quell’idea, che doveva essere piena di speranze e buoni propositi; in realtà l’idea di un altro inktober mi faceva sentire esausta. L’anno prossimo era solo un punto grigio in mezzo a una nebbia grigia che la gente ottimista chiama futuro.
“Sì. Forse. Vediamo.”
“Dai, è il nostro primo inktober, è normale che non vada tutto liscio. Mi sta piacendo un sacco collaborare con te.”
Questo riuscì a tirarmi fuori un sorriso genuino.
“La cosa è reciproca!”
“Mi piacerebbe un sacco continuare a disegnare i tuoi personaggi.”
“Erika, ti ho sempre detto che vorrei tantissimo che tu illustrassi i miei libri. Sai, quelli che stampo ma non posso vendere per problemi di copyright” ridacchiai “ma al momento non ti potrei pagare. Sono la Fata dei...”
“Lo so, dei Lavori Che Non Portano Guadagno” concluse al posto mio. “Ma non importa, a me piacerebbe. E poi magari un giorno potrei vendere i segnalibri con le illustrazioni dei libri, o qualcosa del genere. Quelli non sono sotto copyright.”
Il suo ottimismo cominciò a illuminare la stanza meglio di un fuoco fatuo. Non tanto per l’idea in sé, non sarebbe stata molto remunerativa, ma perché non era molto frequente sentirle esprimere fiducia nelle sue capacità.
“Posso sperare che tu smetta di essere la Fata dei Disegni Autodeprecati, e diventi la Fata Dei Disegni Ufficiali Di Un’Altra Fata Spiantata?”
“Se me lo chiedi in modo ufficiale…” mi punzecchiò.
“Te lo sto chiedendo in modo ufficiale!”
“Con l’anello e tutto?”
Risi per il paragone con le relazioni romantiche.
“Ah, se vuoi. Partnership ufficiale, con l’anello e tutto. Ma sono povera, sarà un anello che si trova nelle patatine.”
Anche Erika rise. In realtà le avrei dato volentieri tutto il sacchetto di patatine, non è che ne vada matta.
“Penso che ce la faremo, con l’inktober, in qualche modo” annunciai, ritrovando l’ottimismo. “Forse un po’ in ritardo, ma ce la faremo.”

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